LA SCHIAVITÙ IN BRASILE

Macina per lo zucchero

di Davide Galluzzi

Tra le pagine più oscure della storia dell’umanità vi sono, indubbiamente, quelle della schiavitù e della tratta atlantica di schiavi che, dalle loro terre d’origine in Africa, venivano importati nelle colonie europee in America.

Come noto, questa orribile istituzione era diffusa in tutto il Nuovo Mondo, anche se forse gli episodi che più sono rimasti impressi nelle nostre menti sono quelli legati alla schiavitù negli Stati Uniti o alla Rivoluzione di Haiti.

Uno dei Paesi in cui la schiavitù si diffuse di più nel corso dell’Età Moderna fu, tuttavia, il Brasile, sia durante il periodo coloniale-portoghese, sia durante gli anni dell’indipendenza e dell’Impero. Come vedremo nel corso di questo articolo, la diffusione e il radicamento di questa istituzione nel Brasile coloniale e imperiale rappresenta un capitolo assai importante della storia del lavoro del Paese latinoamericano (e per estensione, a causa della dominazione portoghese, europea). 

La schiavitù non è quindi, come con fare autoassolutorio pensano alcuni, una sorta di bubbone nato dal nulla ed estraneo alla società. Inoltre, essa ha avuto ricadute fondamentali sui più diversi aspetti della società luso-brasiliana, intrecciandosi con gli sviluppi dell’economia di quel vasto territorio e con gli sconvolgimenti politici che hanno portato al crollo dell’Antico Regime e alla nascita dell’Impero e della forma statale liberal-rappresentativa.

  1. La schiavitù in Brasile

La prima attestazione dell’arrivo in Brasile di una nave carica di schiavi risale al 1538, ossia appena otto anni dopo la scoperta di queste terre (Rout, 1976). A onor del vero, bisogna sottolineare come la schiavitù non nacque in Brasile o nella società coloniale americana. Le sue radici erano invero assai più profonde, risalendo, pur con le dovute differenze, all’Antichità. Restando nel quadro cronologico dell’Età Moderna e dei decenni immediatamente antecedenti, dobbiamo ricordare come la prima esperienza portoghese con la schiavitù risalga al 1441, quando Antão Gonçalves, di ritorno da una spedizione, omaggiò l’Infante Enrico (il famoso Enrico il Navigatore) con una mezza dozzina di uomini catturati in Africa.

Ritratto di Enrico il Navigatore
Ritratto di Enrico il Navigatore (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Come ricorda Pinsky, il Portogallo di quegli anni viveva una forte crisi demografica causata da guerre, epidemie e dalle esplorazioni aumentate grazie all’attività di Enrico il Navigatore. La manodopera schiavile, quindi, poteva sopperire alla mancanza di braccia risolvendo non pochi problemi al regno lusitano (Pinsky, 2010).

Iniziata la colonizzazione del Brasile, i portoghesi importarono l’istituzione della schiavitù nei nuovi domini. È interessante notare come tale processo non avvenisse attraverso il commercio di schiavi africani. I primi a finire sotto questo giogo, infatti, furono i Nativi catturati dai portoghesi o costretti, a causa della distruzione del proprio ambiente e della propria civiltà, a offrirsi “volontariamente” come schiavi.

Diversi fattori contribuirono al declino, ma non alla totale scomparsa, della schiavitù dei Nativi e all’aumento dell’importazione di manodopera africana. Da un lato le tribù native, comprese le vere intenzioni dei portoghesi, limitarono drasticamente i contatti, dall’altro vi fu una decisa azione della Corona volta a favorire il traffico atlantico. Il motivo dietro questa scelta era assai semplice: la riduzione in schiavitù dei popoli nativi era affare interno alla colonia, tagliando così i profitti dei trafficanti (Pinsky, 2010).

Sotto la doppia pressione dei trafficanti e dei produttori della regione di Bahia, nel 1549 re João IV concesse a ognuno dei suddetti produttori l’importazione di un numero massimo di 120 schiavi i quali avrebbero dovuto sopperire alla mancanza di manodopera necessaria al funzionamento dell’economia coloniale (Rout, 1976).

Bisogna a questo punto ricordare come la colonia avesse il solo compito di rifornire la madrepatria di materie prime. Non dobbiamo, tuttavia, incorrere nell’errore di pensare che l’economia brasiliana fosse sempre uguale a sé stessa. Inizialmente, infatti, la risorsa principale inviata in Portogallo era il legname (ossia il famoso pau-brasil da cui il Paese prese poi il nome), ma ben presto venne stabilita la ben più redditizia coltivazione della canna da zucchero. Fu il modello della piantagione e della lavorazione dello zucchero, quindi, il più diffuso in Brasile, almeno fino alla scoperta nel corso del XVII secolo degli importanti giacimenti minerari nella regione di Minas Gerais e alla diffusione del caffè e del cotone nel corso del XVIII secolo, entrambi aspetti sui quali avremo occasione di ritornare.

In questo contesto lo schiavo non era solo manodopera, non era solo merce. Egli era qualcosa di più. Come ci ricorda Rout, infatti, lo schiavo era al contempo unione di lavoro e capitale, diventando unità di valore destinata a misurare la ricchezza di un uomo, la cui condizione era tanto più agiata quanti più schiavi possedeva (Rout, 1976).

  1. L’evoluzione dell’economia brasiliana e la schiavitù

Come accennato, l’economia brasiliana, pur limitata al ruolo di produttrice di materie prime, non fu sempre statica e immutabile. Analizzando la lunga storia della dominazione portoghese, possiamo individuare principalmente tre eventi che rappresentarono altrettanti punti di rottura: il primo fu la diffusione della coltivazione della canna da zucchero nelle colonie anglo-francesi, il secondo la già menzionata scoperta di importanti giacimenti minerari nella regione di Minas Gerais e il terzo la famosa Rivoluzione di Haiti (Rout, 1976 e De Bivar Marquese, 2006).

Rappresentazione di schiavi brasiliani
Rappresentazione di schiavi brasiliani (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

La diffusione della coltivazione dello zucchero nelle Antille anglo-francesi ebbe importanti ripercussioni sull’economia luso-brasiliana per diversi motivi. Da un lato, infatti, Francia e Inghilterra attuarono una serie di politiche mercantiliste volte a tutelare la propria produzione a scapito di quella portoghese, il cui zucchero si trovò ben presto espulso da questi importanti mercati. Dall’altro, la diffusione delle piantagioni nelle colonie inglesi e francesi portò a un aumento dell’importazione di schiavi africani, con conseguente aumento dei prezzi e a una maggior competizione per procacciarsi manodopera schiavile (De Bivar Marquese, 2006).

A questo punto divenne chiara la necessità di consolidare il sistema bipolare atlantico per garantire la sopravvivenza del sistema luso-brasiliano. La definitiva conquista portoghese dell’Angola, quindi, garantì un collegamento diretto con i porti brasiliani e la conseguente importazione di schiavi a basso costo. Emerge qui una fondamentale differenza tra schiavitù portoghese e schiavitù anglo-francese: nel primo caso, infatti, erano direttamente le città brasiliane a gestire il traffico, senza intercessione della madrepatria, mentre nel secondo il commercio veniva gestito da Francia e Inghilterra (De Bivar Marquese, 2006).

La scoperta dei giacimenti di Minas Gerais portò ulteriori sconvolgimenti nell’economia brasiliana. Intravista la possibilità di ulteriori ricchezze, infatti, sempre più portoghesi e uomini liberi si recarono nella zona, dando vita a vere e proprie migrazioni interne di massa che portarono allo sviluppo di nuove attività. Nuovamente il grande bisogno di braccia portò a un forte aumento di importazione di schiavi, basti pensare che nel corso del XVIII secolo vennero venduti 500.000 schiavi, di cui 99.000 solo nel ventennio 1728-1748 (Rout, 1976). Tutta questa situazione portò a un aumento delle tensioni sociali, a un peggioramento delle condizioni di vita degli schiavi e a episodi sempre più frequenti di resistenza. Tutti aspetti sui quali torneremo in seguito.

La più volte menzionata Rivoluzione di Haiti, infine, ebbe, tra le altre conseguenze, quella di far crollare la produzione francese di zucchero e caffè. Tale vuoto fu colmato dalla produzione luso-brasiliana, con un nuovo, ulteriore aumento dell’importazione di schiavi con conseguente aumento del loro prezzo, nonostante i tentativi della Corona di porre un tetto massimo (De Bivar Marquese, 2006 e Rout, 1976). Da notare come, in maniera assai curiosa, le importazioni di schiavi aumentarono in un momento nel quale i timori di un ripetersi dell’esperienza haitiana erano fortissimi.

Rappresentazione di un gruppo di schiavi a lavoro
Rappresentazione di un gruppo di schiavi a lavoro (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Abbiamo finora parlato delle regioni brasiliane in cui dominavano la coltivazione dello zucchero e l’estrazione mineraria. Vale la pena spendere qualche parola su quelle zone della colonia che non producevano questi beni. Tali regioni, come facile immaginare, erano le più povere e questa situazione si rifletteva sulla diffusione della schiavitù: era infatti scarsa la presenza di neri, mentre era assai diffuso il lavoro schiavile delle popolazioni native. I padroni, infatti, non disponevano delle risorse economiche necessarie per acquistare manodopera di origine africana e, inoltre, erano geograficamente tagliati fuori dai principali centri di commercio.

Questa situazione cambiò a partire dal XVIII secolo quando, in queste regioni, iniziò a diffondersi la coltivazione del caffè e del cotone, generando di conseguenza un forte aumento della ricchezza e della possibilità, per i padroni liberi, di acquistare schiavi neri. Illuminante, a tal riguardo, la situazione di Maranhão, la cui popolazione, nel 1819, era composta per il 66% di schiavi (Rout, 1976).

  1. Gli schiavi, tra repressione e resistenza

Abbiamo più volte fatto cenno, nel corso di questo articolo, all’arrivo di schiavi africani nei porti brasiliani. È importante sottolineare come un’alta percentuale di loro, tuttavia, non giungesse viva a destinazione. La mortalità durante la traversata, infatti, era assai alta e potrebbe stupire, visto che gli schiavi rappresentavano la principale fonte di guadagno dei trafficanti.

L’iniziale stupore, tuttavia, scomparirebbe qualora ci concentrassimo sul fatto che lo schiavo veniva considerato come merce e non come essere umano. I costi più alti per un commerciante erano rappresentati dalle navi e dagli equipaggi, non dalla massa di esseri umani destinati alla vendita. I lauti guadagni portati dalla vendita dei sopravvissuti e il basso costo iniziale portavano quindi i trafficanti a non curarsi troppo delle condizioni degli schiavi e a non temere la perdita di una percentuale di quella che consideravano a tutti gli effetti una vera e propria merce (Pinsky, 2010).

Punizione pubblica di uno schiavo
Punizione pubblica di uno schiavo (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Giunto in Brasile, lo schiavo iniziava la sua nuova vita completamente dedicata al lavoro. Le terribili condizioni imposte dal padrone prevedevano giornate lavorative che potevano giungere fino alle diciotto ore, intervallate da pasti assai rapidi e poveri: lo scopo era infatti quello di tenere attivo lo schiavo senza curarsi della sua longevità (Pinsky, 2010). Di più, non era raro che il padrone concedesse agli schiavi alcuni piccoli appezzamenti di terra, garantendo quindi loro il “diritto” di coltivare beni di prima necessità e diminuendo così le proprie spese causate dalla necessità di sostenere la manodopera schiavile.

Parte integrante di questa nuova vita era rappresentata anche dalla religione cristiana che, come abbiamo visto, fungeva da giustificazione della schiavitù. La preoccupazione della Chiesa, infatti, era la salvezza delle anime degli africani ai quali veniva data una sommaria infarinatura dei principi del cristianesimo e veniva imposto di abbandonare il proprio culto.

Sarebbe tuttavia un grave errore voler limitare la funzione della religione solo a questo. Vi era, infatti, molto di più. Perdendo il proprio culto e addirittura il proprio nome (il battesimo, infatti, imponeva l’attribuzione di un nome cristiano), migliaia e migliaia di donne e uomini africani perdevano ogni riferimento della loro vita precedente e, attraverso l’insegnamento della mansuetudine cristiana, vedevano depotenziato il proprio spirito di ribellione (Pinsky, 2010).

La concezione dello schiavo come merce disumanizzata emergeva anche in occasione delle punizioni imposte dai padroni. Sebbene la Corona invitasse a una certa moderazione, i proprietari di schiavi disubbidivano spesso alle indicazioni provenienti dalla Madrepatria proprio perché vedevano nello schiavo una proprietà e, quindi, sentivano lesi i propri diritti dalle richieste di una monarchia che, in ogni caso, non fu mai in grado di dar vita a un corpo organico di leggi sul modello del Code noir.

Le menzionate punizioni erano spesso vere e proprie esplosioni di sadica violenza, tanto più feroci quanto più le attività economiche che impiegavano manodopera schiavile erano considerate a rischio furto come, per esempio, le più volte citate miniere della regione di Minas Gerais (Rout, 1976).

Tali atti di violenza, ritenuti necessari per evitare le ribellioni, potevano essere di due tipi: fisici o psicologici. Tra le punizioni fisiche possiamo ricordare, a titolo di esempio, le torture quali la tristemente nota máscara o la più “pratica” frusta o gli atti di violenza estrema come gettare schiavi vivi all’interno di fornaci (Pinsky, 2010; Rout, 1976). Tra quelle psicologiche, invece, è necessario ricordare la pratica di mutilare i cadaveri di schiavi suicidi in modo da colpire sadicamente l’immaginario religioso degli altri schiavi (Rout, 1976).

Punizione di uno schiavo frustato dal sorvegliante
Punizione di uno schiavo frustato dal sorvegliante (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Questi ultimi, tuttavia, non erano passivi e, anzi, attuavano svariate forme di resistenza. Da un lato vi era una sorta di resistenza passiva che assumeva i tratti di una ribellione culturale. L’imposta religione cristiana, infatti, conviveva con i culti africani dando vita alla macumba nelle regioni di Rio e del Pernambuco e al candomblè nella regione di Bahia. Talvolta questi culti venivano tollerati dai padroni, mentre altre volte venivano soppressi. Netta era, ovviamente, la posizione della Chiesa che vedeva in questa convivenza tra due religioni una rinascita del paganesimo (Rout, 1976).

Dall’altro lato, vi era spesso una resistenza attiva che si sostanziava in ribellioni, uccisioni di padroni o fughe. Queste ultime, in particolare, potevano portare alla nascita di quilombos, ossia insediamenti di schiavi fuggitivi che venivano guardati con timore dai padroni, i quali vedevano in essi dei raggruppamenti sovversivi. È interessante notare come nella distruzione dei quilombos e nella caccia ai fuggiaschi venisse impiegata quella particolare figura rappresentata dal “capitão do mato”, ossia un ex schiavo che si dedicava alla cattura dei fuggitivi (Pinsky, 2010).

Tra le altre forme di ribellione e resistenza vi erano anche l’atto estremo del suicidio e l’associazionismo. Quest’ultimo, in particolare, era portato avanti da liberti che, riunitisi in fratellanze, destinavano somme di danaro all’acquisto della libertà di altri schiavi (Rufino dos Santos, 2013 ).

  1. I liberti e il problema della cittadinanza

Lentamente, a partire dal XVIII e, soprattutto, nel corso del XIX secolo, iniziarono ad apparire pubblicazioni critiche verso la schiavitù. Secondo il nascente ed eterogeneo discorso antischiavista, infatti, tale istituzione era particolarmente perniciosa per il Brasile coloniale prima e imperiale poi, per diverse ragioni.

Da un punto di vista economico, essa impediva lo sviluppo brasiliano e, trasformando lo schiavo in merce, rendeva questa straordinariamente vasta massa di donne e uomini oggetto di proprietà e non soggetto.

Sul versante politico, invece, separava questa vasta fetta di popolazione dal corpo politico, aumentava la corruzione e impediva la creazione di una nazione omogenea. Iniziava, in quest’ultimo aspetto in particolare, a farsi strada un discorso razziale che vedeva nella massiccia importazione di schiavi africani un pericolo per la nascente nazione brasiliana a causa del continuo afflusso di elementi esterni considerati come barbari (Schultz, 2005).

Non ultimo, le élites brasiliane temevano costantemente di patire lo stesso destino dei padroni di Haiti. Questo timore era stato sicuramente fomentato da alcuni episodi quali, per esempio, le manifestazioni di afrodiscendenti liberi e liberti che, nel 1805, marciarono per le strade di Rio de Janeiro armati di ritratti di Jean-Jacques Dessalines (Silva, 2016).

Si intrecciavano, qui, diversi aspetti che sarebbero poi stati assai presenti nel dibattito costituzionale brasiliano. Come noto, infatti, gli schiavi potevano ottenere lo status di liberto sia attraverso la manomissione decretata dal padrone, sia attraverso l’acquisto della propria libertà. Tale cambiamento nello stato sociale del liberto, tuttavia, aveva solo un valore politico-legale e non implicava una totale e piena accettazione da parte della società.

Rappresentazione di schiavi brasiliani
Rappresentazione di schiavi brasiliani (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

Permaneva infatti sul liberto una sorta di stigma sociale, che derivava non tanto (quanto meno fino al regno di Pietro II) dal colore della pelle, quanto dal precedente status sociale di schiavo. 

Non dobbiamo, a tal riguardo, dimenticare che sia il Brasile d’Antico Regime, sia l’Impero liberale erano società fortemente gerarchizzate basate sul privilegio. Gli afrodiscendenti liberi e liberti, quindi, manifestavano il proprio disagio richiedendo il diritto di accedere a tali privilegi senza mettere in discussione l’istituzione della schiavitù e, anzi, trasformandosi talvolta essi stessi in possessori di manodopera schiavile (Silva, 2016).

La questione, come accennato, era fortemente presente nel dibattito costituzionale brasiliano iniziato all’indomani dell’ottenuta indipendenza dal Portogallo. Il processo costituzionale fu quanto mai convulso e vide lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dell’imperatore Pietro I e la sua sostituzione con una commissione controllata dal sovrano il quale, nel 1824, concesse al suo Impero una costituzione ottriata.

Fino al suo scioglimento, tuttavia, l’Assemblea costituente vide al suo interno la presenza di una fazione antischiavista che poneva all’attenzione di tutti i deputati il problema della cittadinanza di schiavi e liberti.

Secondo alcuni esponenti di questa fazione, gli schiavi erano sì esseri umani, ma per l’esercizio dei propri diritti dovevano essere considerati alla stregua di merce e quindi, essendo soggetti a proprietà, era necessario escluderli dalla comunità politica, ma non dalla comunità brasiliana in quanto tale. In poche parole: gli schiavi vivevano nella società, ma non ne erano parte integrante (Schultz, 2005).

Il problema si complicava quando la fazione antischiavista, il cui obiettivo era l’abolizione graduale della schiavitù, analizzava la condizione dei liberti. Questi ultimi, infatti, rappresentavano un terzo della popolazione brasiliana e non erano più soggetti a proprietà. L’esclusione sistematica di questa vasta massa di individui dalla comunità politica avrebbe potuto portare al concretizzarsi di tutti i timori sorti in seguito alla Rivoluzione di Haiti. 

Proprio per questo, la bozza di Costituzione prevedeva la concessione della cittadinanza attiva a tutti quei liberti nati in Brasile che avessero goduto di sufficienti entrate economiche, non garantendo però loro lo status di elettori. Erano quindi la nascita e la possibilità economica a garantire il rango di cittadino e non la manomissione (Schultz, 2005).

Tali considerazioni vennero fatte proprie dalla commissione che sostituì l’Assemblea costituente in seguito al colpo di Pietro I. La Carta concessa dall’imperatore, infatti, all’Articolo 6 prevedeva la concessione della cittadinanza ai liberti nati in Brasile, i quali tuttavia, secondo l’Articolo 94, non potevano essere elettori, risultando quindi esclusi dal godimento dei diritti politici cui, invece, erano ammessi i loro figli (Constituiçao politica do Imperio do Brazil, 1824; Mattos, 2004).

Il dibattito sulla natura della schiavitù e il suo rapporto con un Impero che voleva essere liberale continuarono anche durante il regno di Pietro II, quando il Brasile tentò di aprirsi al mondo presentandosi come una nazione tutto sommato europea, bramosa di attirare capitali esteri per sviluppare la propria industria.

La seconda metà del XIX secolo, tuttavia, era un’epoca in cui le grandi Potenze rifiutavano la schiavitù e la tratta di manodopera schiavile di origine africana, soprattutto in seguito alla sconfitta degli Stati Confederati d’America e all’energica azione inglese. Era quindi necessario, per il giovane Impero, minimizzare la natura della schiavitù, eliminandone gli orrori e presentando il Brasile come una sorta di “paradiso razziale” in cui non era diffuso il razzismo e la schiavitù non era brutale come la controparte statunitense o spagnola. Anzi, questa forma di lavoro, che pure si stava sempre più restringendo, era in fondo paternalistica, un processo di civilizzazione degli africani che, attraverso l’acculturazione europea e politiche migratorie intelligenti (ossia attraverso l’immissione di manodopera libera europea) potevano de-africanizzarsi e, di conseguenza, de-africanizzare l’Impero (Schuster-Buenaventura, 2017).

  1. Conclusioni

Come abbiamo visto, la schiavitù giunse in Brasile insieme alla conquista portoghese e fu la forma di produzione predominante fino alla sua abolizione, avvenuta nel 1888.

Questa lunga storia fatta di sangue e sofferenza ha lasciato numerose tracce nel Brasile di oggi quali, per esempio, il razzismo e la diseguaglianza sociale associata a quella razziale ancora non superata perché, come ci ricorda Joel Rufino dos Santos, il modo di produzione che ha sostituito quello schiavista, ossia il capitalismo, ha mantenuto e mantiene la divisione tra bianchi, posti in cima alla società, e neri, posti ai margini di essa (Rufino dos Santos, 2013).

La schiavitù, tuttavia, non ha avuto solo conseguenze negative. L’incontro tra popolazioni diverse, pur nei termini brutali che abbiamo bene evidenziato, ha portato a un’unione di lingue, di tradizioni, di culture che hanno saputo mescolarsi generando qualcosa di nuovo come le già citate convivenze religiose o numerose forme artistiche che uniscono influenze europee e africane.

Un processo, quindi, di sradicamento, sofferenza, sangue e morte, ma anche di mutua civilizzazione e nascita di una nuova cultura. Un processo che collega passato e presente e che, oggi più che mai, va studiato e analizzato attentamente e con rigore.

Davide Galluzzi – Scacchiere Storico

Davide Galluzzi è laureato in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Specializzato in Storia Moderna, i suoi interessi di ricerca includono la Rivoluzione francese, l’età napoleonica, la Storia culturale e l’uso pubblico della Storia.

Bibliografia

de Bivar Marquese R., A dinâmica da escravidão no Brasil. Resistência, tráfico negreiro e alforrias, séculos XVII e XIX, Novos Estudios No.74, 2006; Mattos, H.M., Escravidão e cidadania no Brasil monárquico, Jorge Zahar Editor, 2004; Pinsky J., A escravidão no Brasil, Editora Contexto, São Paulo, 2010; Rout L.B., Race and Slavery in Brazil, The Wilson Quarterly, Vol.1, No.1, 1976; Rufino dos Santos J., A escravidão no Brasil, Editora Melhoramentos, São Paulo, 2013; Schultz K., La Independencia de Brasil, la Ciudadanía, y el Problema de la Esclavitud: la Assembléia Constituinte de 1823, in Revolución, independencia y las nuevas naciones de América, Mapfre Tavera, 2005; Schuster S.-Buenaventura A., Entre blanqueamiento y paraíso racial: el Imperio de Brasil y la legitimación visual de la esclavitud en las exposiciones universales, in Imaginando América Latina: historia y cultura visual, siglos XIX al XXI, Editorial Universidad del Rosario, Bogotá, 2017; Silva L.G., El impacto de la revolución de Saint-Domingue y los afrodescendientes libres de Brasil. Esclavitud, libertad, configuración social y perspectiva atlántica (1780-1825), HISTORIA No 49, vol. 1, 2016.

Immagine di copertina: dipinto raffigurante una macina per lo zucchero nel nord-est del Brasile, di H. Koster, 1816 (fonte: Wikipedia, licenza CC0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

Rivista di ricerca e divulgazione storica

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