LA PROPAGANDA POLITICA AL TEMPO DI COMMODO: ERCOLE, L’ANFITEATRO, UNA COLONIA (180-192 d.C.)

Commodo nell'arena

di Rebecca Goldaniga

1. Una figura storica complessa

Am I not merciful? Questo è l’interrogativo che pone l’imperatore Commodo in una fra le più significative scene de Il Gladiatore (2000) di Ridley Scott. Dapprima l’imperatore rivolge la domanda alla sorella, quasi sussurrandole all’orecchio e accarezzandole le labbra. Un attimo dopo, le sue parole si trasformano improvvisamente in un grido che esprime tormento e follia, mentre Commodo stringe imperiosamente in mano il volto di Lucilla. La cinepresa esclude la figura dell’Augusta dal campo e in esso resta solamente il primo piano di Commodo, illuminato lateralmente. Una parte del suo viso rimane nell’ombra, come se il regista stesse in qualche modo attuando una sorta di deformazione (insieme fisica e psicologica) della sua immagine. La sequenza di «Am I not merciful» sembra quindi essere interamente giocata sull’idea di un’identità doppia. Commodo appare ora pacato, ora collerico; ora fragile, ora crudele e il personaggio creato dalla regia di Ridley Scott (e dalla straordinaria interpretazione di Joaquin Phoenix) pone l’accento su una figura storica che ancora oggi appare estremamente complessa. Del resto, il ritratto di una personalità del tutto eccezionale non è una mera invenzione hollywoodiana, ma è la stessa immagine di monarca eccentrico e tormentato che emerge da fonti quali Erodiano, Cassio Dione e l’autore dell’Historia Augusta. Persino il celebre ritratto conservato a Palazzo dei Conservatori restituisce un’idea di dualità: il busto di Commodo spicca fra le opere collocate presso la galleria degli Horti Lamiani in quanto, pur trattandosi di un ritratto ancora in continuità col realismo tardo ellenistico, si è davanti a un monarca che non osserva lo spazio davanti a sé e non interroga un ipotetico fruitore mediante il suo sguardo. Al contrario, attraverso quest’ultimo, Commodo sembra partecipare a una realtà altra, una dimensione che rimane inaccessibile e sconosciuta allo spettatore. Egli è quindi un essere a metà fra una realtà sensibile e una realtà ultraterrena. Non solo: Commodo è senza alcun dubbio un imperatore romano che tuttavia viene rappresentato con le sembianze di una divinità greca, ovvero con gli attributi di Ercole. La leontè annodata sul petto, i pomi delle Esperidi nella mano sinistra, la clava poggiata sulla spalla, la grande massa di riccioli sapientemente resa col trapano, portano ancora una volta ad interrogarsi su un personaggio unico (metà principe, metà gladiatore, metà uomo e metà dio). Ma soprattutto, invitano a riflettere sul significato dell’identificazione con una divinità come Ercole. Infatti, l’accostamento all’Hercules Romanus (che appare spesso all’interno delle fonti come il frutto di un delirio mistico del sovrano) in realtà, come dimostra lo studio della prof.ssa Cristina De Ranieri, potrebbe porsi nell’ottica di un disegno politico ben delineato. De Ranieri afferma che «da troppo tempo ormai la figura di Commodo viene quasi unanimemente considerata come un parto mostruoso della storia, un incidente di percorso: l’accusa più ricorrente è quella di aver infranto (con una sconsideratezza pari alla sua ferocia) gli aurei equilibri dell’età antonina, ma tale interpretazione è frutto di un persistente condizionamento operato dalla storiografia antica» (De Ranieri, 1997). Pertanto, prima di indagare in merito alla politica religiosa messa in atto da Commodo, non resta che soffermarsi sulla natura delle fonti che parlano di quest’ultima.

2. Commodo all’interno delle fonti: il semidio, il tiranno, il mostro

Come già accennato la principale testimonianza relativa al principato commodiano può essere rappresentata dal testo di Erodiano, la cui attendibilità, tuttavia, rimane un problema aperto. Alessandro Galimberti afferma che Erodiano nacque probabilmente attorno al 180 d.C. (anno in cui Commodo salì al trono). Di conseguenza, appare difficile che tutta la trattazione relativa ai primi anni di regno sia frutto dei ricordi personali dell’autore. L’ipotesi di Galimberti è quella che egli possa essersi ispirato a testimonianze esterne, prima fra tutte la Storia Romana di Cassio Dione (Galimberti, 2014). Del resto è lo stesso Erodiano ad alludere, all’interno del proemio alla sua narrazione, ad opere altre (Hdn., I, 1-3). È vero che in esso Erodiano rivendica il suo status di testimone oculare degli eventi narrati, ma Galimberti sottolinea come in realtà questo modulo sia già presente in Dione (Dio. Cass., LXXII, 18, 3) e ricorda come, anche secondo Filippo Cassola, il primo avvenimento al quale Erodiano fu realmente presente sarebbero i giochi circensi offerti da Commodo nell’autunno del 192 d.C. (Cassola, 1967). Dunque Erodiano, secondo la tesi di Galimberti, avrebbe ripreso in parte il testo di Dione, ma non in maniera pedissequa. Infatti, egli pone in evidenza una sostanziale differenza fra i due autori affermando che il punto di vista di Erodiano è anzitutto quello di uno spettatore, impressionato dalla stravaganza e dagli spettacoli offerti dal principe (Hdn., I, 15, 2-7). Al contrario, quello di Dione sarebbe il punto di vista di un senatore che teme per la propria incolumità e vede nel principato commodiano una costante minaccia (Galimberti, 2014). Ancora una volta emerge il ritratto di una figura doppia che in Erodiano (sebbene quest’ultimo si ponga come fonte ostile a Commodo) non manca di suscitare un plauso per le esibizioni all’anfiteatro (Hdn., I, 4, 6-7; I, 7, 4-5; I, 15, 1-6; I, 16, 12). Invece, in Dione ella sembra essere anzitutto quella di un tiranno crudele e sanguinario (Dio. Cass., LXXII, 21, 1-3). Un’immagine ulteriormente negativa viene poi delineata dalle pagine dell’Historia Augusta. Invero, se secondo Erodiano e Dione la degenerazione del sovrano si sarebbe verificata solo in età adulta, in relazione all’influenza di cattivi consiglieri, per il biografo dell’HA Commodo si presentò come la summa di tutti i vizi fin dal momento della sua nascita. Egli pone anzitutto l’accento sulla figura di Faustina Minore definendola uxor infamis e raccontando che l’imperatrice divenne folle a causa di un’insana passione per un gladiatore (HA, Vita Marci, XIX, 11). Secondo l’anonimo, il male poté essere curato solo grazie a un macabro rituale: Marco Aurelio dovette prima uccidere il gladiatore e in seguito avere un amplesso con la moglie, dopo averne cosparse le parti intime con il sangue del rivale. È da questa unione che secondo l’Historia Augusta sarebbe nato il futuro imperatore. Tuttavia, quella che si presenta unicamente come una storia legata al gusto per l’orrido e per il macabro può fornire un punto di vista ancora diverso rispetto a quello di Dione. Per quest’ultimo, (come già detto), Commodo è soprattutto un tiranno, mentre per il biografo dell’HA egli è a tutti gli effetti un monstrum. Il rito attraverso cui Marco Aurelio placò la follia della moglie avrebbe prodotto una sorta di essere ibrido: metà principe e metà gladiatore. Questa nascita illegittima ed eccezionale avrebbe quindi spiegato la totale depravazione del sovrano e la sua attrazione maniacale per gli spettacoli gladiatori. Secondo Maurizio Bettini infatti, i Romani consideravano il ventre femminile anzitutto come un terreno, volto ad accogliere il seme maschile. Secondo le credenze dell’epoca, la madre non contribuiva in alcun modo al patrimonio genetico del nascituro (che proveniva interamente dal padre). Di conseguenza, nel momento in cui una donna accoglieva dentro di sé semi diversi, essi potevano mischiarsi e dare vita a dei monstra, attraverso ciò che Bettini definisce un incesto di secondo grado (Bettini, 2009). Se si considera poi che il concepimento di Commodo nel 163 d.C. assunse il carattere di un parto gemellare (il gemello di Commodo, T. A. Fulvo Antonino, morì all’età di quattro anni) si può ben comprendere come questa fu la prova (per una parte almeno dell’opinione pubblica) di un adulterio, che poté essere interpretata allo stesso modo di un cattivo presagio. Quindi, non a caso, il biografo dell’HA sottolinea che, durante la sua gravidanza, Faustina sognò di dare alla luce due serpenti, dei quali uno più feroce rispetto all’altro (HA, Vita Commodi, I, 1-3).

Busto Commodo come Ercole
Busto di Commodo raffigurato come Ercole, Musei Capitolini, Roma (fonte: autore, José Luiz Bernardes Ribeiro; licenza CC BY-SA 4.0)

È evidente che si è agli antipodi rispetto alla testimonianza di Erodiano in cui è lo stesso Commodo a parlare e ad affermare che «io solo fui generato nella dimora di un sovrano, e non fui suddito nemmeno in fasce: appena venni alla luce mi avvolse la porpora regale, e il sole mi vide nello stesso istante uomo e imperatore. Considerando queste cose, ben a ragione dovete amare colui che è sovrano per diritto di nascita, e non per una scelta arbitraria» (Hdn., I, 4, 5-6). All’interno della testimonianza erodianea, non appena salito al trono, Commodo dichiara di essere investito del diritto a regnare in quanto diretto discendente di Marco «che è ormai salito al cielo, si accompagna agli dei e siede nel loro consesso». Nondimeno, egli si pone, in questo caso, come un divi filius. Per il biografo dell’HA invece, si è in presenza di un personaggio che nasce già con le caratteristiche di un monstrum. Di conseguenza dalle fonti antiche emergono tre ritratti completamente differenti dello stesso monarca: quello di un semidio, quello di un tiranno, quello di un monstrum.

3. L’accostamento a Ercole, i duelli nell’arena

I fenomeni che hanno reso celebre, ma anche cupa e tragica, l’immagine di Commodo (esibizioni nell’arena e accostamento ad Ercole) secondo Oliver Hekster si posero in realtà come due forme propagandistiche di espressione di una semi divinità, tra loro complementari. Tuttavia, resta da chiedersi il perché di un così forte interesse per la figura erculea. Erodiano parlando della politica religiosa messa in atto da Commodo afferma che (egli) «giunse a tal punto di follia e di stoltezza da rifiutare il nome paterno e da farsi chiamare, anziché Commodo, figlio di Marco, Ercole, figlio di Giove. Abbandonato il costume degli imperatori romani, indossava una pelle di leone, reggendo in mano una clava; ma insieme portava un mantello di porpora intessuto d’oro […]. Così camuffato si mostrava al pubblico. Volle inoltre cambiare il nome dei mesi dell’anno, abolendo i nomi tradizionali e creandone di nuovi, tratti dai propri appellativi, la maggior parte dei quali si riferiva, naturalmente, ad Ercole» (Hdn., I 14,8-9). Erodiano considera l’accostamento all’Hercules Romanus come un fenomeno a sé stante e lo addita a fattori quali la follia e la stoltezza del sovrano, non relazionandolo ad un progetto politico precostituito. Ma come già accennato, lo studio di Cristina de Ranieri, dimostra invece che le misure volte ad una divinizzazione dell’autorità imperiale si inserirono, durante il principato commodiano, nell’ottica di un vero e proprio rinnovamento delle strutture alla base dello Stato. De Ranieri afferma che l’identificazione con Ercole da un lato si pose come la ripresa di un tema già sviluppato dai predecessori di Commodo, mentre dall’altro rappresentò lo stadio di un processo volto alla preparazione della cosiddetta rifondazione commodiana. Il primo significato che ella adduce al culto dell’Hercules Romanus trova conferma nello studio di Domitilla Campanile, che dimostra come tale divinità avesse assunto da tempo un’importanza tutt’altro che marginale per gli imperatori romani. Campanile afferma che Ercole ebbe una rilevanza degna di nota già per Augusto e Agrippa, che ne esaltarono soprattutto il ruolo di pacificatore e civilizzatore per creare un parallelo fra i trionfi erculei e la recente vittoria ad Azio. In seguito, il culto di Ercole, fu ripreso da Traiano e Adriano (che essendo due sovrani ispanici, entrambi nativi di Italica) lo arricchirono con caratteri propri del culto dell’Ercole Melqart di Gades (una divinità punica molto venerata nella penisola iberica). Ercole, tuttavia, non fu fonte d’ispirazione solo per imperatori e giovani principi, ma anche per filosofi e pensatori. Sofisti, Cinici e Stoici infatti vedevano in Ercole colui che è kalos kai agathos, ovvero quella figura dall’aspetto meraviglioso e dalle membra proporzionate e perfette in cui si rifletteva un modello etico. Per i pensatori del mondo antico, Ercole rappresentava l’eroe in lotta con le proprie passioni, colui che era chiamato a scegliere fra una vita virtuosa e un’esistenza fatta di agi e mollezze, come attesta il celebre mito di Ercole al bivio, narrato dal sofista Prodico e da Senofonte (Campanile, 2009). Tuttavia, Campanile sottolinea che tale mito, in età traianea, subì una variazione. Nell’orazione Sulla regalità di Dione Crisostomo infatti, Ercole non era più chiamato a scegliere fra vizio e virtù, ma bensì fra regalità e tirannide (Dio. Chrysos., I, 49 e 56). Il mito di Ercole al bivio passò quindi dall’essere un insegnamento universale, al configurarsi come un ammonimento pensato per i principi romani (Campanile, 2009). Ercole assunse pertanto un carattere fino a quel momento inedito: egli non fu più l’eroe che sceglieva la virtù, ma il sovrano che rifiutava la tirannide. Quindi si può ben comprendere come dall’età traianea in poi, questa figura si legò in modo ancor più stretto a quella dei successori di Romolo. Ad ogni modo, secondo Campanile, solo con Adriano si ebbe per la prima volta un’identificazione totale tra l’Hercules Romanus e il princeps (Campanile, 2009). Adriano infatti, (preannunciando per molti aspetti, la propaganda politica commodiana) fu il primo imperatore romano a farsi ritrarre nei panni di Ercole (come attesta la monetazione ufficiale dell’epoca) e attraverso attributi quali la clava e la leontè, si presentò ai suoi sudditi come il sovrano virtuoso che rifiutava la tirannide e garantiva la pace, ma che al tempo stesso preparava il terreno per una venerazione dell’autorità imperiale, che si discostava dalla tradizione corrente e sembrava invece fare riferimento a modelli politici ed ideologici di stampo orientale. Con Commodo, come già accennato, l’accostamento ad Ercole assunse un significato ancora diverso. De Ranieri infatti, lo inserisce nell’ottica della cosiddetta Rifondazione di Roma, attuata fra il 191 e il 192 d.C. Tale fenomeno non assunse i caratteri di una deduzione fisica, ma piuttosto quelli di un rituale simbolico legato alla convinzione, da parte di Commodo, di poter guidare l’impero verso una nuova era (che secondo De Ranieri, sarebbe stata caratterizzata dall’adozione di un nuovo modello imperiale, ispirato a quello alessandreo) (De Ranieri, 1997). Il sogno di Commodo, per cui, sarebbe stato quello di poter porre le basi per la creazione di un impero universale e teocratico in cui il sovrano sarebbe stato designato come tale, non più per una scelta arbitraria, ma per volontà divina e in cui egli avrebbe rivestito il ruolo di conditor, risiedendo in una città che avrebbe portato il suo nome (fungendo da polo unificante per le diverse realtà sociali, politiche, culturali e religiose dello Stato). Un’utopia quest’ultima, che solo con Costantino avrebbe avuto modo di realizzarsi. Di conseguenza, De Ranieri mette in luce come la rifondazione commodiana, non fu «il capriccio fine a se stesso» delineato dalle fonti ma, un rituale volto ad instaurare una nuova ideologia imperiale, preparata dallo stesso principe attraverso diversi stadi, sapientemente studiati. Secondo il biografo dell’HA, Commodo avrebbe anzitutto dichiarato l’inizio di un saeculum aureum commodianum tramite un decreto del Senato (HA, Vita Commodi, I, 14,3). Tuttavia, anche quello dell’età aurea, favorita dagli dei, non fu un tema nuovo. Esso era già stato sviluppato dalla stessa propaganda antonina: sotto Adriano fu istituito il Natalis Urbis e vennero introdotti i culti di Venus Felix e Roma Aeterna, mentre sotto Antonino Pio si celebrarono i novecento anni dalla fondazione di Roma. Quindi, l’idea di una nuova era, da tempo veniva associata alla dinastia antonina. Commodo tuttavia compì un passo ulteriore rispetto ai suoi predecessori: dapprima proclamando ufficialmente l’inizio del proprio secolo aureo e in seguito, nel 185 d.C., assumendo l’appellativo di felix, che prima di lui era stato solo di Silla e che per l’appunto, indicava un predestinato, un individuo designato a regnare per volontà degli dei e che quindi, non solo era garante di un ordine politico, ma anche e soprattutto di un ordine cosmico. Tale ideologia, secondo De Ranieri, si sarebbe poi legata al fenomeno del commodianismo, che a partire dal 190 d.C. portò l’imperatore ad attribuire i propri appellativi, dapprima alle strutture legate allo Stato (colonie, organismi locali, legioni, il Senato) e in seguito ai mesi dell’anno, attuando una riforma del calendario. Commodo, in questo modo, si sarebbe posto come imperatore e al tempo stesso come signore del tempo (De Ranieri, 1997).

Busto di Commodo
Busto di Commodo, Musei Capitolini, Roma (fonte: Archivio Scacchiere Storico)

Secondo De Ranieri, la preparazione di una nuova ideologia imperiale sarebbe poi proseguita con il cambiamento dei nomina imperiali da parte del principe. Nel 191 d.C., infatti, egli avrebbe deposto il nomen mutuato dal padre (Marcus Aurelius Commodus Antoninus) per riassumere quello originario (Lucius Aelius Aurelius Commodus). Secondo la tesi di De Ranieri tale misura ebbe un’importanza fondamentale: tramite la riadozione del nome originario Commodo non si sarebbe più posto semplicemente come un divi filius, ma avrebbe affermato una propria divinità, non più mediata e riflessa dalla figura del padre. A conferma di tale ipotesi andrebbe la celebrazione dei primi decennalia nel 190 d.C. (che escluse il periodo della coreggenza con Marco Aurelio). Una volta affermata ufficialmente la propria natura divina, Commodo sarebbe di conseguenza giunto all’accostamento con la figura di Ercole. De Ranieri sottolinea infatti come il termine Hercules Romanus andò probabilmente ad aggiungersi alla titolatura imperiale. È evidente che riprendendone il culto, Commodo si pose come il diretto prosecutore di una politica ideologica e propagandistica già portata avanti dai suoi predecessori. Egli si pose come il sovrano giusto che rifiutava la tirannide ma al contempo come un Hercules dal carattere nuovo. Ovvero come un Hercules conditor, conferendo a tale divinità una luce del tutto originale. De Ranieri sottolinea infatti come Ercole, all’interno della mitologia romana, fosse connesso alle origini stesse dell’Urbe. Nell’Eneide infatti, Evandro narra ad Enea la vicenda di Ercole e Caco dicendogli che là dove Caco era stato vinto, i Latini eressero l’Ara Maxima in onore dell’eroe straniero (Virg., Aen., VII 362-363 e 271-272). Tito Livio poi ricorda come Romolo, una volta fondata la città, consacrò l’altare compiendo dei sacrifici ad Ercole (Liv., I, 7,3 e 15). È pertanto evidente che Ercole assunse anche il carattere di una divinità protettrice dell’Urbe. Tuttavia, resta da chiedersi perché Commodo, imperatore romano, preferì associare il ruolo di conditor ad Ercole piuttosto che alla tradizionale figura di Romolo, scegliendo di non fare riferimento ad una divinità locale, ma straniera. Tale decisione da parte del principe è stata spesso associata alla volontà di ispirarsi a modelli politici e culturali di stampo marcatamente orientale (al fine di abbondonare la tradizione romana), ma De Ranieri afferma che nonostante l’instaurazione di un forte culto della personalità, legato ad una divinità greca, Commodo non abbandonò mai la sua romanitas. «Non bisogna infatti intendere l’appellativo Romanus nei termini di una sorta di compensazione, nel momento in cui l’imperatore sembrò spalancare le porte alle ideologie orientali e abbandonare la tradizione corrente» (De Ranieri, 1997). La figura di Hercules, nel ruolo di Romanus conditor, si sarebbe relazionata alla volontà, da parte di Commodo, di creare una sorta di divinità universale in cui sia la tradizione romana, sia la cultura orientale, potevano riflettersi. Hekster afferma infatti che «he was simultaneously hero and demi-god; Chtonic and Olympian, protagonist in comedy and tragedy, symbol of philosophy and brainless brute force» (Hekster, 2002). Di conseguenza, Ercole ben rispondeva alle esigenze ideologiche e propagandistiche della reggenza di Commodo, che probabilmente non intendette sostituire il modello politico romano con uno orientale, ma semplicemente creare una sintesi fra questi in modo da potervi conferire un carattere universale. Quindi l’accostamento all’Hercules Romanus conditor piuttosto che al novus Romulus sarebbe stato dato dal fatto che Romolo era una divinità dal carattere nazionale, mentre Hercules poteva per l’appunto porsi come un conditor universale che avrebbe garantito non solo la grandezza e l’Aeternitas di Roma, ma di tutto l’impero. Ercole si pose quindi, per Commodo, come una figura alla quale tutte le diverse realtà dell’impero potevano guardare. Probabilmente il culto dell’Hercules Romanus non fu un fattore unificante solo per gli svariati contesti politici, religiosi e culturali dell’impero, ma svolse una funzione catalizzante anche in relazione ai contesti sociali. Egli, infatti (come si evince dalle parole di Hekster) era dio dei filosofi e degli intellettuali, ma anche incarnazione e al contempo celebrazione della forza bruta. Un aspetto, questo, che poteva avvicinare all’Hercules Romanus (e quindi a Commodo) anche gli strati più indigenti della plebe, che costituivano il pubblico naturale dei ludi gladiatores. Perciò le esibizioni nell’arena non andrebbero considerate come la mera espressione di una personalità eccentrica, ma come un fenomeno legato ad un disegno politico ben preciso. Commodo, di conseguenza, si sarebbe posto, attraverso una propaganda incentrata sul culto di Ercole, come il novus conditor per l’Oriente e l’Occidente, per Roma e per le province, per i liberi e per gli schiavi. Va inoltre osservato che il mito del novus conditor, dell’alter Romulus, non fu appannaggio del principato commodiano, ma ebbe in realtà un ruolo fondamentale durante tutta l’età imperiale e iniziò a diventare strumento di propaganda politica già al tempo di Augusto. Ottaviano infatti (pur sempre stando ben attento ad allontanare da sé i sospetti di ambizione alla tirannide) si pose di fatto come un novus Romulus, che diede avvio ad una nuova era dopo una stagione di guerre civili. Un processo analogo si innescò con la salita al potere di Vespasiano, che a sua volta si pose come un novus Augustus, dopo il periodo di lotte interne seguito alla morte di Nerone. De Ranieri sottolinea poi come il ruolo di novus conditor fosse stato conferito a Commodo già sotto Marco Aurelio. Dalle pagine dell’HA apprendiamo infatti che nel 175 d.C., all’età di quattordici anni, Commodo fu chiamato dal padre sul fronte danubiano ove ricevette la toga virilis il 7 luglio die quo in terris Romulus non apparuit (HA, Vita Commodi, II, 2). In questo modo, non solo Marco Aurelio presentava l’erede al trono come un novus conditor, ma affermava anche il suo personale diritto alla divinizzazione.

Medaglione bronzeo di Commodo
Medaglione bronzeo di Commodo, con al diritto la testa volta a destra dell’imperatore ricoperta dalla leontè. Al rovescio, Commodo, nelle sembianze di Ercole, regge una clava con la sinistra e con la destra guida una coppia di buoi mentre tracciano un solco con l’aratro; legenda, HERC[VLES] ROM[AE] CONDITORI PM TR P XVIII (fonte: © The Trustees of the British Museum. Shared under a CC BY-NC-SA 4.0 licence. Immagine modificata)

4. Colonia Commodiana

Quindi è chiaro come non si debba intendere il tentativo di divinizzazione dell’autorità imperiale messo in atto da Commodo, come un qualcosa in aperto contrasto con la tradizione corrente. Al contrario, esso si pose come una ripresa (portata agli estremi) dell’ideologia propagandistica precedente. Ad ogni modo, secondo lo studio di De Ranieri è solo nel 192 d.C. (poco tempo prima della morte del principe) che fu di fatto portato a termine il rituale della rifondazione. Il biografo dell’HA ci suggerisce che essa si legò ad una significativa (seppur di breve durata) ridenominazione dell’Urbe, che assunse il titolo di Colonia Commodiana (HA, Vita Commodi, I, 8,6-7). Ancora si discute in merito alla questione se questo cambiamento comportò di fatto un mutamento dello status giuridico di Roma, o delle trasformazioni sul piano amministrativo. L’ipotesi di De Ranieri è quella secondo cui si trattò, ancora una volta, di un atto meramente simbolico: attribuendo il suo nome all’Urbe, Commodo intendeva alludere ad «una rinascita della capitale e infondere in essa una nuova vita divina, grazie all’Aeternitas ed alla Felicitas derivanti dall’Hercules Romanus» (De Ranieri, 1997). Ella sottolinea infatti come, anche secondo Grosso, un declassamento della capitale allo status di semplice colonia, non era compatibile con la volontà da parte dell’imperatore di conferire all’Urbe quel grande prestigio, derivante dalla divinità del suo Hercules Romanus conditor. Il fine della ridenominazione della capitale andrebbe quindi ricercato nel mito dell’altera Roma, che percorse la storia imperiale da Caligola a Nerone e che (come già esposto) avrà modo di realizzarsi solo con la fondazione di Costantinopoli (De Ranieri, 1997). Di conseguenza, si potrebbe forse guardare a Commodo come ad un monarca che intuì le esigenze di rinnovamento dell’impero, molto prima dell’età costantiniana (ma che evidentemente non ebbe né il tempo, né la possibilità di soddisfarle in quanto il conservatorismo romano era ancora fortemente radicato). Pertanto è possibile che la stagione di riforme inaugurata da Commodo, in realtà non sia stata compresa dai suoi contemporanei, che la interpretarono come un tentativo d’instaurazione di un regime tirannico, in aperto contrasto con la romanitas. Ciò avrebbe contribuito a far giungere fino all’età contemporanea un ritratto confuso e non oggettivo del princeps.

Rebecca Goldaniga

Rebecca Goldaniga è una studiosa dell’antichità romana. Si occupa soprattutto delle dinamiche sociali e culturali riguardanti il mondo latino. Ha un debole per gli imperatori “eccentrici” e per i gladiatori. A Netflix preferisce i kolossal peplum.

Bibliografia

Bettini M. 2009, Affari di famiglia: la parentela nella letteratura e nella cultura antica, Bologna; Campanile D. 2009, Eracle e Adriano: una nota sulla regalità, “Studi Classici e Orientali” 55, pp. 249-260; Catenacci C. 2012, Il tiranno e l’eroe. Storia e mito nella Grecia antica, Roma; De Ranieri C. 1997, Renovatio Temporum e Rifondazione di Roma nell’ideologia politica e religiosa di Commodo, “Studi Classici e Orientali” 45, pp. 329-368; Galimberti A. 2014, Erodiano e Commodo. Traduzione e commento storico al primo libro della storia dell’impero dopo Marco, Göttingen; Hekster O. 2002, Commodus. An emperor at the Crossroads, Amsterdam.

Immagine di copertina: L’imperatore Commodo lascia l’arena alla testa dei gladiatori, di E.H. Blashfield. The Hermitage Museum and Gardens, Norfolk (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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