di Michele Gatto & Riccardo Marchetti
L’impero romano d’Oriente, o impero bizantino, ha rappresentato una realtà politica in grado di rigenerarsi continuamente nel corso della propria storia, nonostante le crisi interne ed esterne che lo hanno attraversato. Un aspetto fondamentale per la sua sopravvivenza è stato sicuramente la gestione dei confini, la cui elasticità ne ha provocato l’allargarsi ed il restringersi conseguentemente alle politiche di espansione o contenimento via via adottate, ma anche all’entità delle minacce esterne da affrontare. In ogni caso, questi confini non hanno mai segnato una netta separazione verso popoli vicini e lontani, ma anzi sono stati punto di contatto attraverso i quali estendere la propria influenza politica e culturale, come ai tempi del limes romano, così da affermare la supremazia universale dell’impero.
1. Da centro a periferia: l’Italia
Con la caduta dell’impero romano d’Occidente, successiva alla deposizione di Romolo Augustolo da parte di Odoacre nel 476 d.C., l’impero d’Oriente rappresentava ciò che rimaneva del plurisecolare dominio romano nel bacino del Mediterraneo ed oltre. In realtà, i sovrani di Costantinopoli continuavano però a considerare i territori occidentali perduti ancora parte integrante dell’impero, legittimati dal fatto che gli stessi re barbarici si consideravano formalmente loro sottoposti, pur governando autonomamente (Ostrogorsky, 2014). Ma fu soprattutto l’Italia, vista la presenza di Roma, a condizionare la politica bizantina riguardante l’Occidente.
Odoacre, dopo aver inviato le insegne imperiali a Bisanzio, ottenne dall’imperatore Zenone il riconoscimento come suo rappresentante in Italia ed i titoli di patricius e magister militum, mantenendo una continuità politico-amministrativa che cercava di conservare un equilibrio tra la componente militare barbarica e quella burocratica romana, divise anche dalle confessioni religiose, rispettivamente ariana e cattolica. A seguito del deterioramento dei rapporti con Odoacre, Zenone decise di inviare in Italia Teodorico, capo degli Ostrogoti. Educato presso la corte imperiale ed insignito anch’egli del titolo di magister militum, Teodorico sconfisse Odoacre nel 493 d.C. e prese il controllo della penisola, permettendo a Costantinopoli di liberarsi contemporaneamente di due possibili minacce (Procopio, Guerre gotiche, I, 1, 9-25; Gallina, 2008; Ostrogorsky, 2014). Da Ravenna, il nuovo rex dei Goti governò senza stravolgere l’impianto amministrativo e cercando di favorire la concordia tra genti germaniche e latino-romane, comportandosi come il rappresentante del basileus: a corte si circondò di politici e letterati, tra cui Cassiodoro e Boezio, rispettò la Chiesa romana nonostante la fede ariana e dimostrò di voler emulare gli imperatori anche attraverso la realizzazione di opere monumentali (Gallina, 2008).
La situazione per il regno italico ostrogoto cambiò, sebbene si fossero già verificate tensioni con Bisanzio soprattutto per motivi religiosi, quando nel 526 d.C. Teodorico morì ed il regno andò al nipote Atalarico, un bambino posto inizialmente sotto la reggenza della figlia Amalasunta. Quasi contemporaneamente, nel 527 divenne imperatore d’Oriente Giustiniano, nipote del predecessore Giustino, che perseguì un progetto universale di unificazione politica, religiosa e giuridica: ovviamente, tutto ciò comprendeva la riconquista dei territori romani occidentali, realizzando così una renovatio imperii. A seguito della morte prematura di Atalarico nel 534 d.C., Amalasunta si associò al potere il cugino Teodato trattando allo stesso tempo con Giustiniano per la cessione dell’Italia. Con l’appoggio dei Goti ostili alla politica filoromana della regina, l’anno successivo Teodato la depose, imprigionandola su un’isola del lago di Bolsena e facendola giustiziare in un secondo momento (Procopio, Guerre gotiche, I, 4, 12-28; Ravegnani, 2004b; Gallina, 2008).

Giustiniano, che nel frattempo aveva rapidamente riconquistato l’Africa settentrionale con una campagna guidata dallo strategos autokrator Belisario, ebbe così il pretesto per intervenire dando inizio alla guerra per la “prima Roma”: dopo aver stipulato un’alleanza coi Franchi e aver attaccato i Goti in Dalmazia (Procopio, Guerre gotiche, I, 5, 8-11), nel 535 d.C. Belisario sbarcò in Sicilia al comando di 7.500 uomini, per una spedizione militare che appariva erroneamente più agevole rispetto a quella contro i Vandali. La conquista dell’isola avvenne senza troppi problemi, seguita da un’altrettanto rapida risalita della penisola italica, almeno fino a Napoli, dove furono incontrati i primi ostacoli: ad ogni modo, la caduta della città costò il trono gotico a Teodato, sostituito da Vitige (Procopio, Guerre gotiche, I, 11, 5-9). L’esercito imperiale continuò ad avanzare arrivando a prendere Roma, mentre l’esitazione dei Goti ne permise il consolidamento delle posizioni nel centro Italia. Respinta una controffensiva, Belisario ottenne rinforzi da Costantinopoli e nel 540 d.C. poté così puntare su Ravenna dove Vitige, essendo ormai sconfitto, gli propose la corona d’Italia: il generale non solo dimostrò la sua lealtà all’imperatore, ma portò con sé il re goto ed un cospicuo bottino una volta rientrato a Bisanzio (Procopio, Guerre gotiche, II, 29, 17-37; Breccia, 2016).
La guerra però era tutt’altro che finita: approfittando di una ripresa delle ostilità da parte dei Persiani e dello scoppio di un’epidemia di peste nell’impero, i Goti, guidati dal loro nuovo re Totila, in circa un decennio riuscirono a riconquistare numerose posizioni, persuadendo Giustiniano ad inviare in Italia un nuovo esercito guidato da un suo fedelissimo, Narsete, per dare la svolta decisiva alla situazione. Nel 552 d.C., il comandante imperiale, dopo essere avanzato nell’Italia settentrionale, sferrò un colpo durissimo ai Goti nella battaglia di Busta Gallorum (nei pressi di Gualdo Tadino), nella quale morì lo stesso Totila: i superstiti, raggiunta Pavia, elessero al suo posto Teia, mentre Narsete si diresse a Roma. Questi, sceso poi verso sud, l’anno seguente sconfisse nuovamente i Goti ed il loro sovrano in Campania, sui Monti Lattari (Procopio, Guerre gotiche, VIII, 29-32; 35, 15-36; Breccia, 2016). A questo punto il regno ostrogoto era stato distrutto, nonostante ancora per diversi anni sarebbero esistite delle sacche di resistenza e Narsete avrebbe dovuto respingere anche un esercito di Franco-alamanni (Ravegnani, 2004b).
Nel 554 d.C., Giustiniano, indotto da papa Vigilio, emanò la Prammatica Sanzione, attraverso la quale l’Italia veniva riorganizzata per ritornare alla normalità. Furono così eliminati tutti i provvedimenti di Totila e confermati quelli dei suoi predecessori, allo scopo principale di restaurare il potere dell’aristocrazia senatoria (ormai sull’orlo dell’estinzione) ed i rapporti economici precedenti (Gallina, 2008): esuli e prigionieri poterono rientrare rivendicando i propri diritti e le proprietà perdute, i senatori ebbero la possibilità di trasferirsi a Costantinopoli e viceversa, mentre furono stanziate risorse per la ricostruzione, le distribuzioni alimentari a Roma e la ripresa della vita intellettuale. Dal punto di vista amministrativo, continuarono ad esserci un prefetto del pretorio d’Italia ed un prefetto e un vicario di Roma. L’Italia divenne quindi una provincia dell’impero d’Oriente, il cui territorio fu ridimensionato a seguito della separazione dalle isole e dalla Dalmazia, ed interessato da un’importante opera di consolidamento del controllo militare. Tuttavia, al di là dei proclami che parlavano di un ritorno alla pace e alla prosperità dopo la dominazione barbarica, la penisola era ridotta ad un semideserto cumulo di macerie: i lunghi anni di guerra avevano portato a innumerevoli devastazioni attuate sia dai Goti, sia dalle stesse truppe imperiali inimicatesi la popolazione, costretta a condizioni estreme sfociate anche in atti di cannibalismo o di suicidio. Inoltre, l’autonomia amministrativa non venne di fatto esercitata e i funzionari furono inviati da Oriente, tanto che l’elemento senatorio italico finì per convogliare gradualmente nel corpo ecclesiastico, in ogni caso vittima di ingenti danni e defezioni; infine, la ristrutturazione di monumenti e infrastrutture avvenne solo parzialmente (Ravegnani, 2004b; 2009).
Dopo la morte di Giustiniano, quando sembrava ormai raggiunta una certa stabilità nonostante evidenti scricchiolii, l’impero dovette fare i conti con l’ennesima invasione, che stravolse nuovamente le sorti dell’Italia. Nel 568 d.C., i Longobardi guidati da Alboino partirono dalla Pannonia dove si erano stanziati e attraversarono le Alpi Giulie: l’avanzata, ostacolata principalmente da guarnigioni cittadine capaci solamente di rallentarla, fu indubbiamente favorita dallo scoppio di una pestilenza (seguita da una carestia), dalla rimozione di Narsete dal comando militare e, forse, dal tradimento delle truppe gote poste ai confini. La loro difesa era però usualmente gestita in maniera piuttosto blanda da Bisanzio, che preferiva adottare la diplomazia o attendere la partenza degli invasori di turno. Ciò finì per favorire il dilagare dei Longobardi in Italia settentrionale e l’arrivo di loro contingenti anche al centro e al sud, dove stabilirono ducati a Spoleto e Benevento: dopo la conquista di Pavia, questa divenne capitale di un regno longobardo indifferente al proprio riconoscimento da parte dell’imperatore, diversamente dagli altri regni romano-barbarici, provocando grandi cambiamenti nell’assetto politico-sociale (Ravegnani, 2004b; Gallina, 2008).

Sebbene vi siano stati alcuni tentativi fallimentari di controffensiva, l’impero conservò diversi territori (denominati ducati) come la Pentapoli, la Venetia et Histria, Roma e Napoli, creando un vero e proprio corridoio nel centro della penisola, il cui comando era esercitato da Ravenna, dove nella seconda metà del VI secolo l’imperatore Maurizio aveva costituito l’esarcato. Quest’ultimo fu affidato ad un comandante militare, il quale ottenne anche poteri civili, dal titolo di esarca d’Italia; questo funzionario fu affiancato da un prefetto almeno fino a metà del VII secolo. Il controllo del territorio venne esercitato attraverso una rete di magistri militum e di duces a livello regionale, oltre a tribuni (o comites) nelle città o nei presidi principali: alcuni di essi erano capi longobardi passati a Bisanzio, ai quali furono sottoposti contingenti professionisti provenienti da Oriente e sostenuti da una preponderante presenza di reparti locali, reclutati soprattutto tra il ceto medio degli arconti (Ravegnani, 2004b; Carile, 2006; Gallina, 2008; Origone, 2006). L’esarcato fronteggiò continuamente il pericolo longobardo sia a nord, sia a sud, cercando anche di ottenere l’appoggio dei Franchi coi quali i rapporti furono spesso altalenanti: ad esempio, il mancato coordinamento delle forze alleate non permise il successo della campagna condotta dall’esarca Romano nel 590 d.C., quando i Longobardi si erano trovati in grave difficoltà. Così, gli esarchi, dovendo gestire una situazione complicata, non sempre aderirono incondizionatamente alle disposizioni di Costantinopoli e, inoltre, dovettero fare i conti con l’autorità dei papi a Roma (Ravegnani, 2004b). Superati contrasti come l’autocefalia, cioè l’indipendenza della Chiesa ravennate da quella romana che Costante II aveva ratificato nel 666 d.C., il papato, pur rimanendo formalmente il principale alleato dell’impero in Italia, finì per superare gli stessi Longobardi come potere antagonista: infatti, nel 680 fu stipulato un accordo di pace che riconosceva i possedimenti del regno italico, provocando un aumento del potere papale dovuto anche al disinteressamento graduale di Bisanzio per la penisola, causato dai problemi sui confini orientali. Ovviamente, questa pace non durò a lungo e la politica longobarda di aggressione ai territori imperiali riprese come e più di prima, al pari dei conflitti religiosi tra Roma e Costantinopoli (Ravegnani, 2004b).
I rapporti complicati tra le due parti, dopo i difficili anni di regno di Giustiniano II, raggiunsero il loro apice con l’ascesa di Leone III Isaurico: l’eccessiva tassazione ed il divieto del culto delle immagini imposto dal basileus nel 726, inasprirono le tensioni col papa causando rivolte nella provincia italica e lotte interne a Ravenna stessa, dove addirittura l’esarca Paolo venne ucciso. I Longobardi, approfittando del costante aumento della debolezza bizantina, sotto la guida di Liutprando conquistarono terreno a danno degli imperiali e minacciarono Roma, mentre l’ultimo esarca, Eutichio, sempre più abbandonato a sé stesso, cercò l’appoggio dei pontefici in un reciproco tentativo di sopravvivenza. Ma l’esarcato era ormai giunto al capolinea: il nuovo re longobardo Astolfo, contrariamente alla politica dei predecessori, pose fine alla diplomazia e puntò con decisione su Ravenna, caduta definitivamente nel 751 d.C. Mentre Roma divenne praticamente dominio autonomo papale, la presenza bizantina in Italia si ridusse così al Meridione, all’area veneziana e alle isole, dove comunque dovette resistere non solo ai Longobardi, che non sopravvissero a lungo all’esarcato, ma anche agli Arabi e al nuovo impero germanico occidentale (Ravegnani, 2004b; Carile, 2006; Ivetic, 2019).
2. I Balcani come frontiera settentrionale dell’impero: Bisanzio e la Bulgaria
L’idea radicata nella storiografia occidentale che i domini del basileus greco fossero una realtà distante da quello che li circondava non trovava riscontro nella realtà storica, semplificandola eccessivamente.
L’impero era senza dubbio qualcosa di plurimo, caratterizzato da svariate situazioni inserite in un contesto estremamente ampio, sia in termini spaziali sia temporali. Le frontiere dello Stato bizantino furono un interessante esempio di come una realtà in costante mutamento necessitava di soluzioni pratiche, capaci di mettere in luce un Medioevo estremamente poroso e dinamico, sempre in evoluzione e caratterizzato da spostamenti, migrazioni e nuove relazioni.
Bisanzio rappresentava un gigante negli spazi politici dell’età di mezzo e dunque fu obbligata ad adottare ogni volta soluzioni pragmatiche e innovative: i suoi confini non potevano assumere la forma di linee di demarcazione invalicabili. Se ben note furono le vicende della frontiera orientale, intenta nel corso dei secoli a demarcare i territori che rispondevano al basileus tra Asia Minore e Siria, spesso si tendeva a trascurare le informazioni relative alla controparte balcanica, il confine settentrionale dell’impero. I cambiamenti su questa frontiera rimasero sempre fondamentali per comprendere le dinamiche e le evoluzioni della concezione medievale di “confine”.
La sua posizione geografica, così vicina alla capitale, la rendeva uno dei punti nevralgici più sofisticati per Costantinopoli. Per quanto l’area balcanica fosse probabilmente la meno densamente popolata, si trattava probabilmente di quella che più influenzava le misure prese dal governo nel breve periodo. Ma il confine in questione non divenne mai una linea tesa e invalicabile: si trattava di uno dei maggiori punti dove Bisanzio poteva dialogare con l’Europa continentale e dunque rimase, per tutta la vita dell’impero d’Oriente, un limes fluido, flessibile e dinamico, pronto a soluzioni innovative dal punto di vista tanto politico quanto fiscale.
La composizione geografica della penisola balcanica suggeriva la particolarità delle soluzioni adottate dalle autorità, dato che solo il corso del Danubio rappresentava un serio ostacolo per chi proveniva da nord (Breccia, 2016). Bisanzio però, dal canto suo, aveva provveduto nel corso dei secoli a costruire strade e acquartieramenti in grado di favorire il rapido spostamento verso la frontiera settentrionale e il Mar Nero.
Uno degli avvenimenti più significativi per la penisola balcanica del VII secolo fu lo stanziamento delle tribù bulgare a ridosso dei territori bizantini. Il vuoto lasciato dagli Avari consentì ai migranti appena arrivati di occupare una vasta porzione di territorio, dalla foce del Danubio alle pianure della Mesia e della Scizia (Ravegnani, 2004a). Fu il khan Asparuch a guidare la cavalcata bulgara verso sud, accompagnando il processo di migrazione con quello di unificazione delle varie tribù uralo-altaiche e protobulgare (Breccia, 2016). I successi militari dei nuovi arrivati consentirono loro di inglobare le popolazioni slave che vivevano a cavallo del confine balcanico dell’impero d’Oriente, dando origine ad una nuova entità politica e culturale a ridosso della frontiera. Una formazione capace tanto di dialogare, quanto di entrare in conflitto con Bisanzio.

Questi rapporti furono immediatamente articolati e complessi: se per la realtà imperiale i nuovi arrivati erano solamente uno dei tanti “vicini”, dei quali era fondamentale comprendere le intenzioni, per i Bulgari era necessario amalgamare la propria unità e imparare ad avere a che fare con un colosso dalle proporzioni imperiali. Fin da subito si alternarono incursioni di saccheggio reciproche a dei primi trattati atti a tutelare il commercio, come quello risalente al 716 che garantì ai Bulgari il controllo di gran parte della Tracia (Crampton, 2010).
3. Pace e conflitti: il limes bizantino-bulgaro come realtà dinamica
Le invasioni della penisola balcanica cambiarono per sempre la concezione bizantina dei territori settentrionali: le confederazioni di tribù slave, protobulgare e avare rendevano quelle regioni un grande crogiolo di realtà con le quali l’impero doveva necessariamente confrontarsi. La frontiera non divideva più il mondo greco e romano da ciò che poteva essere considerato barbaro: i nuovi arrivati erano diventati parte integrante del dinamismo regionale, sia nei territori del basileus, sia nelle realtà esterne in via di formazione.
Nell’ultimo ventennio del VI secolo, popolazioni di lingua slava arrivarono ad insediarsi stabilmente nel Peloponneso dando vita alle cosiddette Sklavinie, comunità che non alteravano i confini dello Stato di Bisanzio ma che puntavano alla conquista di realtà urbane al suo interno (Gallina, 2008). Questo dinamismo, condensatosi nelle nuove presenze bulgare, slave e avare, costrinse l’impero a sperimentare nuovi sistemi politici per conferire alla regione balcanica un nuovo assetto: il confine settentrionale rimase uno dei territori tra i meno densamente popolati e poveri sotto il controllo bizantino. L’amministrazione imperiale rispose attuando una politica di colonizzazione dislocando braccianti dalle altre regioni dell’impero e assegnando terre ai soldati dell’esercito tematico, i quali dovevano mantenere il loro equipaggiamento con la rendita (Gallina, 2008). Gli abitanti dei Temata dell’Asia Minore furono costretti a vendere le loro proprietà e a trasferirsi in Sclavinia, dove ottennero nuovi appezzamenti e dovettero prestare servizio militare (Ostrogorsky, 2014).
I rapporti di vicinato tra il nascente regno bulgaro e l’impero d’Oriente furono, come si è visto, estremamente complessi, alternando fasi di proficuo dialogo ad altre di guerra aperta: Giustiniano II, ad esempio, non esitò a domandare supporto militare al khan Tervel durante il suo confronto per il potere con Tiberio II (Breccia, 2016). Le popolazioni balcaniche erano ormai entrate di diritto all’interno del complicato sistema politico imperiale, in alcune occasioni come validi alleati e in altre come nemici. Durante la battaglia di Costantinopoli, combattuta non lontano dalle sue mura nel 718 d.C., sempre Tervel guidò i propri cavalieri in soccorso dei Romei contro l’esercito musulmano, attratti probabilmente dalla possibilità di saccheggiare un lauto bottino.
La Tracia spesso fu al centro dei dialoghi e delle dispute tra i due regni a cavallo del fiume Danubio: la sua difesa restava vitale per la corona imperiale, soprattutto per continuare a ribadire il proprio primato politico sull’Europa orientale e per rendere vane le aspirazioni egemoniche bulgare.

Dopo aver sottoposto a pieno controllo bizantino le popolazioni slave di Grecia nell’870, Niceforo I Logoteta aveva lanciato una poderosa campagna per la riconquista dei territori a ridosso della Tracia (Treadgold, 2005). L’obiettivo del basileus consisteva in una ampia riorganizzazione dei Temata balcanici, per poi passare alla istituzionalizzazione di un nuovo assetto locale in grado di mettere in sicurezza la frontiera settentrionale dell’impero. L’offensiva militare portò ad una frattura con Krum, khan dei Bulgari, che reagì mettendo a ferro e fuoco la città bizantina di Serdica (oggi ironicamente Sofia, capitale della Bulgaria contemporanea).
Nell’811 l’esercito imperiale si diresse vigorosamente verso nord passando il confine: Niceforo assediò e distrusse la capitale di lingua slava Pliska, dando alle fiamme il palazzo del khan. Dopo aver fortificato il confine e sconfitto più volte il nemico, il basileus si decise a stroncarne le velleità inseguendolo verso le montagne dei Balcani (Ostrogorsky, 2014). Ma i Bizantini finirono per incunearsi in una stretta valle e caddero vittima di un’imboscata nella quale perse la vita persino Niceforo, ed il suo erede, Straucio, rimase paralizzato (Treadgold, 2005). L’esercito bulgaro passò così all’offensiva dilagando nelle vallate e nelle pianure della Tracia orientale, fino a mettere sotto assedio Costantinopoli.
Krum non aveva però ancora fatto i conti con le invalicabili mura della capitale, imprendibili nonostante il grande numero degli assedianti. Il khan rinunciò alla conquista della città, ma avanzò la richiesta di un gesto simbolico, cioè conficcare la sua lancia nei battenti della Porta d’Oro (Breccia, 2016). Il nuovo basileus, Leone V, rifiutò e successivamente attentò alla vita del comandante nemico con una congiura compiutasi durante una trattativa di pace, senza però riuscire nel suo intento. Nonostante lo scampato pericolo, l’imperatore dovette attendere la morte del rivale, avvenuta diversi anni dopo, per poter lanciare una controffensiva militare in Tracia. Dopo una vittoria bizantina sul campo, le due parti giunsero ad un accordo di pace trentennale: i Romei avrebbero rinunciato ai territori conquistati precedentemente dall’avanzata di Niceforo se i Bulgari avessero restituito tutto quello che avevano assorbito prima dell’inizio delle lunghe ostilità. Altri territori contesi, invece, sarebbero ricaduti sotto la giurisdizione di vari potentati di lingua slava (Treadgold, 2005).
La Tracia e i Balcani si dimostrarono ancora una volta troppo importanti per entrambe la parti, ma le due potenze balcaniche erano ormai consce che la propria influenza doveva necessariamente confrontarsi con quella dei vicini: impossibile dunque non riconoscere il proprio interlocutore.
4. Conversione all’ortodossia: influenza di Bisanzio o sfida bulgara?
La politica di grecizzazione messa in atto dai Bizantini nella penisola condusse a risultati nel Peloponneso e in Tracia, entrando in contrasto però con il rafforzamento del regno bulgaro dovuto ad una maggiore centralizzazione della sua amministrazione (Gallina, 2008).
Il successore di Krum, Omurtag, affiancò l’azione militare all’introduzione di un complesso sistema legislativo in grado di consolidare le strutture interne del regno. Questa politica fu portata avanti anche del regnante seguente, Boris I: egli vide nella conversione al cristianesimo un atto legittimante, fondamentale per inserire la Bulgaria negli assetti istituzionali dei Balcani medievali, ampliando il dialogo con Bisanzio e con i potentati dell’alto Danubio. La situazione interna non era più ignorabile: molti slavi si erano già convertiti, mentre rimanevano pagani i componenti dell’antica nobiltà protobulgara. La creazione di un reame più centralizzato doveva necessariamente passare da una manovra politica che costringesse i vecchi ceti egemoni ad assecondare il volere del sovrano. Lo stesso esercito dei khan, che aveva affrontato i Bizantini, era per lo più composto da slavi cristianizzati, i quali non avevano mai messo in discussione l’unità dello Stato (Crampton, 2010). Inoltre, la comunità monoteista di Bulgaria aveva continuato a crescere anche a causa della guerra e dei molti prigionieri che erano stati deportati durante saccheggi nelle terre a sud.

La decisione della conversione alla nuova fede fu probabilmente un atto voluto sia per limitare la capacità decisionale dell’antica nobiltà, sia per permettere al regno di Bulgaria di inserirsi all’interno della vita politica internazionale ed essere formalmente riconosciuto come pari, soprattutto dal vicino bizantino. Una volta iniziate le trattative con entrambe le confessioni, cattolica e ortodossa, i sovrani bulgari scoprirono che le due Chiese erano ugualmente risolute a non concedere al potere secolare la creazione dei vescovi. Boris decise dunque di dialogare con una realtà a lui già nota, avvicinandosi alla Chiesa orientale; questo a differenza del vicino regno di Ungheria che, nella medesima fase istituzionale, rientrò all’interno del cattolicesimo romano.
Nell’870 si diede forma alle prime istituzioni ecclesiastiche bulgare: sarebbero state guidate da un patriarca presente all’interno del regno, ma scelto da Costantinopoli. L’evento fu però un passo importante per l’unità del regno di Boris: attraverso la conversione, infatti, vennero cementificate le relazioni tra la popolazione slava e quella che fino a quel momento era stata l’élite protobulgara (Crampton, 2010). L’invio di missionari greci presso la corte del re fu un altro tassello fondamentale per inserire la Bulgaria all’interno della scena culturale balcanica: i monaci fratelli Cirillo e Metodio si occuparono di redigere un nuovo alfabeto, denominato successivamente cirillico, con il quale venne scritta la prima raccolta di leggi in una lingua slava, basandola sul diritto bizantino (Gallina, 2008).
La Bulgaria entrava così nell’ecumene delle realtà cristiane: se per i Greci questo poteva rappresentare la neutralizzazione di un possibile pericolo al confine, per i Bulgari il nuovo alfabeto portava una nuova unità e maggiore evoluzione all’interno delle dinamiche legislative, indispensabili tanto per l’amministrazione della giustizia, quanto per sottrarsi all’influenza imperiale.
5. Simeone il Grande e il rapporto con il linguaggio bizantino del potere
Lo stesso concilio che nell’893 decretò il bulgaro come lingua ufficiale del regno, sancì anche l’ascesa di Simeone al trono di Bulgaria (Crampton, 2010). Il nuovo sovrano entrò presto in contrasto con l’impero di Bisanzio per il ruolo di potenza egemone dell’area balcanica: il conflitto ebbe come casus belli alcune dispute commerciali legate ai commerci e ai dazi (Ostrogorsky, 2014). Le merci in viaggio dall’Egeo verso l’Europa centrale trovavano nella via balcanica uno snodo fondamentale: questo rendeva l’intera regione una tappa obbligata per i traffici tra Occidente e Oriente. A questa altezza cronologica la navigazione nel Mediterraneo era infatti pericolosa e i collegamenti via terra rimanevano estremamente redditizi.
La situazione sembrò subito critica per Bisanzio che, presa tra due fuochi (l’assalto bulgaro e una offensiva araba), decise di risolvere prima la questione balcanica accettando uno spostamento della frontiera verso sud, a ridosso di Tessalonica. Per mantenere statici i rapporti, l’impero acconsentì anche a versare annualmente un tributo al regno bulgaro. Questo gesto non deve essere frainteso, perché era prassi per Costantinopoli comprare la pace se le condizioni economiche lo permettevano: più volte i forzieri greci si erano aperti con lo scopo di mettere a tacere le velleità dei regni confinanti. I basileis spesso preferivano offrire un conguaglio economico, piuttosto che dissanguarsi in una guerra che potenzialmente poteva durare diversi anni.
Nel 912, morto l’imperatore Leone VI e data la giovane età del successore Costantino, venne proclamato reggente lo zio Alessandro: il nuovo governo rifiutò il pagamento del tributo promesso a Simeone rendendo il confine tra i territori bizantini e bulgari nuovamente problematico. La presa di posizione della corte imperiale fu letta con prontezza dal sovrano bulgaro, che in giovane età era stato allievo di Bisanzio e aveva pertanto appreso i dettami della politica: egli pensava e agiva, quindi, come i Romei (Ostrogorsky, 2014).

Il limes balcanico, nonostante le mura greche e i fortilizi bulgari, non si dimostrava poroso solo per i commerci e le migrazioni ma anche per le idee: le due corti ora agivano tramite azioni dagli stessi significati semantici. Il re dei Bulgari decise così di passare il confine in armi e sfidare il gigante imperiale per incalzarne il ruolo politico nella parte orientale del continente europeo. Simeone si dirigeva verso la capitale romana non con l’intenzione di annientarla o sconfiggerla, ma di sostituirla, facendosi riconoscere come interlocutore superiore. Egli era un sovrano cristiano in cerca di una posizione egemonica nei Balcani e necessitava di un riconoscimento bizantino per sostituirsi al basileus. Eppure, così facendo, ribadì il ruolo di Costantinopoli come legittimante anche verso le entità esterne; le due realtà parlavano dunque lo stesso linguaggio politico. Riconosciuto come basileus di Bulgaria, Simeone sulla carta poteva porsi come veicolo del titolo di imperatore, avendo ottenuto anche un matrimonio tra sua figlia e Costantino (Ostrogorsky, 2014). Eppure, appena lasciata la capitale greca, con il ritorno di Zoe, a capo di una rivolta aristocratica e madre del giovane sovrano, fu rimesso in discussione quanto pattuito impedendo l’attuarsi del piano di Simeone. Le ostilità tra i due blocchi si riaprirono: entità politiche in contrasto, ma capaci di dialogare nelle evoluzioni istituzionali. Costantinopoli non aveva nessuna intenzione di rinunciare alla sua posizione egemone nell’Europa orientale: il riconoscimento di una terza autorità imperiale nel vecchio continente, dopo quanto avvenuto con Carlo Magno, fu considerato inaudito da alcune frange politiche imperiali. Al comando dell’esercito greco fu posto Romano Lecapeno che, nonostante le prime sconfitte subite lungo la costa bulgara del Mar Nero, riuscì a farsi incoronare basileus dei Romei nel 920.
L’unica speranza per Simeone di poter giungere alla carica imperiale passava inevitabilmente dalla capitale bizantina, ma l’assenza di una flotta da parte bulgara rendeva troppo ardua l’impresa. Il protrarsi della guerra e i continui assedi della città resero necessarie delle trattative. Nel 924 Simeone si presentò nuovamente a Costantinopoli e Romano optò per una soluzione pragmatica: il rivale avrebbe potuto utilizzare il titolo di basileus legandolo esclusivamente alla realtà bulgara, rinunciando definitivamente a quella dei Romei (Ostrogorsky, 2014).
In conclusione, gli esempi brevemente trattati dimostrano come la gestione dei confini da parte di Bisanzio dipendesse da una strategia di adattamento agli interlocutori coi quali doveva di volta in volta confrontarsi, mettendo in atto, allo stesso tempo, un graduale processo di osmosi culturale e politica in grado di assicurare, soprattutto in Oriente, la preminenza del potere imperiale.

Michele Gatto – Scacchiere Storico
Michele Gatto è uno studioso dell’antichità greca e romana, in particolare della Grecia in età classica e di Roma in età imperiale. È specializzato in Numismatica Antica. I suoi interessi arrivano a comprendere inoltre la storia bizantina.

Riccardo Marchetti – Scacchiere Storico
Riccardo Marchetti è studioso del Medioevo, in particolare del XIV secolo. La sua analisi si concentra principalmente in ambito sociale ed economico, ma si concede volentieri qualche scorribanda nell’intricato mondo delle istituzioni italiane ed europee.
Bibliografia
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Immagine di copertina: i santi soldati Mercurio e Artemio di Antiochia. Affresco di Manuel Panselinos, XIII-XIV secolo (fonte: Wikimedia, licenza CC0)
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