Appunti per una storia musicale della Grande Guerra italiana
di Davide Longo
1. Premessa
Ogni storico che si rispetti sa quanto sia difficile conoscere gli aspetti della vita quotidiana degli uomini e delle donne appartenenti a generazioni diverse dalla nostra. Perse tra i fumi delle battaglie e tra le riunioni politiche, tralasciate fra una Conferenza di Berlino e un Accordo di Plombières, molto spesso le abitudini di chi ha calcato questa terra prima di noi ci sono sconosciute o quasi. Tutti noi conosciamo ogni dettaglio del Primo Triumvirato, ma cosa mangiavano Cesare e Pompeo a colazione? E se molto sappiamo di Riccardo Cuor di Leone, cosa conosciamo della vita privata delle serve alla corte d’Inghilterra nel XI secolo? Domande sulla quotidianità che spesso sono destinate a rimanere senza risposta.
Non è così, per fortuna nostra, se pensiamo alla Grande Guerra. Della vita del soldato, in quel contesto, conosciamo quasi tutto: cosa mangiava, dove dormiva, cosa vedeva sul campo di battaglia, quali armi e quali oggetti utilizzava, in quali periodi e per quanto tempo doveva combattere e quando invece poteva stare a riposo nelle retrovie. Se si volesse, oggi, fare una storia a tutto tondo del fante nella Prima guerra mondiale, si potrebbe assolutamente procedere con relativa sicurezza: una buona messe di documenti, spesso ancora poco o per nulla catalogati, ordinati e studiati, è a disposizione dello studioso. Ma possiamo fare di più: possiamo scoprire cosa sognasse, quel fante.
Una fonte straordinaria in tal senso, utile cioè a costruire una storia dei sogni e dei sentimenti della truppa, è il repertorio di canzoni che i soldati cantavano in trincea. Se si volesse poi allargare lo sguardo a quelle opere – vere e proprie canzoni di regime, se vogliamo – prodotte o promosse dallo Stato durante la Grande Guerra, allora potremmo anche costruire una storia di come l’istituzione pensava che dovessero essere i fanti, cosa dovessero pensare e quali idee dovessero albergare nelle loro menti. Proprio questo proveremo a fare in questo contributo, concentrandoci in particolare sul caso italiano per ragioni di spazio, auspicando però la crescita di studi e analisi rivolte all’abito internazionale in chiave comparativa.

2. Il Mondo del Dopo: una vulgata istituzionale
La prima idea che salta in mente a chiunque non sia addetto ai lavori quando si parla di musica nella Prima guerra mondiale è, molto spesso, quella dei soldati italiani che marciano intonando una canzone che tutti noi abbiamo sentito almeno una volta. Si tratta, come potete facilmente immaginare, della Leggenda del Piave (Isnenghi, 1998), oggi conosciuta soprattutto per il primo verso, “Il Piave mormorava”. Cominciamo innanzitutto con il dire che questa non è, contrariamente a quanto si può pensare, una canzone di trincea: venne composta da Giovanni Gaeta, prolifico autore di canzonette, sotto lo pseudonimo di E.A. Mario, già nel 1918 e venne suonata in pubblico per la prima volta il 20 agosto dello stesso anno al Teatro Rossini di Napoli. Nel testo della canzone, poi, è evidente la mistificazione nazionalista delle cause del conflitto che, da guerra d’aggressione come in effetti fu, viene trasformata in una lotta per la difesa dei confini della patria. Infatti, nei primissimi versi si ricorda che il 24 maggio 1915
l’esercito marciava/per raggiunger la frontiera/per far contro il nemico una barriera
il che è ovviamente falso: come sappiamo fu l’esercito italiano ad attaccare improvvisamente l’Austria-Ungheria e non l’impero degli Asburgo a minacciare i confini nazionali. L’intento propagandistico è evidenziato anche da altri versi, dalla menzione della rotta di Caporetto (Ma in una notte trista/si parlò di un fosco evento/e il Piave udiva l’ira e lo sgomento…/Ahi, quanta gente ha vista/venire giù, lasciare il tetto/poi che il nemico irruppe a Caporetto) narrata come una immane tragedia per il dilagare del nemico nelle valli fino al Piave, nemico poi fermato dall’eroismo dell’esercito italiano nella canzone legato in maniera indissolubile alla personificazione del fiume come confine sacro della Patria (No! Disse il Piave/No! Dissero i fanti/Mai più il nemico faccia un passo avanti). In realtà sappiamo bene, anche se la canzone ovviamente tace questo aspetto, che l’esercito italiano fu, tra quelli dei maggiori belligeranti, il più interessato dal fenomeno delle condanne a morte per diserzione. Inoltre la mistificazione si spinge a cambiare perfino l’assetto geografico delle regioni interessate dalla guerra: il fiume Piave viene interpretato come il fronte, il confine del Paese fin dal 1915, mentre la guerra si svolse quasi tutta in terra slovena (e dunque austro-ungarica all’epoca) su un altro fiume, l’Isonzo, che non viene ovviamente citato, e per due motivi: innanzitutto perché teatro di numerosissime offensive dell’esercito italiano, quasi tutte senza esito – se si esclude la presa di Gorizia, ben poca cosa a fronte delle centinaia di migliaia di morti; e poi perché la canzone, scritta dopo la disfatta di Caporetto con l’obiettivo preciso di rinfrancare le truppe, reinterpretava retroattivamente l’intera geografia ideale della guerra alla luce del nuovo fronte fissato nel 1918 sul Piave. Ma la canzone si spinge oltre nella mistificazione, cambiando perfino genere al fiume preso a modello della resistenza italiana di fronte al nemico: come è molto semplice appurare indagando le testimonianze orali dei contadini veneti del primo Novecento il Piave fu, fino al 1918, la Piave. Come quasi tutti i nomi di fiumi in Italia Piave era un sostantivo femminile, tanto che ancora oggi è tale nel dialetto della zona, fra il trevigiano e il bellunese: venne reso maschile, e dunque Il Piave, al fine di personificare un eroismo che, nelle menti dei nazionalisti di primo Novecento (e forse anche di oggi…) non poteva essere altro che maschile. In conclusione, come se tutto questo non bastasse, all’esaltazione nazionalistica di una guerra offensiva presentata come difensiva si accompagna negli ultimi versi l’esaltazione dell’unità nazionale italiana dal punto di vista etnico e sociale:
sul patrio suolo, vinti i torvi imperi,/la pace non trovò né oppressi, né stranieri.
Come possiamo vedere la mistificazione qui raggiunge livelli notevoli di asservimento alla propaganda nazionalista. Innanzitutto, è discutibile il concetto di pace applicato al primo dopoguerra, vista l’impresa di fiume e l’intervento italiano per ristabilire la legalità del Congresso di Versailles, per non parlare dell’occupazione militare delle terre conquistate. Ma anche l’assenza di oppressi e di stranieri è discutibile: gli scioperi del 1917 a Torino che sfociarono poi nel Biennio Rosso in buona parte della penisola indicano anzi un alto livello di conflittualità sociale, i cui protagonisti si consideravano oppressi senz’altro; inoltre l’assenza di stranieri su suolo nazionale è quantomeno dubbia, visto che il processo di assimilazione della componente slovena maggioritaria al confine orientale appena conquistato era ben lungi dall’essere compiuta. Un testo propagandistico, dunque, che poco ci comunica riguardo alla vita reale dei fanti nelle trincee.
Discorso simile si potrebbe fare per una canzone forse meno famosa oggi ma altrettanto diffusa all’epoca: stiamo ovviamente parlando della Canzone del Monte Grappa, in realtà scritta – in ambienti lontanissimi dalla trincea e ben più vicini ai Comandi – dal generale Del Buono, futuro quadrumviro della Marcia su Roma e quadro dirigente del Fascismo (Savona-Straniero, 1981). La canzone, di tono estremamente nazionalista, venne composta anch’essa nei primi mesi del 1918 ed eseguita il 24 agosto 1918 sul prato di Villa Dolfin di Rosà, sede del Comando del IX corpo d’Armata operante sul Grappa, ovviamente alla presenza del re Vittorio Emanuele III, giunto in loco per ispezionare la truppa.
O montagna, per noi tu sei sacra;/giù di lì scenderanno le schiere/che irrompenti, a spiegate bandiere,/l’invasore dovranno scacciar.
Come possiamo vedere da questa strofa il tema dei confini violati da un nemico bellicoso e, soprattutto, percepito in una posa offensiva, si replica mantenendo anche l’elemento della sacralità della patria che per questo deve essere difesa senza se e senza ma – dove nei se e nei ma sono comprese le forme di insubordinazione – dall’offensiva del nemico storico, potremmo dire quasi atavico.
Dunque, l’immagine del fante che intona marciando la Leggenda del Piave o la Canzone del Monte Grappa, tanto cara a certa retorica nazionalista che ancora oggi imperversa nei media generalisti, è di fatto una menzogna, una narrazione artificiosamente costruita per rendere l’immagine di un esercito compattamente nazionalista. La realtà è estremamente diversa e di certo più complessa.

3. Ma cosa c’entra tutto questo con la guerra?
Pare ormai chiaro: i fanti italiani difficilmente cantavano in trincea canzoni patriottiche quali quelle che abbiamo appena visto. E dunque? Come possiamo scoprire cosa cantavano i soldati italiani per rinvigorire il morale nei più neri giorni di battaglia o per rinfrancare lo spirito durante una marcia particolarmente gravosa? Per nostra fortuna siamo in possesso di una importante messe di fonti che ci raccontano, in maniera più o meno diretta, la vita quotidiana dei fanti in trincea.
La prima fonte fondamentale per ricostruire i canti diffusi nell’esercito regio è il diario di guerra di un protagonista ben noto, che anni dopo trascinerà il Paese nel baratro del fascismo e della Prima guerra mondiale. Stiamo naturalmente parlando di Benito Mussolini, acceso interventista e fondatore del quotidiano Il Popolo d’Italia. Mussolini nelle sue memorie identifica alcuni canti sentiti in un’osteria prima di essere ferito e quindi di essere allontanato dal fronte. Il futuro duce si premura di sottolineare che le canzoni dei soldati “sono ben lontane dagli avvenimenti attuali” (Mussolini, 1995). Si passa infatti da canzoni popolari a tema amoroso come La Violetta a canzoni della malavita milanese quali La Rosetta, che parla di una giovane prostituta uccisa dai gendarmi in caserma, dopo essere stata arrestata. Mussolini cita anche una canzone oscena a carattere erotico:
All’osteria numero uno/[…]/Dammela ben biondina/Dammela ben bionda.
Cosa c’entra con la guerra tutto questo, verrebbe da chiedersi. Tutto e nulla è la risposta. Nulla, poiché i temi affrontati in queste canzonette riguardano la quotidianità degli uomini dell’epoca. E tutto, perché cantare canzonette a tema amoroso o osceno è una precisa scelta, per quanto inconscia, di allontanarsi dalla realtà della guerra attraverso l’evocazione di paesaggi immaginati ben diversi da quello realmente vissuto. Anche l’unica canzone a tema militaresco – citata fra gli altri dal socialista Emilio Lussu nel suo capolavoro Un Anno sull’Altipiano – possiede poco o nulla di marziale per cedere invece alla malinconia di una guerra imposta e non voluta per vincoli d’onore nei confronti del proprio Paese (Lussu, 1970). Stiamo parlando di Addio mia bella, addio le cui strofe iniziali costituiscono un inno alla nostalgia per la donna amata:
Addio mia bella, addio/Che l’armata se ne va/E se non partissi anche io/Sarebbe una viltà.
Peraltro, questo testo, già di per sé ben poco marziale, verrà trasformato in un canto antimilitarista durante la rotta di Caporetto: più di un testimone (Barbero, 2017) racconterà di aver sentito gruppi di soldati che, abbandonati fucile e divisa, marciavano cantando questa versione della medesima canzone.
Addio mia bella, addio/Che la pace la faccio io.
Un altro testimone d’eccezione, padre Agostino Gemelli, riporta i canti dei soldati nelle sue memorie, spesso evitando di riferire con citazioni i canti più osceni e blasfemi (Gemelli, 1917). Il sacerdote, tuttavia, ben inserito nell’entourage del generale Cadorna, dimostra di avere una conoscenza diretta della truppa, se scrive che non sono “riferibili tutti i canti che trattano dell’altro sesso” anche se buona parte delle canzoni della soldataglia hanno per oggetto gli “oggetti comuni: rievocazione della casa, degli affetti familiari, della moglie, della fidanzata. Sono interminabili storie di qualche sventurato, ripetizione di motivi comuni.”
Quelli che il sacerdote evita di riportare sono probabilmente dei bombacé, dei canti scurrili e scollacciati composti in dialetto su melodie simili fra loro e che si diffondevano più rapidamente di una malattia infettiva tra i soldati dei vari reggimenti. Eccone un esempio (Pivato, 2007):
Il General Cadorna ne ha fatta una grossa/ha messo le puttane nella Croce Rossa/bim bim bom/al rombo del cannon!
Come si può vedere l’allusione alla prostituzione, più che un lazzo vero e proprio rivolto al generale Cadorna, era piuttosto un’allusione ai desideri ben presenti nella truppa, soprattutto in quelle settimane in cui il plotone era in linea mentre le prostitute rimanevano nelle retrovie. Talvolta i testi si fanno espliciti in maniera da non lasciare davvero nulla al caso, come possiamo notare da questo testo costruito su un immaginario botta e risposta fra un militare e una donna del luogo:
Avevi promesso di darmela/Di darmela,/di darmela,/E no e no e no/Non te la do e non te la do.

4. Arie antimilitariste dalla Turchia a Gorizia
Come abbiamo visto le canzoni diffuse nella truppa avevano dunque un carattere più intimista che bellicoso o antimilitarista: i canti diffusi fra i soldati trattano cioè di temi cari al contadino, all’operaio o allo studente che si nasconde sotto i panni del fante, siano essi l’interesse amoroso o le voglie erotiche, la voglia di tornare a casa o la necessità di sopravvivere alla guerra vista come nient’altro che una immane sciagura.
Tuttavia, questo non deve farci pensare che i canti antimilitaristi, rivolti contro l’orrore della guerra o l’inettitudine – reale o presunta – dei comandi, non fossero diffusi fra i fanti e gli ufficiali di grado più basso. Al contrario: abbiamo numerosi esempi di canzoni scritte e eseguite con la precisa volontà di mettere a nudo la guerra come orribile strage.
Il primo dei canti assolutamente da citare in tal senso è una canzone scritta in dialetto veneziano. Si tratta di nuovo di un bombacé (Brunello, 2000), un canto popolare dal ritmo semplice e ripetitivo, le cui strofe ci sono giunte attraverso le memorie di fanti della zona:
El general Cadorna l’è diventato mato,/el gh’a mandà tuti i alpin a morir sul Carso/Bim bim bon pastassutta e macaron.
Come possiamo notare il bersaglio prediletto di questi stornelli popolari è proprio il generale Cadorna, percepito come l’origine e la fonte di ogni malversazione dei comandi. In certe occasioni le strofe dileggiano apertamente le aspirazioni nazionaliste di espansione militare, come accade in queste righe delle quali è ancora una volta protagonista proprio Cadorna.
Il general Cadorna ha scritto alla regina/Se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina/Bim bim bom/Al rombo del cannon!
La protesta antimilitarista però assume anche toni meno goliardici e più, per così dire, tragici. È il caso innanzitutto della canzone Addio padre madre addio, scritta già probabilmente in occasione della guerra italo-turca del 1911 e riadattata in occasione del primo conflitto mondiale (Savona-Straniero, 1981). Nella canzone vediamo che le vere destinatarie del messaggio dei fanti sono le madri rimaste a casa a cui spetta il compito ingrato di consolare le mogli e i bambini in occasione della morte del soldato. Viene tratteggiata qui la figura di chi resta a casa come vittima impotente del dolore, ma anche come persona imprigionata dai lacci di una società che non permettono di vivere liberamente e appieno il lutto: la madre, qui, diviene una figura che per essere forte per altri rinuncia alla propria porzione di dolore liberatorio.
Un altro elemento che ritroviamo nella canzone in questione è il tentativo di dialogo con il nemico: nella strofa centrale della canzone (Fermati o chiodo che sto per morire/pensa a una moglie che piange per me/ma quell’infame col cuore crudele/col suo pugnale morire mi fé) vediamo il fante italiano che, ferito, tenta di comunicare con la controparte austriaca – chiamata chiodo in virtù del peculiare elmo chiodato in dotazione all’esercito imperiale – facendo leva sui sentimenti di amore per chi aspetta a casa il ritorno del soldato in teoria comuni a tutti i fanti coinvolti nella guerra. Tuttavia vediamo che la comunicazione è impossibile e che l’austriaco procede in modo meccanico a finire il nemico ferito: siamo chiaramente in presenza di una trasformazione del fante da uomo che era a macchina fredda e crudele votata soltanto all’uccidere per non essere uccisi.
Infine, un aspetto centrale della canzone è la sua dimensione contadina e operaia: il bersaglio polemico del canto di trincea è infatti lo studente che, avendo studiato, ha fatto propri i modelli politico-filosofici della borghesia nazionalista e dunque ha animato le manifestazioni interventiste conducendo il proletariato al disastro:
Sian maledetti quei giovani studenti/che hanno studiato e la guerra voluto/hanno gettato l’Italia nel lutto/per cento anni dolor sentirà.
Un’altra canzone con una grandissima circolazione, per quanto clandestina, e dai toni aspramente antimilitaristi è certamente O Gorizia tu sei maledetta, scritta in occasione della presa di Gorizia nel 1916 che, in due soli giorni, costò la vita a oltre 50.000 fanti e 1760 ufficiali del regio esercito (Pivato, 2005). In realtà pare che una versione con diverso testo ma medesime tematiche circolasse già nel 1915 all’entrata in guerra, ma sta di fatto che la canzone, diffusissima fra i soldati come testimoniano le ricerche dello storico Cesare Bermani (Bermani, 2003), venne ovviamente censurata dalle autorità, tanto da essere riscoperta dal grande pubblico solo in occasione della sua contestatissima esecuzione nel 1964 nel contesto del Festival dei Due Mondi di Spoleto.
O Gorizia tu sei maledetta/per ogni cuore che sente coscienza/dolorosa ci fu la partenza/e il ritorno per molti non fu.
Nella canzone in questione Gorizia diviene come si vede il bersaglio di uno strale antimilitarista: il fante rifiuta e maledice la città che per ordine degli ufficiali è costretto a conquistare. Anzi, si aggiunge, la partenza stessa da casa è per il fante dolorosa, poiché egli non è animato da alcuno spirito patriottico: la guerra è più che altro una faccenda fra generali che si riverbera sulla pelle dei fanti, per molti dei quali il ritorno a casa risulta precluso.
Voi chiamate il campo d’onore/questa terra al di là dei confini/qui si muore gridando “assassini”/maledetti sarete un dì!
Ecco che anche in questa strofa centrale ritorna l’idea di una guerra non voluta dai fanti, in cui l’intera responsabilità viene addossata anzi ai generali che hanno deciso di combattere contro altri generali di un paese straniero utilizzando i fanti come carne da macello. Di più, ai comandi che mandano i fanti a morire sul campo si promette la rivoluzione:
O vigliacchi che voi ve ne state/Con le mogli sui letti di lana/Schernitori di noi carne umana/Questa guerra ci insegna a punir.
Qui è chiarissimo l’intento rivoluzionario di chi scrisse questo pezzo, che in effetti maturò in ambienti anarchici o socialisti rivoluzionari, ed è proprio la guerra stessa che diviene banco di prova dell’audacia del proletariato e laboratorio di quella violenza utile, un giorno, a rovesciare l’ordine costituito borghese e a punirlo per le sue colpe storiche.
Del resto, anche se non sempre con la medesima virulenza e consapevolezza politica, lo scenario del fronte italiano è talvolta attraversato da un sentimento antimilitarista, come dimostrano anche i canti prodotti in ambiente napoletano come Fuoco alle mitragliatrici, che in effetti recita una chiarissima condanna delle inutili morti occorse nel tentativo di conquista del Monte San Michele (Pivato, 2005):
Non ne parliamo di questa guerra/che sarà lunga un’eternità/per conquistare un palmo di terra/quanti fratelli son morti già!
6. Conclusioni
Ancora molto potremmo scrivere sui canti che hanno animato le tradotte, le trincee e le lunghe marce dei fanti europei durante la Prima guerra mondiale. In questo studio sono stati volutamente omesse, per ragioni di spazio e di unità e organicità del discorso, tutte quelle esperienze degli altri italiani, gli sconfitti e i dimenticati, che furono arruolati nell’esercito imperiale e combatterono sui Monti Carpazi con la divisa austro-ungarica.

Allo stesso modo si sono omessi i canti che accompagnarono l’Italia nel dibattito fra interventisti e neutralisti prima della guerra e che animarono il dibattito e lo scontro politico anche successivamente alla fine del conflitto, con fascisti da un lato e bolscevichi dall’altro che presero spunto dalle vicende del primo conflitto mondiale per rafforzare le proprie posizioni in un senso nazionalista, da un lato, o internazionalista e socialista dall’altro. Infine, si è anche messa da parte la dimensione internazionale della produzione di canti di trincea: cosa cantavano inglesi, francesi e tedeschi sul fronte orientale? Cosa i romeni, i russi, gli ucraini, i polacchi e gli stessi tedeschi e austro-ungarici sul fronte orientale? Cosa gli australiani impegnati nello sbarco a Gallipoli o i turchi che li inchiodarono sulle spiagge dinnanzi a Istanbul? Cosa animò la guerra breve ma cruenta fra i campi e le montagne dei Balcani, che vide coinvolti serbi, croati, bosniaci, albanesi, greci e macedoni? Queste domande ancora attendono una risposta, e non si esclude il tentativo, in futuro, di fare la nostra parte in tal senso.
Ad ogni modo l’intento di questo articolo è quello di dare, del resto in maniera necessariamente parziale e per ragioni di spazio poco articolata, un quadro generale di cosa cantavano i fanti italiani sui treni che li portavano verso l’orrore della guerra o nelle trincee mentre, con i piedi nel fango e le schiene poggiate sulla nuda roccia, attendevano il fatidico ordine di attacco all’arma bianca. Quanto abbiamo potuto appurare da questa prima ricognizione ci sembra che non lasci spazio a dubbi: dalle canzoni dei fanti scopriamo che, in definitiva, ben lungi dall’essere travolti dalla propaganda nazionalista i soldati italiani rimasero in larga parte uomini comuni, con le speranze, le paure e l’orrore negli occhi di chi dovette affrontare il conflitto più sanguinoso e terribile mai visto sulla faccia della Terra.

Davide Longo – Scacchiere Storico
Davide Longo è dottore magistrale in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Milano. Vive negli Stati Uniti, dove frequenta il MA in Italian Studies ed è teaching assistant di lingua italiana alla Florida State University. I suoi campi di interesse principali sono la storia sociale e culturale dell’Italia fra Ottocento e Novecento e le pratiche della memoria della Grande Guerra in epoca fascista e repubblicana. È membro della American Association for Italian Studies (AAIS) e della Society for Italian Historical Studies (SIHS). Collabora, fra gli altri, con Il Manifesto, Atlante Editoriale e Altreconomia.
Bibliografia
Bermani C., “Guerra guerra ai palazzi e alle chiese”. Saggi sul canto sociale, Odradek, Roma, 2003; Brunello P., Storia e canzoni in Italia: il Novecento, Comune di Venezia, Venezia, 2000; Gemelli A., Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Treves, Milano, 1917; Isnenghi M., I luoghi della memoria. Strutture e eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1996; Lussu E., Un anno sull’altipiano, Mondadori, Milano, 1970; Mussolini B., Il mio diario di guerra, Pagano, Napoli, 1995; Pivato S., Bella Ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari, 2005; Savona A.V., Straniero M.L., Canti della Grande Guerra. Vol I e Vol II, Garzanti, Milano, 1981.
Immagine di copertina: militari italiani che salutano i familiari dalla tradotta in partenza (fonte: Touring Club Italiano, licenza CC BY-SA 3.0)

