SEBBEN CHE SIAMO DONNE

Mondine negli anni '50

Il ruolo della donna nella produzione del canto sociale e di protesta

1. Premessa

Otto marzo, prima mattina: migliaia di operaie tessili si recano davanti alle fabbriche della città ma, al posto di entrare a lavorare, entrano in sciopero. A spingerle è la fame, le code per il pane, ma anche i miseri salari e le durissime e lunghe giornate di lavoro. Non chiedono soltanto però un miglioramento delle proprie condizioni di vita: chiedono la fine della guerra, che i loro compagni tornino a casa, e rivendicano un maggiore protagonismo nella vita pubblica. Le operaie marciano sui palazzi del potere, mentre i reparti a cavallo dell’esercito, mandati a reprimerle, solidarizzano con loro; vengono aggredite decine di poliziotti, e le tessitrici chiedono ai metalmeccanici e agli operai dei settori fondamentali di unirsi alla loro lotta. In breve, il fuoco divampa in ogni quartiere, in tutta la città, in tutto il Paese. Siamo a San Pietroburgo, è il 1917: inizia la Rivoluzione di febbraio. 

Quarto Stato di Pellizza da Volpedo
Il Quarto Stato, di Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1901 (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

In generale, in moltissime epoche le donne sono state all’avanguardia del movimento dei lavoratori o, più in generale, delle lotte degli sfruttati. Per quanto riguarda l’Italia – ma si potrebbe dire per l’intera Europa – gli ultimi decenni del diciannovesimo secolo sono un momento privilegiato per studiare il ruolo delle donne nella costruzione dell’immaginario collettivo del nascente proletariato urbano e contadino.

Ma cosa significa, nel concreto? Come si costruisce l’immaginario collettivo? Con le pratiche di lotta, certo: le associazioni operaie a fine Ottocento mettono in pratica scioperi a oltranza per rivendicare migliori salari e condizioni di vita e, soprattutto, le otto ore di lavoro. Da questo immenso movimento, dai mille rivoli dell’organizzazione autonoma operaia nascerà negli ultimissimi anni del secolo il Partito socialista, destinato ad essere uno dei protagonisti del nostro Novecento fino alla sua fine prematura e, possiamo pure dirlo, ingloriosa.

Ma la lotta sociale non è muta. Perché funzioni, come capiscono ben presto i giovani socialisti italiani, deve cantare. Deve cioè articolare le proprie rivendicazioni in melodie e inni che possano essere ripetuti dagli operai e dalle operaie mentre si lavora e anche dopo, durante lo sciopero, alla fine delle riunioni e delle assemblee. Ed è di questo, oggi, che proviamo a parlarvi: di come le donne del proletariato italiano abbiano avuto, a inizio Novecento, un ruolo centrale nella costruzione dell’immaginario collettivo socialista, comunista e anarchico attraverso lo strumento trasversale e vitale della produzione di canti di lavoro e protesta sociale.

2. Nel settore tessile: canto e rivoluzione in filanda

Il padrone a nnoi ci grida

troppo tardi je venimo

con maniere je lo dimo

ce sentimo poco be

e non giova medicine

la nostra bocca è ttanto amara

‘l calor della caldara

ce consuma notte e dì.

Così le tessitrici delle numerose filande della Vallesina, nelle Marche, salutavano il suono della sirena che annunciava l’inizio o la fine del lavoro (Pietrucci, 1985). Queste strofe, appartenenti alla canzone So ffinidi i bozzi bboni e scritte sul finire del diciannovesimo secolo, rappresentano una protesta contro il tenore di vita in fabbrica, protesta che, seppur timida, era rivolta verso il padrone della filanda, già identificato come l’origine delle difficili condizioni di lavoro e dei bassi salari. La genesi del canto di protesta del proletariato italiano è, infatti, strettamente legata al posto di lavoro: le tessitrici nella filanda scandivano i ritmi con canti cadenzati, e in questo erano dirette da una donna assunta con questo scopo specifico, la cosiddetta giratora. Il padrone della filanda incoraggiava questo comportamento: se le donne erano impegnate a cantare significava che si sarebbero distratte meno dal lavoro, non potendo mettersi a chiacchierare fra loro. È da questi canti cadenzati che le tessitrici, in occasione dei primi scioperi, prenderanno le melodie per creare i primi canti di protesta.

Filanda San Giacomo di Veglia
Filanda di San Giacomo di Veglia, Vittorio Veneto, oggi Museo del Baco da Seta (fonte: autore, Paolo Steffan; licenza CC BY-SA 3.0)

Le Marche, come del resto altre regioni dell’Italia dell’epoca, sono un osservatorio speciale per captare la produzione già così rilevante di sempre nuovi canti di protesta. Sempre in Vallesina, ad esempio, le operaie tessili producono altri due canti nei quali la condizione femminile è criticata a tutto tondo, non solo nella fabbrica ma anche nella società e perfino nell’istituzione familiare.

È il caso ad esempio de La Malmaritata, canzonetta di lavoro nella quale una vecchia operaia ammonisce le giovani donne sui rischi e le fatiche della vita coniugale (aremirate mie care zitelle/o rugantelle che volete marito/che la cagion so io quante ne provo de lo mio marì). Altro caso simile è quello del canto Io vado in filandra, in cui la donna lavoratrice rivendica un ruolo economico ormai ben chiaro, a cui però non risponde il riconoscimento sociale. Nel testo si capisce chiaramente che la donna, pur guadagnando una buona paga in filanda, non può spendere nulla per sé, poiché il marito requisisce lo stipendio – in nome di una supposta superiorità maschile che non ha più una minima base economica – per andarselo a giocare nella bisca o a bere in osteria:

Quand’è sabbado e sera prendo la settimana

Nemmeno ‘na sottana me ce posso fa’

Vie’ccasa mi’ marido i soldi porta via

E tutti all’osteria me se li va a giogà.

Oh mamma, oh mamma anche al marito devo dar mangià.

Anche per quanto riguarda il nord Italia, in cui le industrie tessili si moltiplicano alla fine del XIX secolo, il repertorio canoro è altrettanto combattivo e schierato apertamente a rivendicare un nuovo ruolo sociale della donna, che corrisponda alle nuove entrate economiche di cui le lavoratrici possono vantarsi. Ecco, dunque, che si cantano le condizioni delle “povere figlie” obbligate a lavorare in filanda (poverette quelle figlie che son dentro a lavorar/siam trattate come cani come cani alla catena/non è questa la maniera o di farci lavorar), non prima di aver indicato nei proprietari delle aziende gli aguzzini, i fautori dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo (el mesté della filanda l’è el mesté degli assassini) (Pivato, 2005).

3. Son la mondina, son la sfruttata 

Tuttavia, il contesto che più rimane nell’immaginario collettivo dei lavoratori e delle lavoratrici italiane è quello della risaia che, dal novarese e dal vercellese, si irradia in tutta la Pianura Padana e da lì nel resto della penisola. Le mondine, e più in generale tutte le lavoratrici di risaia che erano, vale la pena ricordarlo, in larghissima parte donne, usavano ritmare il proprio lavoro al tempo di canti composti in maniera collettiva durante le faticose ore passate a pulire il riso (Istituto Ernesto de Martino, 1999).

Riso amaro
Silvana Mangano in Riso amaro, di Giuseppe De Santis (1949) (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Con le gambe immerse nell’acqua sporca fino alle ginocchia, le gonne arrotolate a mezza coscia – a metà fra esempio di necessità materiale e voglia di emancipazione – per resistere alla fatica e all’assalto di zanzare e altri insetti, le mondine regalano al movimento operaio italiano alcune fra le canzoni più significative e rappresentative di un’intera epoca. In Saluteremo il signor padrone, decenni dopo portata al successo da Eugenio Finardi, le lavoratrici cominciano con la rivendicazione di un salario equo, per passare poi all’esplicita accusa di furto rivolta al padrone della risaia (Saluteremo il signor padrone/per il male che ci ha fatto/che ci ha sempre derubato fino all’ultimo denar), e per concludere infine con il sogno palingenetico del ritorno a casa, che rappresenta qui più che altro la necessità di mettere una distanza fisica vera e propria fra sé e la durissima vita della risaia (macchinista, macchinista faccia sporca/metti l’olio nei stantuffi/ di risaia siamo stufi e a casa nostra vogliam tornar). Sciur padrone da li beli braghi bianchi si situa poi nello stesso filone: nata probabilmente nei campi del novarese, la canzone è una durissima requisitoria contro il tipico proprietario della risaia che, vestito di bianco senza timore di doversi sporcare con il fango e l’acqua dei campi, stava in piedi sull’argine, ben protetto dal sole grazie al proprio ombrellino, a osservare il lavoro massacrante e ripetitivo delle mondine. Il centro della canzone è naturalmente la necessità di “tirar fora li palanchi”, cioè di garantire uno stipendio adeguato alle lavoratrici, le quali concludono con l’immancabile invocazione dell’arrivo del salvifico treno che – una volta pagati i salari – garantisce un sicuro ritorno a casa, lontano dalle mortifere risaie.

Son la mondina, son la sfruttata – altra tipica canzone di risaia – compie poi un passo ulteriore nella politicizzazione della lotta. Se in Saluterem il signor padrone prevale il semplice rifiuto di un lavoro concepito come degradante, questo pezzo diventa invece un vero e proprio decalogo di rivendicazioni socialiste: da una descrizione cruda e realistica dei metodi durissimi di sciopero messi in atto dalle mondine, come l’usanza di sdraiarsi sui binari per bloccare i treni in arrivo carichi di crumiri, e dalla disamina della violenza poliziesca contro le scioperanti, il testo procede alla descrizione delle tipiche posizioni del socialismo nascente: giornata lavorativa di otto ore, costruzione di un mondo basato su “pace, pane e libertà”, termini che diventeranno poi famosi come le parole d’ordine dei bolscevichi russi in seguito alle Tesi di Aprile nel 1917.

Di tono nettamente più intimista, la struggente Amore mio non piangere si concentra invece sui problemi sanitari legati al lavoro in risaia. Il canto, noto oggi in molteplici versioni, ma tutte con la medesima carica di dolore e rabbia, racconta la storia di una lavoratrice ormai consumata dalle malattie contratte nei campi – non ultima la malaria, che ancora mieteva molte vittime anche nel nostro Paese – che torna a casa dai genitori. La mondina, in agonia, si fa carico della consolazione sia del ragazzo di cui è innamorata, un giovanotto conosciuto in risaia che non può seguirla in quello che probabilmente sarà il suo ultimo viaggio; sia dei genitori, che la vedono giungere a casa ormai in agonia e ai quali la mondina comunica che è la risaia stessa, qui personificata in una sorta di horribile monstrum, la responsabile della malattia che l’ha quasi del tutto consumata. Ciò che desta impressione nell’ascoltatore, oggi come cento anni fa, è la grande forza d’animo della protagonista del racconto, che trova lati positivi persino nella sua condizione: essendo malata in modo grave, infatti, può essere rimandata a casa, e così finalmente “non sarà più la capa che mi sveglia la mattina/ ma là nella casetta mi sveglia la mammina” (Bermani, 2003).

4. Rivolta sociale e organizzazione politica: le leghe rosse

Come abbiamo visto sin qui tutti i canti elaborati dalle lavoratrici italiane di inizio Novecento, anche quelli meno connotati in senso socialista, presentano una forte critica dell’esistente, una tensione verso la costruzione di un mondo nuovo, libero dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In questo senso sono diretti naturalmente gli sforzi anche della controparte maschile del mondo operaio italiano, organizzato in comitati, gruppi, associazioni che presto fonderanno il Partito socialista. Ma le donne, come abbiamo già visto, rivendicano spazi di autonomia in questa costruzione del mondo nuovo; rivendicano cioè un ruolo paritario e non subalterno agli uomini, che pur rimanendo innanzitutto dei compagni di lotta si ibridano necessariamente con la categoria dei mariti, all’epoca (e talvolta ancora oggi) molto spesso sinonimo di oppressione patriarcale. 

Mondine nei campi
Mondine si recano al lavoro nei campi del vercellese (fonte: Touring Club Italiano, licenza CC BY-SA 4.0)

Tale rivendicazione di autonomia da parte della componente femminile del movimento operaio si sostanzia anche nella pratica, con la creazione delle leghe, vere e proprie organizzazioni di lotta sindacale che, rappresentando determinate e ben precise categorie, molto spesso sono composte per la maggioranza da donne: è il caso, ad esempio, delle leghe delle mondine, ma anche delle lavoratrici tessili e delle sigaraie, attive in particolare nei grandi centri urbani.

Naturalmente, la costruzione di leghe a maggioranza femminile non può che ripercuotersi sull’immaginario collettivo dei lavoratori. Nascono quindi canti di politicizzazione femminile che rivendicano questo ruolo autonomo della donna lavoratrice all’interno della più ampia lotta per il socialismo: è il caso, ad esempio, della famosissima canzone La Lega, scritta attorno al 1900 e oggi più conosciuta con un titolo preso dal primo verso del ritornello, Sebben che siamo donne:

Sebben che siamo donne

Paura non abbiamo

Per amor dei nostri figli

In lega ci mettiamo 

Aolilìoilìoilà

E la Lega crescerà

E noi altri socialisti

Vogliamo la libertà.

In questo pezzo di straordinaria forza è da notare innanzitutto il vocabolario tipico dei canti di risaia, che anche qui si sostanzia in formule onomatopeiche (“Aolilìoilìoilà”) che non hanno altro ruolo se non quello di rendere più cantabile e orecchiabile il canto stesso. È poi utile notare anche il plurale sovraesteso maschile (“socialisti”, non “socialiste”) per indicare una collettività femminile, segno di una predominanza linguistica del termine maschile che però non intacca la chiarissima rivendicazione di autonomia delle donne, che possono ben difendersi da sole – senza uomini a rappresentarle – come si evince dalle seguenti strofe:

Sebben che siamo donne

Paura non abbiamo

Abbiam delle belle e buone lingue

E ben ci difendiamo

Tuttavia, pur essendo un canto estremamente politicizzato in senso socialista, e anzi divenendo una sorta di inno non ufficiale delle cosiddette leghe rosse che organizzeranno – insieme alle leghe bianche cattoliche – larga parte del mondo contadino italiano, non ci si dimentica qui anche delle rivendicazioni salariali, che anzi costituiscono la base, il nerbo della Lega, il primo e più immediato motivo per il quale è nata come organizzazione. Ancora una volta l’obiettivo polemico delle lavoratrici è il padrone della risaia o della fabbrica, che pur avendo a disposizione il denaro si rifiuta di aprire il portafogli:

E voialtri signoroni

Che ci avete tanto orgoglio

Abbassate la superbia 

e aprite il portafoglio

(…)

E noi altri lavoratori

I voruma vèss paga’.

5. Conclusioni

Sfruttamento, condizioni di vita ai limiti della sopportabilità, intere categorie che ricercano una autonomia non solo economica ma anche sociale ed espressiva: questo è quanto emerge da una analisi, per necessità di spazio certo non eccessivamente approfondita, di alcuni dei canti che ritmarono le lotte per l’emancipazione dei lavoratori italiani a cavallo fra Ottocento e Novecento. Temi che ancora oggi sembrano essere di stringente attualità: basti pensare alla frenetica precarizzazione dei contratti di lavoro, che spesso i giovani si vedono costretti a dover rinnovare ogni pochi mesi; pensiamo a quanta strada vi sia ancora da fare per raggiungere una parità fra uomo e donna, parità che nel nostro Paese non è nemmeno salariale, figuriamoci sostanziale; e per quanto forse oggi, almeno in apparenza, a non essere più di attualità sia l’efficace organizzazione dei lavoratori, di quelli che le nostre tessitrici avrebbero chiamato gli sfruttati, è certo affascinante scavare alla ricerca delle radici culturali delle lotte per l’emancipazione dei lavoratori. Questi scavi, lo sappiamo bene, sono oggi ancor agli inizi, colpevole la difficile reperibilità di fonti di certo poco tradizionali; tuttavia gli studi continuano, e faremo quanto è in nostro potere per portare all’attenzione dei nostri lettori i risultati di tali studi.

Davide Longo – Scacchiere Storico

Davide Longo è dottore magistrale in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Milano. Vive negli Stati Uniti, dove frequenta il MA in Italian Studies ed è teaching assistant di lingua italiana alla Florida State University. I suoi campi di interesse principali sono la storia sociale e culturale dell’Italia fra Ottocento e Novecento e le pratiche della memoria della Grande Guerra in epoca fascista e repubblicana. È membro della American Association for Italian Studies (AAIS) e della Society for Italian Historical Studies (SIHS). Collabora, fra gli altri, con Il ManifestoAtlante Editoriale e Altreconomia.

Bibliografia 

Bermani C., “Guerra guerra ai palazzi e alle chiese”. Saggi sul canto sociale, Odradek, Roma, 2003; Brunello P., Storia e canzoni in Italia: il Novecento, Comune di Venezia, Venezia, 2000; Catanuto F., Schirone S., Il canto anarchico in Italia nell’Ottocento e nel Novecento, Zero In Condotta, Milano 2001; Istituto Ernesto de Martino (a cura di), Avanti popolo alla riscossa. Due secoli di canti popolari e di protesta civile, Ala Bianca Group, Milano, 1999; Pietrucci G., Cultura popolare marchigiana. Canti e testi tradizionali raccolti nella Vallesina, Centro Studi Jesini, Jesi, 1985; Pivato S., Bella Ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 2005; Settimelli L., Falavolti L., Canti comunisti e socialisti, Savelli, Roma, 1976; Straniero M.L., Avanti popolo alla riscossa. Antologia della canzone socialista in Italia, I Dischi del Sole, Milano, 1968; Vettori G., Canzoni italiane di protesta (1794-1974). Dalla Rivoluzione francese alla repressione cilena, Newton Compton, Roma, 1976.

Immagine di copertina: mondine in una risaia durante gli anni ’50 (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

Rivista di ricerca e divulgazione storica

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