POLIGAMIA E CONDIZIONE DELLA DONNA NELLA SOCIETÀ AZTECA PRIMA DELLA CONQUISTA SPAGNOLA

Il grande mercato di Tlatelolco

di Gianfranco Di Garbo

La poligamia, assieme ai sacrifici umani e all’antropofagia, fu uno degli istituti sociali che più attirarono, in negativo, l’attenzione degli spagnoli quando essi, dal 1517 al 1522, durante la conquista del cosiddetto “impero” azteco da parte di Cortés, vennero a contatto con l’allora sconosciuta civiltà dell’antico popolo mesoamericano. Prendendo spunto dalla condizione della donna esamineremo di seguito l’istituto della poligamia, con particolare attenzione sulla sua funzione sociale.

1. La condizione delle donne nella società azteca

Data la scarsità delle fonti, si conosce molto poco della condizione delle donne nella società azteca. In termini molto generali si può affermare che le pur scarse e controverse cronache etnostoriche riportano che la condizione femminile era di sottomissione e subordinazione rispetto agli uomini; tuttavia, è difficile tracciare i contorni di una situazione omogenea, poiché lo status della donnapoteva variare a seconda della città e classe sociale di appartenenza, dell’età, del contesto familiare e delle caratteristiche individuali.

É stato in proposito osservato che la modesta presenza delle donne nelle cronache antiche potrebbe spiegarsi col fatto che queste ultime furono scritte dopo la conquista spagnola; pertanto, è possibile che i documenti relativi alla storia delle città azteche siano stati testimoni dell’abbassamento dello stato sociale delle donne nella società coloniale, quale riflesso della società spagnola, fortemente maschilista, più che di un loro effettivo stato di soggezione nell’organizzazione sociale azteca (Aimi, 2023).

Certo è che, con riferimento ad almeno per un paio di generazioni immediatamente precedenti la conquista spagnola, venne riportato con una certa coerenza che le donne venivano sistematicamente allontanate da tutte quelle attività che implicavano ricchezza, potere o prestigio, tra le quali si annoverano la guerra, il sacerdozio e il commercio, settori dominati dai maschi (Duran, 1967).

In particolare, è stato sottolineato come la posizione subordinata delle donne in questa società fosse dovuta, tra l’altro, al fatto che gli Aztechi vivevano in un contesto sociale profondamente militarizzato, in cui i valori maschili erano tenuti nella massima considerazione, tanto che fu messa in atto tutta una serie di norme che stimolavano e favorivano l’uso della forza. A tal proposito si ricorda un provvedimento governativo di Tenochtitlán (la città più importante di quello che seppur impropriamente viene definito l’impero azteco) che estrometteva un settore della popolazione maschile e l’intera popolazione femminile da qualsiasi situazione di rilievo in modo permanente. Tale norma, infatti, obbligava le persone, indipendentemente dalla classe di appartenenza, a indossare o adornarsi solo con i gioielli acquisiti in guerra «in modo da far conoscere quelli che erano codardi e deboli di cuore» nota alla citazione; inoltre, chiunque non sapesse andare in guerra non avrebbe potuto essere tenuto in alcun conto, e quindi non poteva «né incontrare, né parlare, né mangiare con i valorosi, ma essere tenuto come uno scomunicato, o come un membro a parte, marcio e senza virtù […]» (Duran, 1967). È evidente che la norma aveva l’obiettivo di segregare e discriminare tutte le donne, oltre che una parte della popolazione maschile.

Secondo una diversa e più puntuale ricostruzione, invece, se è vero che le donne erano generalmente assenti nelle cronache e nella documentazione storiografica antica che riguarda Tenochtitlán, esse giocavano un ruolo importante nei documenti che riguardavano comunità minori, come per esempio Tepechpan, una città situata ad est del lago Texcoco e alleata di Tenochtitlán. Tali fonti, infatti, dimostrerebbero l’importanza delle donne (o la quasi parità del loro ruolo rispetto agli uomini) nelle varie comunità della popolazione mexica, che diminuì a mano a mano che si costitutiva una unità politica più ampia, quella conosciuta come “impero azteco”, nel quale il potere assunto dalle donne costituiva una minaccia per la classe dirigente maschile (Diel, 2005). L’esistenza di tradizioni guerriere tra le donne, una caratteristica che avvicinerebbe il loro status a quello degli uomini, fu in alcuni casi documentata nelle cronache antiche. Possiamo in proposito qui ricordare il curioso episodio raccontato dal frate domenicano Diego Durán, che scrisse nella seconda metà del secolo XVI, secondo il quale un sovrano del XV secolo di Tlatelolco aveva messo in atto una strategia memorabile dopo essere stato attaccato con forza dal sovrano di Tenochtitlán (Duran, 1967; Klein, 1990). Il re, trovatosi in una situazione disperata, ordinò alle donne e ai ragazzi di spogliarsi e di attaccare gli invasori. Mentre i ragazzi lanciavano bastoni infuocati, le donne si avvicinavano con le pudenda “vergognosamente” scoperte, alcune schiaffeggiando il ventre e i genitali, altre strizzando i seni e spargendo latte sui nemici. Un’altra versione dell’evento aggiunse che le donne nude avevano il capo vistosamente piumato e le labbra dipinte di rosso, il colore delle prostitute (Klein, 1990). Seconda questa versione, le donne aggressive brandivano scudi e mazze guarnite di punte di ossidiana mentre accusavano a gran voce i nemici di essere codardi. Altre donne, ancora vestite, alzavano le gonne e mostravano le natiche al nemico, mentre altre ancora lanciavano dalla cima della piramide scope, telai, fusi e altri oggetti tipicamente femminili (Duran, 1967).

Pietra di Coyolxauhqui
Pietra di Coyolxauhqui, raffigurante la dea decapitata e smembrata, XV secolo. Museo del Templo Mayor, Città del Messico (fonte: Archivio Scacchiere Storico)

L’episodio, sfrondato degli aspetti grotteschi e meno credibili, rivelò (o volle dimostrare) una partecipazione alla guerra delle donne mediante l’enfatizzazione del loro genere attraverso l’esposizione di seno e genitali e il lancio degli utensili domestici, tutti chiari simboli della loro femminilità. Si trattò però di un episodio isolato nel panorama delle fonti etnostoriche, dove invece si sottolineava l’uso retorico della femminilità come metafora della codardia. Le donne azteche venivano raramente coinvolte in azioni militari e descritte come deboli e timide, inclini a ritirarsi dal conflitto fisico. In un passo di Bernardino de Sahagún, l’uomo azteco socialmente disprezzato veniva dipinto come «colui che, evitando di battersi, agisce impaurito e timoroso come una donna» (Sahagún, 2019).

Un’altra interessante chiave di interpretazione dei rapporti di genere è rintracciabile nel mito delle dèe Coatlicue e Coyolxauhqui. Nella versione riportata da Sahagún si racconta che Coyolxauhqui, governatrice delle Huitznauna, le divinità delle stelle, uccise la madre Coatlicue con l’aiuto dei suoi fratelli, perché rimasta incinta in modo “disdicevole” dopo avere incontrato una sfera piumata. Il feto, Huitzilopochtli, dio della guerra, uscì dal suo ventre armato di tutto punto ed uccise Coyolxauhqui, oltre ai suoi quattrocento fratelli, la smembrò e ne lanciò poi la testa verso il cielo, dove si trasformò nella dea Luna (Sahagún, 2019).

Più che l’interpretazione astronomica del mito – secondo la quale il dio Huitzilopochtli rappresenta il Sole, la madre Coatlicui la terra, la sorella Coyolxauhqui la luna e i quattrocento fratelli le stelle (Gillespie, 1989) – a noi interessa quella sociologica, secondo la quale la minaccia a Huitzilopochtli, rappresentata dalla parente femmina, simboleggerebbe le pretese passate e future di contrastare la supremazia azteca, mediante una contrapposizione di genere in cui l’aggressività femminile si discosta dalla norma e per questo, essendo aberrante e anomala, venne sconfitta dal dio maschio (Klein, 1990).

L’importanza del mito nell’ideologia azteca è testimoniata dal ritrovamento nel 1978 di un grande disco di pietra ai piedi della piramide principale del Templo Mayor di Tenochtitlán in Città del Messico, nel quale Coyolxauhqui appare nuda, decapitata, smembrata e sanguinante, e in cui i suoi antichi poteri malvagi sono espressi dal teschio in fondo al suo petto e dalle maschere dal profilo mostruoso sulle ginocchia, sui gomiti e sui talloni. Il disco di pietra era posizionato esattamente nel punto in cui, ai piedi della scala, sarebbero caduti i corpi senza vita dei prigionieri sacrificati al suo apice, quale monito terrificante ai nemici della fine che li attendeva se avessero ostacolato e ambizioni militari dell’impero azteco (Klein, 1990).

Coyolxauhqui, nei panni mitici del primo nemico sconfitto dal dio/eroe azteco Huitzilopochtli, e la sua morte violenta simboleggerebbero così la vittoria degli Aztechi sulla ribellione e sul tradimento, fondamento del loro futuro successo. Tramite la costruzione di un passato mitico, che ciclicamente si ripresentava, la sua sessualità femminile era vista come una metafora dell’inferiorità di coloro che osavano contestare il potere degli Aztechi, come le donne di Tlatelolco, che, come abbiamo visto, escono dallo stereotipo della femminilità per sfidare il mondo maschile degli aztechi, venendo fatalmente sconfitte.

La nudità delle donne nel momento della loro sconfitta può anche essere vista come un segno di eccessiva e illecita sessualità femminile. Le cronache e le risultanze archeologiche, infatti, riportano che le donne azteche coprivano gli organi sessuali in pubblico, mentre la promiscuità e l’adulterio venivano rigorosamente puniti anche con la morte. La ragione è semplice: l’adultera, come la donna di facili costumi, veniva vista come una potenziale «portatrice di bastardi» (Sahagùn, 1967), in un mondo dove nell’ambito dell’élite nobiliare era assai importante la legittimità di nascita, quale mezzo che consentiva l’accesso al potere e ai privilegi delle classi più alte. Quest’ultimo punto è particolarmente importante e rappresenta il trait d’union che collega, da un lato, la soggezione di fatto delle donne rispetto agli uomini nella vita politica e sociale, e, dall’altro, il ruolo ad esse riconosciuto quale portatrici del lignaggio nobiliare. Tutte le cronache antiche ricordano, infatti, come fossero tenute in grande considerazione le progenitrici in quanto fondatrici e iniziatici del lignaggio nobiliare. Non per nulla, il primo sovrano documentato di Tenochtitlán, Acamapichtli (il cui regno si fa risalire al 1372/1391) di origine non nobile (e cioè mexica) venne nobilitato dal matrimonio con una principessa tolteca di Cohlua, Ilancuetil. Questo schema si ripeterà ciclicamente nelle successive generazioni, in cui si riscontra come, anche se le posizioni di potere erano generalmente detenute da uomini, il loro accesso a tali posizioni dipendeva dal grado di nobiltà delle loro madri o spose (Davies, 1980). Le donne nominalmente quindi detenevano il diritto alla leadership, che veniva dalle stesse “assegnato” al marito o ai figli: in questo senso le donne nobilitavano la loro discendenza; è per questo che la loro sessualità doveva essere circoscritta in limiti ben definiti e l’aggressività femminile conseguentemente punita (Gillespie, 1989).

Un’altra traccia mitica del ruolo primario della divinità femminile, che si riflette sul piano politico in un interessante e controverso ruolo tipico del regime di Tenochtitlán, si può individuare nella figura della dea Cihuacòatl (“donna serpente”), uno dei tanti nomi della Dea della Terra e della fertilità, che divenne anche un titolo politico. Infatti l’ufficio di cihuacòatl nella città mexica fu secondo solo al sovrano (tlatoani). Susan Gillespie segnala come in realtà si tratta di un nome femminile per un ruolo rivestito da uomini e ricorda come Cihuacòatl fosse una deità androgina e raffigurata con un serpente allacciato alla vita che esce da una sorta di gonna, che in realtà è un perizoma usato dai maschi (Gillespie, 1989). L’ideologia religiosa dominante aveva dunque una posizione di così intenso rifiuto della femminilità che le dèe “dovevano giustificare il loro carattere divino mostrando di possedere alcuni tratti maschili.

La stessa parola “Cihuacòatl” veniva utilizzata per la divinizzazione delle donne morte di parto, che venivano equiparate ai guerrieri caduti in battaglia, il che testimonia l’alta considerazione di cui godevano le donne per il ruolo che avevano nella procreazione (Aimi, 2023, Rodriguez-Shadow, 2020). Ne parla ampiamente Bernardino de Sahagún nel Codice Fiorentino (scritto nel 1569 in spagnolo e nauhatl), in cui descrive i riti funebri e la loro divinizzazione nella dea Cihuacòatl, che quindi assunse, alternativamente o forse anche congiuntamente, le fattezze sia della dea della terra e della fertilità, sia della divinità guerriera con fattezze anche maschili, oppure delle eroine morte di parto (Sahagùn, 1967).

L’importanza delle divinità femminili (di cui sono stati sopra riportati soltanto alcuni esempi) induce alla riflessione circa l’esistenza di un matriarcato nella storia dei popoli mesoamericani e in particolare tra gli Aztechi. Si tratta di un tema complesso al quale possiamo soltanto accennare e che è stato trattato nel contesto di tutte le società primitive. In particolare nel XIX secolo, nell’ambito delle diverse posizioni evoluzioniste (L.H. Morgan e soprattutto J.J. Bachofen), la teoria del matriarcato (termine coniato allora sul modello di “patriarcato”) si era affermata al punto da ritenerlo come una fase quasi obbligata dello sviluppo di tutte le civiltà, consistente in una organizzazione sociale in cui il potere politico-economico era demandato alla madre più anziana della comunità e, per estensione, a tutte le donne, nei cui confronti gli uomini rivestivano una posizione subordinata (Cantarella, 1997).

A partire dalla metà del XX secolo, questa visione è stata abbandonata e oggi si ritiene unanimemente che il matriarcato non sia mai esistito (Cantarella, 1996; Rodriguez-Shadow, 2020). Non fa certo eccezione l’area mesoamericana, dove infatti non sono pervenute tracce di un’epoca matriarcale nella documentazione archeologica, storica o etnologica, per cui è considerato estremamente azzardato postulare che nell’antica Mesoamerica ci sia stato un periodo in cui le donne detenevano il potere politico o una fase che potremmo definire come un ordine sociale in cui le donne avevano potere politico. Ciò non esclude, però, che sia possibile ipotizzare l’esistenza di una società basata sulla matrilinearità, cioè un’organizzazione sociale in cui una persona è considerata appartenere allo stesso gruppo di progenie della propria madre. In questo contesto, la donna restava ugualmente subordinata all’uomo, ma spesso non al padre o al marito, ma al fratello della madre; i legami uterini inoltre stabilivano il modo in cui venivano ripartite le risorse produttive e definivano anche le relazioni tra donne e uomini. Le posizioni di autorità pubblica restavano assegnate ai maschi anziani di ciascun gruppo parentale, ma le donne avevano una notevole influenza sul processo decisionale all’interno della comunità (Gillespie, 1989).

Miniatura con donne al telaio
Una donna azteca insegna alla figlia quattordicenne l’uso del telaio, pratica diffusa ancora prima dell’avvento degli Spagnoli. Miniatura tratta dal Codice Mendoza, 1541 circa. Bodleian Library, Università di Oxford (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Coerentemente alla tesi di un progressivo svilimento della figura della donna, che nei tempi più antichi aveva una posizione sociale rilevante collegata al parto e alla sessualità, ma anche alla filatura e tessitura e a talune attività agricole, con l’avvento dell’espansione tenochca si aggiunsero alla raffigurazione delle divinità femminili elementi militari e caratteristiche guerriere, il che spiega la loro successiva natura androgina. Abbiamo infatti già notato come le dèe non fossero connotate solo da elementi femminili, ma esprimevano caratteristiche tipiche di entrambi i generi. Molte delle dee azteche, tra cui Cihuacóatl, Tlazoltéotl, Quilaztli, rappresentavano l’aspetto guerriero maschile e avevano quindi attributi androgini, tanto che a volte, come sopra già abbiamo notato, erano raffigurate con serpenti, che erano simboli fallici, sporgenti dalle loro gonne (Rodriguez-Shadow, 2020). Il pantheon messicano era dunque un’immagine fedele della società gerarchica che lo aveva generato, riproducendo in esso la divisione sessuale esistente, nonché la subordinazione di genere.

2. Il matrimonio e la poligamia

Il matrimonio tra gli antichi Aztechi era un’istituzione sociale complessa, che rivestiva un significativo ruolo nella struttura della società. Tipicamente il matrimonio, a prescindere dalle classi o caste sociali di appartenenza, era concepito come una alleanza tra famiglie stipulata per stabilire o rafforzare legami politici e sociali tra gruppi o tribù, oppure per consolidare l’assegnazione di terra, poiché l’accesso alle risorse agricole era essenziale per la sopravvivenza e la prosperità delle famiglie (Carrasco, 1997). Le famiglie svolgevano un ruolo cruciale nella scelta dei partner per il matrimonio e le unioni erano quindi normalmente organizzate da genitori o parenti, mentre la volontà degli individui più direttamente coinvolti aveva un peso minore rispetto agli interessi delle famiglie e della comunità (Duran, 1967). La pratica della poligamia o, più precisamente, la poliginia, e cioè l’unione maritale di un uomo con una o più donne, venne subito riscontrata dagli Spagnoli all’arrivo di Cortés nel 1519 come comune nelle classi più alte e cioè a livello regio (tatloani) o nobiliare (teteuctin), tanto che tra i Mexica la pratica della poligamia, lungi da essere considerata illecita, era vista come una dimostrazione di un alto grado di sviluppo culturale e una manifestazione della superiorità della classe dirigente, mentre la monogamia era considerata un tratto caratteristico del gruppo socialmente subordinato (De Zuazo, 1521).

Tuttavia, è stato più recentemente osservato come vi siano tracce di poliginia anche nelle classi meno elevate. In particolare, è stata ricordata la pratica di concedere più donne come trofei sessuali agli uomini del villaggio che si erano distinti in guerra anche se appartenenti al popolo, purché potessero permettersi di mantenerle. Ai guerrieri tequihvuaque, per esempio, che erano stimati per il loro coraggio in guerra, era consentito avere molte concubine e potevano anche corteggiare pubblicamente le prostitute durante la loro partecipazione a particolari feste religiose (Rodriguez-Shado, 2020).

Il dibattito sull’argomento è vivace e si registrano diverse interpretazioni. La più semplice è che la poligamia fosse comune, poiché una società guerriera aveva bisogno di molti uomini (Lopez de Gomara, 1958). Secondo altri, invece, le ragioni sono più complesse e molteplici e vanno ricercate innanzi tutto studiando i fenomeni di poligamia nei tempi più moderni o nei rari casi contemporanei, in correlazione con l’analisi matematico-demografica dei processi di riproduzione. Secondo Ross Hassig, salvo che per effetto di circostanze esterne che accrescano la mortalità dei maschi, per esempio guerre devastanti o malattie di origine sessuale, normalmente lo stesso numero di maschi e di femmine nasce e sopravvive fino alla maturità sessuale, il che comporta che anche in società ove la poliginia è permessa si tratti di una pratica che riguarda una minoranza, semplicemente perché non c’è un numero sufficiente di donne che possano sposare gli uomini disponibili (Hassig, 2016).

Figurina di donna con bambino
Figurina raffigurante una donna azteca che regge tra le braccia un bambino. Peabody Museum, Università di Harvard (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Non abbiamo statistiche che riguardano gli Aztechi, ma le fonti tramandano che era comune per i nobili prendere più mogli di rango diverso, anche schiavile. la pratica era così comune da far ritenere che fungesse da contrappeso per mitigare lo squilibrio demografico dovuto al fatto che moltissimi uomini, in particolare quelli delle classi più elevate, che partecipavano alle guerre, venivano uccisi nei sanguinosi conflitti tra popolazioni diverse, procurando un sovrannumero di donne disponibili.

Ma ci sono anche altre possibili spiegazioni della diffusione della poligamia, per esempio l’opportunità, attraverso multiple mogli, di incrementare il numero dei figli, acquistando così maggiore prestigio e maggiore ricchezza, specialmente nelle società agrarie ove il numero dei lavoratori nell’ambito della famiglia è rilevante. È stato anche osservato che nella economia azteca un peso rilevante aveva l’attività tessile, tradizionalmente compito delle donne, e quindi il numero delle mogli aumentava la capacità di lavoro della famiglia e la produzione di tessuti di valore (Evans, 2008).

Le mogli secondarie erano infatti largamente impiegate per la lavorazione dei tessuti e la concentrazione di lavoratrici assicurava al palazzo del re – e in minore misura dei nobili – la funzione di centri di produzione della ricchezza, dato che il panno lavorato era un mezzo di pagamento nell’economia azteca, oltre ad avere ovviamente altri molteplici usi (pagamento di tributi, oggetto di doni preziosi, utilizzo in varie cerimonie etc.). Quindi la poligamia assicurava manodopera qualificata e accresceva la ricchezza del signore. Il tutto a costo zero, perché le mogli “secondarie” appartenevano a un lignaggio inferiore, o non erano affatto nobili, e quindi avevano tutto l’interesse a sposare un nobile e assicurare così un futuro migliore alla loro prole (Hassig, 2016).

L’istituto della poligamia tra i nobili aveva anche lo scopo di mettere a disposizione del signore una ampia prole. In questo modo ci si assicurava l’opportunità di scegliere le figlie meglio dotate che potevano ambire a sposare il re, che a sua volta si garantiva un erede al trono e ad acquisire, in sostanza, la chance di diventare regina madre. In questo modo, e con il diffondersi della ricchezza, la pratica della poligamia tra i sovrani e i nobili, soprattutto a partire dai successori di Motecuhzoma il Vecchio (che regnò dal 1440 al 1478), divenne sempre più diffusa, fino ad assumere una funzione essenziale per mantenere potente l’impero azteco, tramite quella vasta rete di rapporti interfamiliari e internobiliari che la dovizia della prole poteva assicurare. Certamente, comunque, il numero delle mogli conferiva grande prestigio al re o al nobile azteco, se è vero che alcuni di essi avevano fino a 150 mogli e senza voler necessariamente credere alla lettera a quanto viene riportato sul famoso sovrano Nezahualpilli di Teztcoco, che regnò dal 1472 al 1515 e che avrebbe avuto oltre duemila mogli e concubine (Ixtlixochitil, 1975, citato da Hassig, 2016). Di Motēcuhzōma II, il re incontrato da Cortés, si dice invece che avesse molte donne, tutte figlie di signori, ma solo due “legittime” spose (Dias del Castillo, 1980).

Il concetto di moglie “legittima” è in realtà da approfondire, perché nella maggior parte delle fonti si precisa che la cerimonia matrimoniale era limitata alla sola donna principale, definita “legittima”, non necessariamente la prima in ordine di tempo, e che solo i figli di questa potevano ereditare, mentre i figli delle mogli secondarie, che nella terminologia europea si potrebbero definire come “concubine”, erano escluse dall’eredità, anche se ad essi venivano comunque distribuiti in altro modo alcuni beni paterni ed erano destinati a posizioni di minore prestigio (Conquistador Anonimo, in Pranzetti, 2005). L’istituto della poligamia, in ogni caso, accresceva il ruolo del lignaggio da parte della madre, perché i figli dello stesso padre si distinguevano e venivano graduati in funzione del grado di nobiltà della madre. Il ruolo di mogli secondarie, o non legittime che dir si voglia, non aveva tuttavia alcun significato negativo. Se è vero infatti che in principio soltanto i figli della moglie principale potevano succedere al padre, vi sono anche esempi contrari, come il famoso caso di Itzcoatl, uno dei più celebrati sovrani aztechi, che regnò a Tenochtitlán dal 1427 al 1440, e che era figlio di Acamapichtli e di una sua moglie secondaria di umile origine (Gillespie,1989).

Le alleanze potevano nascere quando marito e moglie avevano pari lignaggio, ma anche quando il signore sposava una donna di rango superiore o inferiore: si parla quindi di matrimoni “isogami”, “ipergami” o “ipogami”. In ogni caso, in questo sistema i signori mantenevano forti legami con i loro predecessori, con i loro pari ma anche con persone di rango immediatamente, ma non troppo, inferiore o superiore. Relazioni simili avvenivano a diversi livelli che formavano una sorta di scala sociale nella quale si poteva normalmente passare da uno scalino all’altro, ma senza salti troppo vistosi (De Rojas, 2020).

3. Poligamia e mobilità sociale

Si è già detto, ed è ampiamente documentato, come la poligamia fosse diffusa nel Messico azteco tra le classi alte (Motolinia, 1903), ma il limitato numero di nobili rispetto alla popolazione totale (circa il 10%) e la ridotta fertilità che si realizzava con la poligamia – in percentuale le donne unite in un matrimonio poligamico erano meno feconde di una donna monogamica – indussero Motecuhzoma il Vecchio a sdoganare il matrimonio esogamico, e cioè tra nobili e donne appartenenti al popolo, e a legittimarne la prole (Duran, 1967, Soustelle, 1970).

Sposare un nobile divenne così un mezzo per ascendere nella scala sociale, riservato alle sole donne. Gli uomini avevano altre possibilità di mobilità sociale, quali per esempio accedere alla carriera sacerdotale, acquistare ricchezze tramite il commercio o, naturalmente, acquisire meriti di guerra, mettendosi in luce agli occhi del sovrano, che poteva quindi farli accedere al rango di nobile minore (pipiltin) e successivamente anche superiore (teteuctin). Alle donne venne invece aperta, quale unica possibilità di ascesa sociale, la strada del matrimonio poligamo, che consentiva non solo di ottenere uno stato sociale più alto, ma di assicurarlo alla loro progenie.

Señora de Chalma
“Señora de Chalma”, statuina femminile proveniente da Coatepec Harinas. Museo Nazionale di Antropologia, Città del Messico (fonte: Archivio Scacchiere Storico)

Tutto ciò diede vita a un movimento ascensionale degli strati inferiori della popolazione (la progenie delle donne maritate, in modalità che potremmo chiamare secondaria, con i nobili), con corrispondente indebolimento dei nobili di più alto livello, costretti a ridimensionare la loro pratica poligamica limitandola alla poligamia di élite, e cioè con donne di pari livello sociale, per evitare, da un lato di imparentarsi con le classi di inferiore lignaggio, e dall’altro di avere discendenti con minori chances di ottenere i maggiori privilegi riservati alle classi più alte. Tali discendenti, pur innalzati rispetto al rango della madre, restavano infatti confinati in un livello inferiore rispetto ai discendenti “legittimi”, figli cioè della moglie “primaria”, e quindi con ogni probabilità erano destinati a loro volta a maritarsi con donne di rango inferiore, discendendo così nuovamente di stato (Hassig, 2016).

In aggiunta agli effetti della poligamia sulla mobilità delle classi sociali, vi fu anche un consistente effetto nella popolazione totale di Tenochtitlán, di cui tutte le fonti registrano una crescita considerevole: da poche migliaia di persone all’epoca della sua fondazione a circa 200.000 quando fu conquistata da Cortés. Questa crescita ebbe diverse cause, ma sicuramente una delle più rilevanti fu l’immigrazione femminile dalle città circostanti, accelerata dalla grande domanda di derrate alimentari di cui necessitava Tenochtitlán, circostanza che produsse un grande incremento della produzione agricola, attività nella quale erano prevalentemente impiegati gli uomini, mentre le donne, dedite soprattutto alle attività di tessitura, venivano spinte a emigrare in città dove erano ricercate, anche per la loro abilità di tessitrici, quali mogli secondarie di nobili. Un tale meccanismo consentì di alimentare la poligamia dei nobili, accrescendo il numero dei loro discendenti in misura grandemente superiore a quelli degli appartenenti al popolo, ma causando anche uno sbilanciamento degli strati sociali e un indebolimento dello stato sociale (e dei relativi privilegi) dei nobili di livello meno alto.

Nessuno è in grado di calcolare quale fosse la portata di questo movimento ascensionale delle classi inferiori (e discensionale delle classi più alte), ma è evidente che una crescita troppo alta non avrebbe potuto essere tollerata dai nobili di più alto rango e la prova di questa tendenza si ha con la rivoluzione tentata da Motecuhzoma II, che, cinquant’anni dopo la morte di Motecuhzoma il Vecchio, disconobbe ai figli di un nobile e di una donna del popolo di accedere alla nobiltà, (re)imponendo il concetto di matrimonio endogamico: una stretta autoritaria (in linea con la fama del personaggio) disposta probabilmente allo scopo di riservare la successione ai più stretti discendenti del re, perché solo questi avrebbero potuto scegliere le mogli tra le donne nobili di alto livello, eliminando così la concorrenza con i figli dei matrimoni misti (Duran, 1967, Hassig, 2016).

Si trattò dunque di un‘innovazione rivoluzionaria, di cui non fu possibile vedere gli sviluppi per l’irrompere della conquista spagnola, che spazzò per sempre la civiltà azteca, quando essa era nel pieno della sua evoluzione.

Gianfranco Di Garbo

Gianfranco Di Garbo è un avvocato attivo nel campo del diritto civile e internazionale, laureato in Storia con una tesi sulle civiltà precolombiane, presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi interessi spaziano dal diritto vigente (dove ha all’attivo diverse pubblicazioni), alla storia del diritto e alla storia delle civiltà mesoamericane.

Bibliografia

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Immagine di copertina: dettaglio di Il grande mercato di Tlatelolco, D. Rivera, 1945. Palazzo Nazionale, Città del Messico (fonte: autore, J Mndz; licenza, CC BY-SA 2.0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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