L’IMMAGINARIO RELIGIOSO IN MITOLOGIA E RITUALISTICA DELLE MAFIE

Picciotti di Cosa nostra nell'Ottocento

di Daniela Tedone

  1. La leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso

Nello sviluppo di ogni organizzazione mafiosa c’è sempre da tenere conto della assoluta necessità di trovare le fondamenta e le radici mitologiche della propria esistenza (Ciconte, Forgione, Patti, Grasso, 2012).

Mafia, ‘ndrangheta e camorra si servono di un copioso apparato leggendario, ricco anche se confuso, sapientemente creato al fine di nobilitare le proprie origini e la propria ascendenza e di legittimare ideologicamente la proprie abitudini all’abuso, alla violenza e all’assassinio. I miti e le leggende che nel corso del tempo sono stati inventati sono innumerevoli, ma tutti convergono sul comune obiettivo di restituire una visione accattivante, quanto irrealistica, delle organizzazioni e dei loro fini.

È alla creatività letteraria della ‘ndrangheta che dobbiamo la più popolare ed elaborata ricostruzione delle origini delle mafie, che ne suggerisce una genesi comune. Secondo la leggenda, i fondatori delle organizzazioni sarebbero i tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, membri della Garduna, setta istituita nel 1412 a Toledo, che sarebbero partiti dalla Catalogna e avrebbero elaborato nell’isola di Favignana, in gran segreto per ben 29 anni, le regole della nuova associazione che erano intenzionati a fondare, redigendo le «tavole delle leggi mafiose» (Ciconte, 2015). Terminato il lavoro si sarebbero divisi: Osso avrebbe dato origine alla mafia in Sicilia, Mastrosso alla camorra in Campania, Carcagnosso alla ‘ndrangheta in Calabria (Ciconte, 2008). 

Pare che il motivo della leggendaria fuga dei cavalieri dalla Spagna fosse riconducibile all’omicidio di un uomo, colpevole di aver offeso l’onore di una vergine (Ciconte, 2015). Non è chiaro se l’offesa consistesse in una vera e propria violazione, a ogni modo la scelta di questo espediente si spiega con l’intenzione di qualificare l’associazione quale custode dei valori tradizionali, protettrice dei deboli e riparatrice delle ingiustizie, ponendo le basi di tutto quell’apparato etico mafioso che strumentalizza un ventaglio di principi morali, molti dei quali di ispirazione cattolica, a giustificazione delle proprie modalità brutali. 

È oltremodo interessante evidenziare che, secondo la tradizione, i tre cavalieri rappresenterebbero Gesù Cristo, San Michele Arcangelo e San Pietro (Sales, 2016), identificazione che finisce per attribuire origini nientemeno che divine alle organizzazioni.

Osso, Mastrosso e Carcagnosso
Raffigurazione di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i personaggi che secondo la mitologia mafiosa sarebbero i fondatori della criminalità organizzata (fonte: autore, Arturobm; licenza, CC BY-SA 4.0)

Luigi Malafarina, giornalista e scrittore precursore della denuncia contro le mafie sin dagli anni Settanta, tra i primi  a pubblicare opere sullo studio delle organizzazioni, contribuì alla diffusione di un antico codice della camorra napoletana che esplicita l’intreccio tra il mondo leggendario mafioso e il repertorio cattolico: Gesù Cristo sarebbe incarnato da Osso, San Michele Arcangelo «che con uno spadino in mano teso a bilancia taglia e ritaglia giusto e ingiusto» da Mastrosso, San Pietro «che monta un cavallo bianco davanti alla porta della Società» da Carcagnosso (Ciconte, 2015).

È grazie a questa leggenda che i fondatori delle organizzazioni, uomini sconosciuti e dimenticati, verosimilmente di bassa estrazione sociale e insignificante qualificazione culturale e morale, vengono nobilitati e trasfigurati in molto più che uomini, in antenati divini, universalmente conosciuti e largamente venerati, dall’inestimabile spessore etico.

  1. I Beati Paoli

Tra il 1909 e il 1910, sul «Giornale di Sicilia», venne pubblicato a puntate il romanzo d’appendice I Beati Paoli (Natoli, 1972) di William Galt, pseudonimo di Luigi Natoli. Ristampato dall’editore palermitano Flaccovio con l’introduzione di Umberto Eco negli anni Settanta, l’opera ebbe un successo formidabile, divenendo nota e suggestiva per i palermitani di ogni estrazione sociale.

La leggenda narra di una setta di uomini in abito talare (non è chiaro se appartenessero realmente a un ordine religioso) nata al fine di vendicare le angherie del notabiliato sulla povera gente, che usava riunirsi segretamente di notte nelle cavità sotterranee del centro storico della città di Palermo, il quartiere del Capo, per ergersi a tribunale di giustizia popolare che emanava sentenze di morte da eseguire immediatamente. Ancora oggi, alle spalle della chiesa di Santa Maruzza, in via Vicolo degli orfani, è possibile visitare la bocca della grotta che condurrebbe ai presunti nascondigli misteriosi della setta (Ceruso, 2010). 

L’opera è rappresentativa delle tradizionali dinamiche di diffidenza nei confronti dell’autorità statale che tipicamente contraddistinguono il tessuto sociale del Mezzogiorno (nonostante il fenomeno non si possa geograficamente circoscrivere ad alcune sole aree della penisola), dinamiche peraltro giustificate da innumerevoli ragioni storiche che si rifanno alla questione meridionale, descritte a più riprese dagli studiosi delle organizzazioni mafiose. 

Emarginazione da parte dello Stato, incuria istituzionale e sete di giustizia sono tra le più insidiose ragioni sociali di cui le mafie si servono per giustificare e nobilitare la propria ragion d’essere, e d’essere proprio come sono: associazioni segrete, che non riconoscono e avversano l’autorità dello Stato e che con esso si contendono il monopolio della forza.  

La popolarità dell’opera e la diffusa ammirazione dei personaggi non poteva essere ignorata da Cosa nostra, che scelse di ricondurre le proprie origini alla setta dei Beati Paoli, che nonostante la fragilità delle basi storiche del romanzo divenne il mito fondativo per eccellenza dei mafiosi siciliani (Ciconte, 2008). 

I Beati Paoli
I Beati Paoli, Luigi Natoli, Feltrinelli (edizione 2017)

Dalla setta leggendaria, la mafia ha tratto la romantica visione di giustizia alternativa allo Stato che pretende di esercitare, e di cui si serve per ammantarsi di valore civile e sociale e ottenere consenso popolare e nuove reclute. Si legge nel romanzo:

La nostra [nda giustizia] non è scritta in nessuna costituzione regia, ma è scolpita nei nostri cuori: noi la osserviamo e costringiamo gli altri a osservarla. […] Chi riconosce in noi il diritto di esercitare giustizia? Nessuno. Ebbene, noi dobbiamo imporre questa autorità e questo diritto e non abbiamo che un’arma: il terrore, e un mezzo per servircene: il mistero, l’ombra. Non ci nascondiamo per viltà, ma per necessità. […] Puntiamo e vendichiamo l’offesa. Nessuno vede il braccio punitore, nessuno può dunque sottrarvisi… Questa è la nostra giustizia. Essa non ha punito mai un innocente, ed ha asciugato molte lacrime (Nicaso, 2016).

Proprio in questo senso di giustizia è possibile intercettare il nodo di congiunzione tra mafia e religione, tra male e bene: nel male esercitato a fin di bene, esercitato giustamente. Aveva ben espresso questa persuasione ideologica il collaboratore di giustizia Leonardo Messina:

Io e mia moglie siamo religiosi. Mi hanno insegnato che la mafia è nata per amministrare la giustizia. Quindi, nessuna contraddizione (Sales, 2016).

  1. Il mito della mafia buona

L’apparato mitologico mafioso si presenta, nel suo complesso, caotico, disorientante, ricco di contraddizioni. Miti e leggende che si mescolano e sovrappongono in maniera confusa e si prestano a innumerevoli variazioni locali, realizzano però un comune e preciso proposito: plasmare il mito della mafia buona. Ed è proprio questo scopo a giustificare i frequenti intrecci e richiami al cattolicesimo. 

Perciò la mafia siciliana si rifà ai Beati Paoli, benevoli giustizieri in abito talare (Sales, 2016); la mitologia camorrista si ispira alla Garduna, setta quattrocentesca retta da ecclesiastici; e tra gli originari fondatori della ‘ndrangheta sono sovente annoverati i tre arcangeli (Sales, 2016). E ancora, la tradizione vuole che la camorra sia stata fondata nel 1820 proprio in una chiesa, quella di S. Caterina, a Formello (Napoli) (Sales, 2016), per attribuire un carattere di spiritualità cristiana all’atto fondativo dell’organizzazione. In questo senso sono chiarificatrici le dichiarazioni di Cutolo, fondatore della Nuova camorra organizzata, che a processo, alle richieste di delucidazione in merito agli obiettivi dell’associazione, rispose:

È una società organizzata per fare del bene pari a quella degli Apostoli di Gesù (Sales, 2016).

Il proposito di ammantare le organizzazioni di valore umano e cristiano mediante l’uso dei racconti leggendari era stato già ben chiarito dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, primo rilevante e celebre collaboratore di giustizia, che durante gli anni della collaborazione con il giudice Falcone iniziata nel 1984, aveva raccontato come in occasione dell’affiliazione lo avessero persuaso che Cosa nostra affondasse le sue radici nella setta dei Beati Paoli e fosse nata per «difendere i deboli dai soprusi dei potenti e per affermare i valori dell’amicizia, della famiglia, del rispetto della parola data, della solidarietà e dell’omertà» (Nicaso, 2016).

Tommaso Buscetta
Tommaso Buscetta negli anni ’50 (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Il mito della bontà delle mafie si è tanto radicato e diffuso da riuscire a sopravvivere anche alla sempre più eclatante evidenza delle violenze arbitrarie e ingiustificate delle organizzazioni. A questo si è affiancato poi quello della mafia delle origini, organizzazione nata con i migliori propositi sociali che nel corso del tempo avrebbe subito un aggressivo processo corruttivo che l’avrebbe irrimediabilmente deturpata. Sulla scia di questa convinzione, nel 1993 Gaspare Mutolo, altro noto collaboratore di giustizia, richiamava nostalgicamente l’epoca dei Beati Paoli, in cui «c’era moralità e non si uccidevano donne e bambini», distanziandosi eticamente dalle azioni dei Corleonesi di Riina (Sales, 2016). 

Preme precisare che, al di là della retorica, di questa mafia proprio non vi è traccia documentata. Come chiarisce inequivocabilmente uno dei principali studiosi della storia delle mafie, Salvatore Lupo:

Avidità e ferocia […] sono […] caratteristiche della mafia di ieri come quella di oggi, entrambe capaci di massacrare innocenti, donne e bambini in barba ai codici onorifici (Lupo, 2003).

L’interpretazione di Lupo pare più attendibile, tenuto conto della fragile credibilità delle tesi a giustificazione degli atti cruenti compiuti dalla mafia delle origini. In questo senso, è da esempio l’irrealistico racconto di Buscetta dell’episodio della strage di Portella della Ginestra:

A Portella della Ginestra Giuliano non voleva ammazzare nessuno, e solo per errore caddero morti sotto le raffiche delle sue mitragliatrici otto contadini, insieme a un gran numero di feriti (Lupo, 1996).

  1. L’immaginario religioso nei riti di affiliazione dei nuovi membri

La peculiare caratterizzazione devozionale che contraddistingue le organizzazioni criminali di stampo mafioso, nello specifico cattolica per quelle italiane, non si riflette solo sugli apparati mitologici che pretendono di ricostruirne le origini, ma è nota la pervasività dell’immaginario religioso nell’intero sistema identitario e culturale delle organizzazioni: la religione permea profondamente ideologie, valori, costumi e soprattutto rituali delle organizzazioni nel loro complesso. Primi tra tutti, quelli di iniziazione dei nuovi membri.

Molti sono convinti che i rituali siano appannaggio di tamarri e di analfabeti […]. Ma chi si comporta così si preclude la via per comprendere cosa sia oggi la ‘ndrangheta [nda cosa siano oggi le mafie] (Ciconte, 2015).

I riti di iniziazione alle mafie, ricchi di rimandi religiosi, sono ancor oggi fondamentali nel reclutamento dei nuovi membri, e non solo in Italia. É proprio questo impianto ritualistico a rendere le organizzazioni qualcosa di più che semplici associazioni delinquenziali e criminali. 

Il rito di affiliazione è chiamato battesimo (Ciconte, 2015), con esplicito rimando al sacramento cattolico di ingresso nella comunità. Viene celebrato solitamente in giovanissima età nella ‘ndrangheta, dai quattordici anni circa, e solo in questa organizzazione ai figli in fasce dei membri più potenti è riservato un rito simbolico di affiliazione, pratica per il buon auspicio. Poi, raggiunta l’età prevista, si procede con la cerimonia ufficiale. Camorra e Cosa nostra, invece, affiliano con questa tipologia rituale solo uomini adulti (Ciconte, 2015). Anche al battesimo mafioso, come a quello cristiano, il battezzando viene accompagnato da un padrino, colui che lo ha guidato durante il primo inserimento nell’organizzazione e che si assume la responsabilità di presentarlo alla famiglia e di seguirlo per tutto il suo percorso da «uomo d’onore» (Arlacchi, 2010).

La figura della Madonna riveste un ruolo fondamentale nella cultura spirituale mafiosa, e in particolare veglia durante il rituale di affiliazione a Cosa nostra. In merito esistono molte testimonianze. Tra le prime, quelle del noto collaboratore di giustizia Leonardo Messina, che rivelò al giudice Borsellino come l’iniziazione alla cosca di San Cataldo (in provincia di Caltanissetta) avvenisse al cospetto di un dipinto dell’Annunciazione (Barone, 1994). Anche nei rituali della ‘ndrangheta si fa riferimento alla Madonna. In questo caso, si predilige la Vergine addolorata che, secondo la tradizione, sarebbe custode dell’onore dei mafiosi, che conserverebbe in una bottiglia di cristallo sottilissimo (Sales, 2016). 

I rituali sono strumenti fondamentali nella strutturazione identitaria delle organizzazioni, grazie ai quali l’impianto ideologico e culturale del gruppo si conserva, affina e tramanda, e il senso di appartenenza viene riconosciuto e consolidato (Sales, 2016) rafforzando il sodalizio tra gli associati. 

Si delucida questo aspetto grazie alle celebri parole del magistrato Giovanni Falcone, che per primo, dal 1984, con la collaborazione del pentito Tommaso Buscetta, si addentrò nelle strutture interne di Cosa nostra, analizzando il suo sistema ideologico e i suoi rituali:

Si può sorridere all’idea di un criminale, dal volto duro come la pietra, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende in mano un’immagine sacra, giura solennemente su di essa di difendere i deboli e di non desiderare la donna altrui. Si può sorriderne, come di un cerimoniale arcaico, o considerarla come una vera e propria presa in giro. Si tratta invece di un fatto estremamente serio, che impegna quell’individuo per tutta la vita. Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi (Falcone, 2017).

Madonna Addolorata
Statua della Vergine Addolorata, una delle figure religiose di cui la mafia si è appropriata (fonte: autore, France Bale; licenza, CC BY-SA 4.0)

I rituali di affiliazione delle organizzazioni non sono manifestazioni arcaiche o folkloristiche (Ciconte, 2015), esattamente come non sono ritenuti tali quelli cattolici o massonici (Ciconte, 2015). E, del resto, sussiste un vero e proprio rapporto di filiazione tra l’apparato ritualistico massonico e quello mafioso.

Non è semplice ricostruire le origini di codici e rituali. La magistratura era a conoscenza della loro esistenza almeno dagli ultimi decenni dell’Ottocento, ma questo non aiuta a fare una stima di quando potessero essere stati introdotti; è infatti possibile che fossero già in uso in precedenza e, semplicemente, non fossero stati segnalati nelle sentenze, perché sconosciuti o ritenuti irrilevanti. A tutelare per lungo tempo la segretezza dei codici contribuì il diffuso analfabetismo, che determinò la consuetudine di imparare a memoria e tramandare oralmente le formule, e solo quando le organizzazioni iniziarono a coinvolgere «soggetti che avevano una certa disponibilità finanziaria che consentiva loro di acquisire i primi rudimenti della scrittura perché all’epoca la scuola non era gratuita» (Ciconte, 2015), queste iniziarono a essere trascritte e dunque rinvenute, citate nelle sentenze e gradualmente divulgate tramite riviste specializzate (Ciconte, 2015).

Si ipotizza che i codici mafiosi siano nati nelle carceri borboniche, dove questi criminali, ancor prima di organizzarsi in strutture simili a quelle che conosciamo oggi, erano detenuti insieme ai prigionieri politici, tendenzialmente colti borghesi appartenenti a società segrete ben strutturate, per lo più massoni o carbonari. Il movimento settario, infatti, era molto attivo nell’opposizione ai Borbone e probabilmente fu preso a modello dai delinquenti comuni, che appresero il valore di associarsi segretamente, stabilire delle regole per gli affiliati, parlare in gergo per non essere compresi dagli esterni e, non meno importante, servirsi di rituali. 

Il contatto tra colti prigionieri politici e criminalità comune nelle carceri, che si protrasse per lungo tempo, spiegherebbe «l’elaborazione e la stessa raffinatezza dei codici [mafiosi e] i frequenti richiami esoterici e massonici» che necessariamente traggono origine da «gente acculturata che aveva frequentazioni […] con gli ordini cavallereschi medioevali o con le società segrete del loro tempo» (Ciconte, 2008).

  1. Per concludere

Nello studio del fenomeno mafioso, l’analisi dell’apparato mitologico e ritualistico delle organizzazioni assume una duplice valenza: da un lato ne evidenzia la perenne urgenza di legittimazione storica e sociale, e dall’altro, riconducendo tutte le mafie a un’origine comune, supera la tendenza alla frammentazione dello studio del fenomeno su base geografica, restituendone una più realistica interpretazione unitaria e rispondendo altresì alla necessità di offrire una visione di omogeneità e continuità dei fenomeni di religiosità di tutte le mafie italiane, senza considerare che fortissime analogie in questo senso sono riscontrabili nel panorama complessivo delle mafie mondiali.

Infatti, se generalmente le mafie vengono considerate (e studiate) «come se fossero realtà diverse tra loro» (Tranfaglia, De Palma, 2012), è preferibile porsi da una prospettiva di «sintesi storica» (Ciconte, 2008) dello studio delle organizzazioni, adottare una visione d’insieme e restituirne i caratteri di compattezza e intesa, nell’ottica che possa essere «necessario, e utile dal punto di vista della conoscenza storica, parlare per tutte di mafia o di mafie usando una sola categoria interpretativa» (Ciconte, 2008). La necessità di questo approccio è stata caldeggiata anche da alcuni tra i più noti conoscitori dei fenomeni mafiosi, tra cui Enzo Ciconte, che ha evidenziato il problema della frammentarietà dello studio delle mafie, tendenzialmente prese in esame in qualità di manifestazioni locali o tutt’al più regionali, ponendo in secondo piano o limitando a brevi accenni le connessioni che tra le varie organizzazioni sono in realtà imprescindibili (Ciconte, 2008).

Daniela Tedone

Daniela Tedone è laureata in Storia presso l’Università degli Studi di Milano e si occupa di divulgazione storica sui social. È appassionata dell’Età Moderna e della  storia di genere, con particolare interesse per la concezione della donna nella Storia, l’evoluzione dell’assistenza al parto e il ruolo femminile in ambito medico-ostetrico.

Bibliografia

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Immagine di copertina: raffigurazione di “picciotti” di Cosa nostra alla fine del XIX secolo (fonte: Wikimedia, licenza CC BY-SA 4.0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

Rivista di ricerca e divulgazione storica

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