L’OCCUPAZIONE ALLEATA DELL’ISLANDA

Sbarco alleato in Islanda

di Davide Galluzzi

L’occupazione alleata dell’Islanda, iniziata con l’invasione inglese del 10 maggio 1940 e terminata con il ritiro dei Marines statunitensi dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, fu un evento spartiacque nella storia dell’isola perché rappresentò la rottura di un isolamento secolare e l’entrata, seppur indirettamente, in un conflitto europeo e mondiale.

Inoltre, è stato durante questo periodo di occupazione straniera che giunse a compimento il processo di totale indipendenza dell’Islanda dalla Corona danese e la successiva integrazione nel blocco NATO, superando così quella neutralità su cui si era a lungo basata la politica estera di Reykjavík.

Stranamente, questo evento così importante, non solo per il popolo islandese, è stato spesso sottovalutato dalla storiografia, non trovando forse il giusto spazio che meriterebbe.

  1. Le preoccupazioni di Londra e l’occupazione inglese dell’Islanda

Come è facilmente ipotizzabile, le preoccupazioni del Regno Unito riguardanti un’eventuale espansione del nazionalsocialismo in Islanda sono ben precedenti allo scoppio del conflitto mondiale, risalendo addirittura all’estate-inverno del 1933, ossia pochi mesi dopo l’ascesa di Adolf Hitler al ruolo di Cancelliere della Repubblica di Weimar.

Se da un lato, infatti, Londra guardava con timore all’incremento degli scambi commerciali tra Islanda e Germania, il quale iniziò ad aumentare proprio dall’estate del 1933, dall’altro le attività dei nazisti islandesi, intenzionati a radicarsi sul territorio attraverso una campagna politica che cavalcava il sentimento indipendentista e repubblicano che andava vieppiù formandosi nella popolazione, non permettevano al Governo di Sua Maestà Britannica di dormire sonni tranquilli. Tutto questo, unito alla presenza di una folta minoranza di tedeschi residenti in Islanda, visti come possibile quinta colonna nazista, rende assai più comprensibili le paure del Regno Unito, il cui Governo decise, il 29 novembre 1933, di assegnare all’ambasciatore Sir Hugh Gurney l’incarico di monitorare le attività nazionalsocialiste nell’isola (Deans, 2012; Jensdóttir, 1974). 

Sir Hugh Gurney
Sir Hugh Gurney (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

I forti allarmismi di Londra venivano in parte smorzati dal corpo diplomatico inglese, ma le attività propagandistiche di Berlino erano innegabili. Soprattutto a partire dal 1934, il Reich non si adoperò solo a livello diplomatico per aumentare la propria influenza su Reykjavík, ma utilizzò anche altri canali, come per esempio pressioni, per rafforzare la collaborazione economica o l’invio di spedizioni “scientifiche” e “sportive” i cui membri, in maniera assai curiosa, riferivano direttamente a Heinrich Himmler che tutto era meno che uno scienziato o uno sportivo (Deans, 2012).

Fu tuttavia lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale a far precipitare gli eventi e a spingere il Governo inglese a prendere la decisione di occupare militarmente l’Islanda, infrangendo così la neutralità e la sovranità dell’isola. Vale quindi la pena spendere qualche parola per ricostruire rapidamente le settimane precedenti lo sbarco inglese.

Come accennato poco sopra, una delle cose a cui il Regno Unito guardava con più timore erano gli scambi commerciali tra Reykjavík e Berlino, visto come importante mezzo nelle mani dei Reich per aumentare la propria influenza sull’isola attraverso eventuali pressioni economiche. Fu proprio l’entrata in guerra a permettere a Londra di eliminare questo problema attraverso l’interruzione delle linee commerciali che collegavano l’isola all’Europa, decisione che scatenò le reazioni del governo islandese, teoricamente neutrale e non in guerra con nessuno dei due schieramenti.

Naturalmente l’Islanda venne a trovarsi tra due fuochi, come è facile immaginare. Da un lato, infatti, Londra mise bene in chiaro che non avrebbe tollerato l’ulteriore proseguimento di scambi commerciali con la Germania nazista, dall’altro, tuttavia, Reykjavík temeva una rappresaglia tedesca qualora avesse dovuto, per sopperire alle mancanze causate dall’interruzione delle rotte, giungere a un accordo economico esclusivo con il Regno Unito (Jensdóttir, 1974).

La situazione precipitò ulteriormente a partire dai primi giorni dal 10 aprile 1940, ossia dall’indomani dell’invasione nazista della Danimarca. Fu proprio in quella data che l’Althing, ossia il parlamento islandese, emanò due decreti attraverso i quali trasferì al governo le prerogative reali esercitate da Cristiano X, impossibilitato a esercitare il proprio ruolo di monarca, e dichiarò l’Islanda pienamente responsabile dei propri rapporti con le altre nazioni (Jensdóttir, 1974). 

Non dobbiamo infatti dimenticare come l’Islanda, pur formalmente indipendente dalla Danimarca, condividesse, grazie all’Atto di Unione dell’1 dicembre 1918, lo stesso sovrano della ex Madrepatria. Torneremo successivamente sulle clausole di questo trattato e sulle sue conseguenze. Per ora basti sottolineare che la decisione dell’Althing venne presa con l’accordo di tutte le principali forze politiche rappresentate, ossia conservatori, comunisti, progressisti e socialdemocratici (Weigert, 1944).

Cristiano X di Danimarca
Cristiano X, re di Danimarca e di Islanda (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

In seguito a questo importante avvenimento, il Foreign Office inviò un’offerta di aiuto all’Islanda, chiedendo in cambio la possibilità di sfruttare alcune strutture dell’isola e richiedendo, inoltre, l’espulsione della minoranza tedesca e del corpo diplomatico del Reich, scontrandosi però con il netto rifiuto di Reykjavík che, appellandosi alla sua storica neutralità, declinò l’offerta inglese (Deans, 2012 e Jensdóttir, 1974).

Vista chiusa per sempre la via diplomatica, Londra doveva trovare un’altra soluzione per impedire che l’Islanda entrasse, volente o nolente, nell’orbita nazista, ipotesi tanto più concreta quanto, proprio in quei giorni, l’avanzata della Wehrmacht in Danimarca e Norvegia sembrava essere inarrestabile. Proprio quest’ultimo aspetto faceva crescere di giorno in giorno l’importanza strategica dell’isola: l’inevitabile occupazione della Norvegia e la conseguente costruzione di basi navali e aeree nel Paese scandinavo suscitavano nell’Ammiragliato inglese il timore che la prossima nazione a cadere sarebbe potuta essere proprio l’Islanda, fatto che avrebbe reso il Regno Unito assai più vulnerabile in quanto circondato da tutti i lati, qualora la Francia, come sarebbe effettivamente avvenuto di lì a poche settimane, fosse caduta sotto i colpi nazisti (Deans, 2012).

Di fronte a tutto questo, il Governo inglese prese la decisione di occupare militarmente l’Islanda, mettendo il Paese davanti al fatto compiuto. Il 10 maggio 1940, quindi, dopo dieci giorni di traversata in condizioni disastrose, 815 marines del II Royal Marine Battalion sbarcarono a Reykjavík, dando inizio così all’invasione dell’isola sotto il nome di “Operation Fork”. Insieme a loro giunse anche l’alto diplomatico inglese Charles Howard-Smith, il quale incontrò subito il Governo islandese per presentare le proprie credenziali e consegnare una lettera scritta di proprio pugno da re Giorgio VI: Londra aveva preso la decisione di occupare l’isola non per inimicizia, ma proprio per garantire la neutralità islandese e impedire l’invasione nazista del Paese. Proprio per questo, affermava Howard-Smith, ci sarebbero state compensazioni economiche per Reykjavík (Deans, 2012 e Jensdóttir, 1974).

Come facilmente immaginabile, il Primo ministro islandese, Hermann Jónasson, protestò formalmente, affermando che l’eventualità di uno sbarco nazista sarebbe stata assai improbabile. Nonostante questa prima opposizione e la volontà del Governo islandese di non intraprendere nessuna collaborazione diretta con le forze armate inglesi nel timore di scatenare la rappresaglia di Berlino, Jónasson lanciò un appello radio a tutta la popolazione islandese, chiedendo di comportarsi cordialmente con gli occupanti, trattandoli come “ospiti” e riconoscendo così di fatto le intenzioni “amichevoli” di Londra (Deans, 2012 e Jensdóttir, 1974).

Mentre Howard-Smith incontrava il Primo ministro islandese, i Marines non stettero con le mani in mano e iniziarono ad arrestare e deportare in Inghilterra numerosi appartenenti alla comunità tedesca, compreso il Console generale del Reich, Werner Gerlach (Deans, 2012). Contemporaneamente, visti i timori di una immediata rappresaglia tedesca, iniziarono i preparativi per la difesa dell’isola. Effettivamente, Adolf Hitler prese in considerazione l’idea di attaccare le deboli forze inglesi, ma la Marina Militare lo dissuase affermando l’impossibilità di portare a termine l’operazione (Jensdóttir, 1974).

Il corpo di spedizione inviato dal Governo di Sua Maestà, infatti, era debole e impreparato, essendo stato organizzato in fretta e furia. Basti pensare, per esempio, che nessun membro della piccola unità di intelligence che accompagnava i Marines parlava islandese o tedesco, mentre le truppe inviate erano sì fresche, ma prive di esperienza bellica ed erano state addestrate sommariamente. A coronare il tutto, il comando inglese disponeva di sole tre mappe per organizzare l’occupazione di cui una, quella di Reykjavík, era stata redatta a memoria, basandosi su ricordi e prestando così il fianco a eventuali errori (Deans, 2012). Proprio a causa di questa debolezza, il comando temeva il fallimento dell’operazione in caso di attacco tedesco o di forte resistenza islandese, preoccupazione aumentata dal fatto che il comandante della polizia, Agnar Kofoed-Hansen, era considerato vicino agli ambienti nazionalsocialisti ed era stato precedentemente inviato a Berlino in addestramento (Deans, 2012).

Hermann Jónasson
Hermann Jónasson, Primo ministro islandese (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

La tanto temuta resistenza, tuttavia, non avvenne, così come non vi fu una immediata rappresaglia di Berlino, e, il 20 maggio, il II Royal Marine Battalion venne sostituito dalla 147a Infantry Brigade, altrettanto male equipaggiata. Questo aspetto non deve sorprendere: Londra non poteva lasciare l’Islanda sguarnita, certo, ma visto il peggioramento della situazione bellica europea non poteva permettersi di inviare rinforzi a sostenere il contingente d’occupazione. Paradossalmente fu proprio la catastrofe europea seguita alla capitolazione della Francia a spingere il comando britannico ad aumentare la propria presenza in Islanda e a investire in maniera decisiva in infrastrutture difensive e militari per impedire il totale accerchiamento già menzionato e mantenere aperta una rotta nell’Atlantico settentrionale, impiegando a tal scopo manodopera islandese e importando forza lavoro dalle isole Faer Ǿer (Deans, 2012).

  1. Il lungo dibattito all’interno della società statunitense e le decisioni di Roosevelt

Contemporaneamente ai fatti appena descritti avveniva, dall’altra parte dell’Atlantico, un feroce dibattito all’interno della società statunitense sulla posizione che Washington avrebbe dovuto prendere sia nei confronti della situazione bellica in generale, sia della sicurezza islandese in particolare.

La consapevolezza dell’estremo valore strategico dell’Islanda e della Groenlandia aveva invero radici profonde nel dibattito pubblico e nella politica degli Stati Uniti d’America: basti pensare al fatto che William Henry Seward, artefice dell’acquisto dell’Alaska, avrebbe infatti voluto spingere il Governo alla compravendita anche di queste due isole, sottraendole così alla Danimarca e garantendo quindi a Washington una posizione più sicura nell’Atlantico del Nord (Weigert, 1944). Furono tuttavia l’occupazione nazista della Danimarca e l’aggravarsi della situazione inglese in seguito alla capitolazione della Francia, con il conseguente pericolo concreto di una sconfitta militare per Londra, ad aumentare i timori del Presidente Franklin Delano Roosevelt e a far aumentare ancora più rapidamente l’importanza strategica dell’Islanda per la sicurezza nazionale statunitense (Corgan, 1992).

Il Presidente Roosevelt si muoveva, in quei mesi, su un terreno assai scivoloso dovendo fare i conti, da un lato, con la possibilità concreta di un crollo del Regno Unito e di una invasione nazista di Islanda e Groenlandia e, dall’altro, con la campagna per le imminenti elezioni presidenziali di novembre che, come facilmente immaginabile, si giocava proprio sul tema dell’impegno statunitense e vedeva una forte presenza degli isolazionisti, tra le principali forze di opposizione a Roosevelt grazie all’energica azione dell’inossidabile America First Committee. Come ben sappiamo, il Presidente uscente venne riconfermato, mantenendo così il proprio posto alla Casa Bianca e potendo iniziare a interessarsi in modo più deciso alla questione islandese.

Franklin Delano Roosevelt
Franklin Delano Roosevelt, 32° Presidente degli Stati Uniti d’America (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

All’inizio del 1941, infatti, Washington iniziava a temere sempre più la possibile minaccia dell’Asse, soprattutto perché non si sapeva precisamente dove essa avrebbe potuto concretizzarsi: si riteneva infatti possibile un eventuale attacco sia da sud, con le forze fasciste che partite dall’Africa avrebbero occupato le Azzorre per poi partire verso l’America Latina, sia una possibile aggressione dall’Atlantico del Nord, quindi dall’Islanda e dalla Groenlandia, soprattutto dopo che, il 25 maggio, le truppe naziste avevano occupato Creta mostrando il potenziale della Marina tedesca (Corgan, 1992). Iniziarono così a emergere voci, all’interno dell’Amministrazione degli Stati Uniti, volte a giungere a una maggiore definizione dell’area geografica interessata dalla Dottrina Monroe.

Questo aspetto può forse sembrare bizzarro, ma la sua importanza risulterebbe palese se si pensasse al fatto che essa fu a lungo la base della politica estera statunitense insieme alla dottrina enunciata dal primo Presidente George Washington. Se quest’ultima prevedeva il non coinvolgimento degli Stati Uniti negli affari europei, la Dottrina Monroe prevedeva una attiva presenza di Washington nello scenario del continente americano, dichiarando pericoloso alla sicurezza nazionale qualsiasi tentativo di potenze straniere di estendere il proprio dominio su qualsiasi porzione del continente americano e del suo emisfero (Monroe, 1823). Proprio la vaghezza della definizione dell’area interessato dalla Dottrina Monroe spinse diversi settori dell’Amministrazione Roosevelt a voler una maggiore definizione della stessa che andasse a includere, al suo interno, anche l’Islanda (Corgan, 1992).

Fu l’importante rivista Foreign Affairs a muovere i primi passi in tale direzione pubblicando due articoli di fondamentale importanza. Il primo, scritto da Philip Mosely e intitolato Iceland and Greenland: America’s Problem, sosteneva fondamentalmente l’appartenenza geografica dell’Islanda all’emisfero occidentale posto sotto la protezione della Dottrina Monroe, nonostante i legami economici e culturali di Reykjavík con l’Europa. Il secondo, scritto da Vilhjalmur Stefansson, definiva ulteriormente l’emisfero occidentale segnalando l’appartenenza dell’Islanda a quest’ultimo e ponendo quindi l’isola sotto la protezione della più volte citata Dottrina, nel tentativo di persuadere l’opinione pubblica statunitense a sostenere la necessità di una difesa attiva di Reykjavík (Corgan, 1992).

Questi sforzi portarono i primi risultati nell’aprile 1941, quando Washington firmò un accordo con la Danimarca volto a includere la Groenlandia nella linea difensiva statunitense. Questo allargamento della zona di influenza degli Stati Uniti, la quale, come si noterà, escludeva l’Islanda, venne accompagnata da una vasta azione di propaganda portata avanti dal New York Times, il quale iniziò la pubblicazione di una serie di articoli corredati di mappe per mostrare la nuova zona di difesa atlantica e influenzare così l’opinione pubblica (Corgan, 1992). 

L’eventuale inclusione dell’Islanda nella sfera difensiva degli Stati Uniti, per quanto auspicata da Roosevelt, avrebbe comportato una serie di problemi difficili da superare e che rallentarono l’azione dell’Amministrazione statunitense. Prima di tutto, come precedentemente accennato, i timori di un attacco nazista erano assai vivi, ma non si sapeva dove si sarebbero potuti concretizzare. Secondo gli analisti, infatti, le truppe dell’Asse avrebbero potuto attaccare il continente americano, e di conseguenza gli interessi di Washington, dall’Islanda o dalle Azzorre (Corgan, 1992). L’esercito statunitense, tuttavia, non avrebbe potuto occupare entrambe le regioni dividendo le forze destinate alla difesa della nazione. Inoltre, Roosevelt non desiderava occupare le Azzorre senza invito ufficiale del governo portoghese, praticamente impossibile da ottenere visto il carattere fascista del regime di Salazar, perché la vicinanza storico-culturale delle isole con l’America Latina avrebbe potuto scatenare sentimenti antimperialisti nel “cortile di casa” degli Stati Uniti.

Questo fatto spingeva l’Amministrazione Roosevelt a propendere per un’occupazione dell’Islanda, nuovamente da concordarsi con il Governo di Reykjavík, ma restavano due ostacoli da superare: da un lato, infatti, il Selective Service Act del 1940 impediva di inviare i coscritti statunitensi al di fuori del già nominato e vago emisfero occidentale e, in particolare, al di là del 26° meridiano fissato come limite di pattugliamento proprio da Roosevelt; dall’altro, le forze da destinarsi a questa operazione non erano minimamente sufficienti a sostituire tutti i 22.000 soldati inglesi di stanza sull’isola. Si aprivano quindi due scenari: o una difesa separata dell’Islanda, o una difesa integrata dove le truppe statunitensi, formalmente neutrali, sarebbero state sottoposte al comando del Regno Unito, potenza in guerra con l’Asse (Corgan, 1992).

Il Presidente Roosevelt, quindi, era ben consapevole che la notizia di una eventuale occupazione dell’Islanda, inclusa nella zona di guerra nazista per decisione di Hitler nel marzo 1941, si sarebbe dovuta comunicare con estrema cautela al Congresso e alla nazione. Il 27 maggio 1941, il Presidente si rivolse ai cittadini statunitensi, rendendoli partecipi della decisione dell’Amministrazione di proclamare una emergenza nazionale illimitata per difendere l’ormai famoso e sempre più indefinito emisfero occidentale. Durante il discorso, Roosevelt affermò che un’occupazione nazista dell’Islanda sarebbe stato assai pericolosa per il popolo statunitense perché avrebbe portato le forze dell’Asse vicine ai confini degli Stati Uniti d’America, per cui le truppe americane si sarebbero posizionate in non meglio definite “zone strategiche” (Corgan, 1992).

Il consenso dell’opinione pubblica fu così alto da spingere Roosevelt a ordinare segretamente all’Esercito e alla Marina di iniziare a preparare i piani per uno sbarco in terra islandese, cosa che effettivamente avvenne nel giugno 1941, quando il Comandante in Capo della Flotta Atlantica diede disposizioni per la creazione e invio di una brigata provvisoria composta da sei reggimenti e unità di rinforzo (Corgan, 1992 e Zimmerman, 1947).

Restava quindi solo da informare il Congresso e, successivamente, i cittadini statunitensi, mettendo praticamente entrambi di fronte al fatto compiuto. Nonostante nel corso di un primo discorso, tenuto il 4 luglio, Roosevelt ribadì che lo stato di emergenza proclamato il mese precedente servisse solo per proteggere l’emisfero occidentale e la libertà dei mari, nel suo intervento al Congresso del 7 luglio, quindi solo tre giorni dopo, il Presidente ricordò le prerogative della Presidenza degli Stati Uniti, presentando quindi lo sbarco che sarebbe avvenuto di lì a poche ore come operazione strettamente militare e quindi coperta da quel segreto che impedì all’Amministrazione di informare precedentemente il Congresso. Non solo, l’occupazione dell’Islanda venne fortemente minimizzata da Roosevelt, il quale la presentò come necessaria ai fini della protezione di determinate zone strategiche e rispettosa della sovranità islandese che non sarebbe stata messa in discussione dalla presenza delle truppe statunitensi (Corgan, 1992).

L’annuncio, cui fece seguito una forte campagna propagandistica portata avanti sia dalla stampa, sia dall’Amministrazione che invitava i cittadini a inviare lettere alla Casa Bianca esprimendo la propria opinione, venne accolta con grande sorpresa. In realtà, come abbiamo visto, i preparativi per lo sbarco andavano avanti da lungo tempo, avvolti nella più totale segretezza cui aveva fatto cenno il Presidente Roosevelt nel corso del suo discorso al Congresso. Già nel dicembre 1940, infatti, Stefan Johan Stefansson, Ministro degli Esteri islandese, aveva avviato un dialogo con l’ambasciatore statunitense Bertel E. Kuniholm, volto a sondare i sentimenti di Washington circa una eventuale richiesta di aiuto islandese. Interessante, a tal riguardo, come Stefansson si muovesse senza un esplicito mandato governativo, ma basasse la sua azione sul forte timore di una sconfitta inglese che avrebbe lasciato Reykjavík sola di fronte alla minaccia fascista (Zimmerman, 1947; Jensdóttir, 1974).

Stefan Johan Stefansson
Stefan Johan Stefansson (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Già prima di questa data, ossia nel maggio 1940, il deputato Thor Thors propose all’Althing di chiedere aiuto agli Stati Uniti di fronte alla minaccia nazista, ma la proposta venne rifiutata dalla maggioranza dei parlamentari. Nonostante questa tendenza islandese a rivolgersi a Washington, nel dicembre 1940 Roosevelt si dichiarò contrario a una spedizione militare e il Segretario di Stato inviò una nota all’ambasciatore Kuniholm invitandolo a non incoraggiare, né scoraggiare eventuali futuri approcci da parte islandese (Zimmerman, 1947).

Nonostante nel gennaio 1941, nel corso di un incontro segreto tra Stati Uniti e Regno Unito, venisse deciso che Washington sarebbe subentrata a Londra in caso di grave peggioramento della situazione bellica di quest’ultima, fu soprattutto la massiccia presenza di truppe del Reich in Norvegia a imprimere un’accelerazione agli eventi: Roosevelt temeva infatti che queste unità avrebbero potuto essere sì impiegate contro l’Unione Sovietica, ma anche contro l’Islanda, portando a una eventuale concretizzazione dei timori che più volte abbiamo citato nel corso di questo articolo (Jensdóttir, 1974).

Fu così, quindi, che si giunse, con grande sollievo di Churchill, alla decisione di subentrare al Regno Unito nella difesa dell’Islanda e al successivo sbarco del 7 luglio 1941, rompendo definitivamente quel principio enunciato da George Washington secondo il quale gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto intervenire negli affari europei (Corgan, 1992).

  1. L’occupazione alleata dell’Islanda, tra incidenti e violazioni della sovranità

Abbiamo più volte fatto cenno nel corso dell’articolo agli impegni presi sia da Londra, sia da Washington volti alla tutela della sovranità islandese. Queste promesse vennero veramente rispettate e non ci furono incidenti tra occupanti e occupati né intromissioni negli affari interni dell’isola? Naturalmente, la risposta è “no”: non solo, infatti, vi furono innumerevoli scontri tra truppe d’occupazione e civili islandesi, ma vi furono anche due episodi assai gravi di violazione della sovranità di un Paese formalmente neutrale e indipendente.

Per quanto riguarda i rapporti tra civili e soldati anglo-statunitensi i resoconti sono alquanto contrastanti. Da un lato, infatti, la stampa islandese presentava i rapporti tra cittadini e militari come tesi, mentre dall’altro i comandi delle forze alleate non riportavano episodi di violenze o tendevano a favorire testimonianze che dipingevano una situazione di idillica amicizia tra occupanti e occupati (Roehner, 2009).

Sir Winston Churchill
Sir Winston Churchill (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Una commissione congiunta tra Alleati e rappresentanti islandesi, comunque, stabilì una media di venti incidenti mensili tra truppe e cittadini, basandosi solo sulle lamentele espresse dai cittadini. Tali incidenti andavano dalla rissa al vandalismo, includendo anche episodi di stupro come quello che vide protagonisti quattro Marines statunitensi poi condannati a pene comprese trai i dieci e i venti anni (Roehner, 2009).

Non solo, al momento dell’occupazione le forze inglesi avevano stabilito un sistema di controllo e censura di tutte le comunicazioni da e per l’isola, le quali sarebbero state dirottate verso Londra per essere esaminate dai censori, causando forti ritardi che fecero infuriare sia gli islandesi, sia gli statunitensi, i quali, una volta subentrati nella difesa dell’isola, mantennero il sistema trasferendolo però direttamente a Reykjavík per velocizzare tutto il processo (Roehner, 2009).

Anche sulla stampa vigeva un sistema di censura informale basato su un gentlemen’s agreement tra comando alleato ed editori, i quali accettavano di non parlare di determinati temi ritenuti sensibili. Unica eccezione a questo accordo era il giornale comunista Thjodviljinn, il quale si rese protagonista di uno dei due gravi episodi di violazione della sovranità islandese precedentemente menzionati. Il 6 gennaio 1941, infatti, i comunisti organizzarono uno sciopero dei lavoratori impiegati nelle basi militari inglesi e i giornalisti del Thjodviljinn invitarono le truppe d’occupazione a disubbidire a eventuali ordini repressivi, scatenando la reazione violenta del Foreign Office, il quale fece presente all’ambasciatore islandese che il comando militare e Londra non avrebbero più tollerato azioni simili (Roehner, 2009).

La rivista comunista, tuttavia, non fermò la propria campagna e, nell’aprile 1941, pubblicò un nuovo reportage con il quale si denunciavano le pessime condizioni dei lavoratori impiegati nella costruzione di un aeroporto nei pressi della capitale islandese, ritenuto di fondamentale importanza dal comando inglese. La reazione di quest’ultimo non si fece attendere e le forze d’occupazione imposero la chiusura di Thjodviljinn e la deportazione nel Regno Unito di tre redattori, compreso Einar Olgeirsson, il quale era un membro dell’Althing e godeva, di conseguenza, dell’immunità parlamentare. Sei giorni dopo questo gravissimo fatto, il Parlamento islandese e numerosi quotidiani, nonostante la scarsa simpatia per i comunisti, protestarono con decisione contro la violazione della libertà di stampa e della Costituzione islandese (Deans, 2012).

Truppe britanniche in Islanda
Truppe britanniche in Islanda (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Il secondo episodio di violazione della sovranità islandese riguardò, invece, il processo che avrebbe portato alla piena e totale indipendenza dell’isola e alla proclamazione della Repubblica. L’Atto di Unione del 1918, infatti, garantiva all’Islanda e alla Danimarca il diritto di rescindere la reciproca unione delle corone dopo venticinque anni, permettendo quindi l’inizio delle trattative, la cui durata era fissata a tre anni, nel 1940. Qualora queste trattative non fossero andate a buon fine, uno dei rispettivi Parlamenti avrebbe potuto, con maggioranza dei due terzi, proclamare unilateralmente la fine dell’Unione, sottoponendo poi la decisione a referendum popolare (Jensdóttir, 1974).

Non sorprenderà quindi che, occupata la Danimarca e venuta meno la possibilità del re di adempiere ai propri obblighi, la discussione circa un’accelerazione del processo indipendentista tornò a rinfocolare il dibattito pubblico islandese. Nell’ottobre 1940, infatti, un nutrito gruppo di deputati iniziò a discutere questa eventualità, ma Londra, temendo conseguenze politiche e di immagine causate da una eventuale propaganda del Reich volta a presentare il Regno Unito come istigatore di una prematura indipendenza, ordinò all’ambasciatore Howard-Smith di fare, naturalmente in maniera ufficiosa, tutto il necessario per impedire una deliberazione dell’Althing e del governo islandese (Deans, 2012).

La situazione parve cambiare con l’arrivo dei Marines statunitensi. In base agli accordi stipulati con Washington, infatti, il governo islandese acconsentiva allo sbarco a patto dell’impegno anglo-americano di riconoscere la piena e totale sovranità e indipendenza dell’Islanda a di influenzare eventuali trattative in tale direzione (Jensdóttir, 1974). I partiti islandesi interpretarono questa presa di posizione come un via libera alla messa in discussione dei rapporti con la Danimarca e la discussione parlamentare si fece ancora più serrata.

Interpellato nuovamente il Foreign Office, l’inossidabile Howard-Smith ottenne indicazioni in base alle quali quanto sopra era una libera interpretazione dei politici islandesi, assai lontana dalle reali intenzioni di Londra e Washington circa i rapporti tra l’isola e Copenhagen, ma, questa volta, il Regno Unito non era completamente in disaccordo e il governo inglese chiese a Howard-Smith di lasciar proseguire il dibattito perché sarebbe stato nell’interesse inglese vedere un’Islanda completamente indipendente. Questo cambio di posizione era dovuto principalmente al fatto che le truppe inglesi non occupavano più l’Islanda, eliminando così i timori di un uso propagandistico nazista, e alla consapevolezza di Churchill che, dopo la guerra, sarebbe stato più vantaggioso per Londra trattare con una Islanda pienamente indipendente e priva di ogni legame con la Danimarca (Jensdóttir, 1974).

Truppe britanniche in Islanda
Truppe britanniche in Islanda (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Furono quindi gli Stati Uniti a fermare nuovamente il dibattito indipendentista islandese, proprio a causa degli stessi timori che avevano spinto il Regno Unito a fare lo stesso poco tempo prima. Il 4 agosto 1942, tuttavia, il nuovo Althing uscito dalle recenti elezioni indirizzò un memorandum a Washington, affermando che era volontà unanime di tutto il Parlamento proclamare l’indipendenza e che tale posizione era maturata ben prima dell’arrivo delle unità statunitensi. Il Presidente Roosevelt, tuttavia, rispose che in condizioni normali la sua Amministrazione non avrebbe avuto niente in contrario alla proclamazione della Repubblica, ma vista la situazione bellica non sarebbe stato nell’interesse delle forze antifasciste rompere lo status quo, ribadendo quindi che le garanzie offerte al momento dello sbarco dei Marines non si applicavano ai rapporti tra Reykjavík e Copenhagen. Gli Stati Uniti, tuttavia, non si sarebbero opposti all’indipendenza islandese dopo il 1944, ossia successivamente alla conclusione legale dell’Atto d’Unione (Jensdóttir, 1974).

Nonostante le precedenti promesse e il linguaggio diplomatico, quindi, Washington spinse sempre più i politici islandesi, impotenti di fronte all’occupazione militare dell’isola, a rimandare la discussione circa i rapporti con la Danimarca e la proclamazione della Repubblica, intromettendosi negli affari interni dell’Islanda e infrangendo quella sovranità che si erano impegnati a tutelare.

  1. Conclusioni

L’occupazione alleata dell’Islanda rappresentò un punto di rottura nella storia dell’isola, le cui conseguenze non furono solo immediate, ma ebbero ripercussioni anche nel Secondo dopoguerra. La rottura di fatto della tradizionale neutralità dell’isola e l’incontro con le truppe inglesi prima e statunitensi poi, infatti, portarono a un cambio di paradigma nella politica estera di Reykjavík. Se, prima del 1940, furono gli Stati scandinavi a offrire protezione alla piccola Islanda, dopo quegli anni divenne, proprio a causa dell’avanzata nazista e al crollo della Danimarca, sempre più chiara la necessità di rivolgersi ad altre potenze.

È interessante, tuttavia, notare come l’Islanda non rinunciò mai, per tutta la durata del conflitto, alla propria neutralità, nemmeno quando gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica offrirono lo status di Paese fondatore delle Nazioni Unite in cambio di una dichiarazione di guerra all’Asse (Thorhalsson-Stelnsson-Kristinsson, 2017). Anche dopo la Seconda Guerra Mondiale, il governo islandese intimò agli Stati Uniti di ritirare le truppe d’occupazione, permettendo di restare al solo personale civile impiegato nell’aeroporto di Keflavìk e rifiutando la concessione di una base militare. Furono nuovamente due eventi traumatici, ossia il colpo di Stato cecoslovacco del 1948 e lo scoppio della Guerra di Corea nel 1950, a spingere Reykjavík sempre più verso gli Stati Uniti e a chiedere l’adesione alla NATO (Thorhalsson-Stelnsson-Kristinsson, 2017).

Questo incontro-scontro con le truppe alleate garantì sì la protezione dell’isola e la successiva integrazione economico-politico-militare nel campo occidentale a guida statunitense, ma rappresentò anche un trauma collettivo che ebbe ripercussioni nei rapporti con le forze d’occupazione, nelle costanti proteste contro le violazioni della sovranità islandese e nella letteratura dell’isola che, a lungo, ha presentato i soldati occupanti come corpo estraneo, caratterizzandoli come individui dalla doppia natura intenzionati solo a circuire il popolo islandese e a sedurne le donne, mascherando la propria debolezza e codardia e nascondendo con le belle parole una natura in realtà predatoria (Neijmann, 2016).

Un modo, quest’ultimo, di ristabilire attraverso la letteratura un onore violato e una virilità infranta dall’occupazione straniera e di trattare il tema di quel trauma collettivo rappresentato dall’arrivo di soldati occupanti troppo spesso taciuto dalla storiografia non solo islandese.

Davide Galluzzi – Scacchiere Storico

Davide Galluzzi è laureato in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Specializzato in Storia Moderna, i suoi interessi di ricerca includono la Rivoluzione francese, l’età napoleonica, la Storia culturale e l’uso pubblico della Storia.

Bibliografia

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Immagine di copertina: foto dello sbarco alleato in Islanda del luglio 1941, visto dal cassero della nave da guerra americana USS New York (BB-34) (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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