di Michele Gatto
1. Roma e la Giudea: un rapporto complicato
L’espansione romana sullo scenario orientale ne comportò inevitabilmente l’apparizione all’interno dell’orizzonte della Giudea. Sebbene Pompeo abbia fatto il proprio ingresso a Gerusalemme nel 63 a.C., a seguito della terza guerra contro Mitridate VI, in precedenza c’erano comunque già stati dei contatti col popolo ebraico: infatti, nell’ambito della rivolta del 166 a.C. guidata dai Maccabei contro i Seleucidi, Giuda Maccabeo, consapevole della crescente potenza di Roma, provò a ricercarne l’alleanza, stipulando infine un trattato che tutelava i successi ottenuti ed impediva il ripristino della situazione antecedente la rivolta stessa (Primo libro dei Maccabei, 8, 1-22; Firpo, 1999). Ovviamente, i Romani approfittarono della loro posizione di “protettori” appena ne ebbero l’occasione, che si presentò in conseguenza di una disputa per il trono di Giudea all’interno della dinastia regnante degli Asmonei: dopo la morte della regina Alessandra, nel 67 a.C., i figli Ircano e Aristobulo chiesero di stabilire chi fosse il successore legittimo a Pompeo, la cui scelta ricadde sul primo. Il rifiuto della decisione da parte di Aristobulo rappresentò il pretesto per la presa di Gerusalemme da parte di Pompeo, il quale aveva da poco abbattuto definitivamente il regno seleucide in Siria. Da quel momento in avanti, la Giudea fu assoggettata ai Romani e costretta a pagare un tributo, mentre Ircano ottenne solamente il titolo di Sommo Sacerdote con semplici compiti amministrativi: a questo si aggiunse il trauma del sacrilegio compiuto da Pompeo che, espugnato il Tempio dopo tre mesi di assedio, penetrò fin dentro il “Santo dei Santi”, ovviamente non prima di aver eliminato i seguaci e i sacerdoti sostenitori di Aristobulo, rifugiatisi proprio nel luogo sacro (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, I, 133-154; Firpo, 1999; Brizzi, 2015).
Morto Ircano, una temporanea invasione dei Parti pose sul trono il nipote Antigono, poi deposto e ucciso da Erode con il decisivo sostegno di Publio Ventidio Basso (Brizzi, 2015), mentre a Roma il Senato lo aveva nel frattempo già proclamato re di Giudea nel 37 a.C. grazie, in particolare, all’intercessione di Marco Antonio. In ogni caso, la riconquista si rivelò non facile per Erode, costretto a fronteggiare continui attacchi di guerriglia fino alla presa di Gerusalemme dopo alcuni mesi di assedio (Brizzi, 2015; Firpo, 1999). Il suo lungo regno fu contraddistinto sia dalla repressione di parte dei familiari e degli oppositori, sia dal perseguimento di una politica culturale di stampo ellenistico, il che provocò nei suoi confronti un’avversione popolare acuita principalmente da motivi religiosi, sebbene avesse dopotutto realizzato una monumentale ristrutturazione del Tempio. La sua attività urbanistica fu intensa: oltre che dell’abbellimento di Gerusalemme, si occupò della costruzione, tra le altre, della città di Cesarea Marittima (dedicata all’imperatore) e della fortezza di Masada (Firpo, 1999; Brizzi, 2015). Le turbolenze, cominciate già durante gli ultimi anni, non si interruppero però con la morte di Erode nel 4 a.C., anzi, si intensificarono sotto forma di una guerra irregolare guidata spesso da ribelli con aspirazioni di carattere messianico, sostenuti dagli stessi scribi: ciò provocò più volte, al fine di riportare l’ordine, l’intervento militare dell’allora legato di Siria, Publio Quintilio Varo. Oltretutto, visto il diffuso malcontento manifestato dalla popolazione per il governo di Archelao, che aveva ereditato da Erode buona parte del regno, Augusto lo depose trasformando successivamente quella porzione di Giudea in una provincia procuratoria, sotto il controllo di un magistrato di rango equestre (Brizzi, 2015).

I prefetti della Giudea, denominati procuratori a partire dal principato di Claudio, risiedevano a Cesarea ed erano formalmente posti sotto la supervisione dei proconsoli di Siria. Tuttavia, essi si trovarono a governare un territorio tendenzialmente ostico da amministrare, prendendo decisioni che, in diversi casi, contribuirono a ravvivare i focolai di ribellione. Uno dei governatori su cui possediamo maggiori informazioni è Ponzio Pilato, sotto il quale si verificarono alcuni particolari episodi scatenanti sommosse e proteste, represse con l’uso della violenza: tra questi, l’introduzione notturna delle insegne imperiali a Gerusalemme, o la violazione del tesoro del Tempio per finanziare la costruzione di un acquedotto (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 169-174, 175-177; Firpo, 1999; Curran, 2005); ma, nel complesso, l’amministrazione di Pilato fu contraddistinta dalla volontà di perseguire gli obiettivi amministrativi e fiscali prefissi da Tiberio, durando dieci anni, tra il 26 e il 36 d.C., seppur adottando prevalentemente metodi coercitivi (Firpo, 1999; Goodman, 2009). Nella maggior parte dei casi, invece, i suoi successori si contraddistinsero per una cattiva amministrazione, risultata decisiva nell’accrescere gradualmente il malcontento e deteriorare i rapporti con i Giudei: la scelta di abbandonare la politica dei sovrani clienti, nonostante il positivo interregno di Agrippa I (41-44 d.C.) si sarebbe rivelata, in effetti, un errore politico. Ad esempio, sotto Antonio Felice (52-60 d.C.) si ebbero moti di ribellione fomentati da gruppi estremisti come quello dei sicarii, mentre altri governatori, in particolare Lucceio Albino (62-64 d.C.), si dedicarono più che altro alla corruzione e agli espropri, traendo addirittura profitto dalle attività dei ribelli (Tacito, Storie, V, 9; Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 254-257; Curran, 2005; Goodman, 2009; Brizzi, 2015). Un episodio particolarmente grave si era però verificato per responsabilità dell’imperatore stesso, quando nel 40 d.C. Caligola pretese che una sua statua fosse collocata e venerata all’interno del Tempio, minacciando una dura repressione nei confronti di qualunque forma di opposizione. Ciò nonostante, i Giudei protestarono veementemente, tramite il legato di Siria Publio Petronio, chiedendo il rispetto delle loro leggi e tradizioni: sebbene la morte di lì a poco di Caligola avesse evitato una possibile rivolta, questo suo tentativo finì per contribuire decisivamente ad un ulteriore, inevitabile, peggioramento della situazione (Firpo, 1999; Goodman, 2009; Brizzi, 2015).
In ogni caso, non tutta la società giudaica si dimostrò totalmente ostile nei confronti dei Romani: l’aristocrazia, laica e religiosa, in cambio della collaborazione e del ruolo di mediazione con le classi inferiori, ottenne compiti amministrativi, ed il Sinedrio, nel quale spiccava il Sommo Sacerdote (Goodman, 2009), tornò così ad occuparsi di giustizia penale e civile, riacquistando il prestigio perduto, potendo inoltre usufruire di un proprio corpo armato; inoltre, era lo stesso collegio ad esprimere la sua massima carica, nonostante questa fosse formalmente sotto il controllo romano. Si trattava, quindi, di un organo di governo locale, la cui giurisdizione escludeva solamente il giudizio sui crimini politici e la possibilità di comminare condanne a morte, un compito spettante al procuratore romano. Perciò, al di là delle singole vicende esposte in precedenza, l’amministrazione romana rispettava il più possibile sia le decisioni prese dal Sinedrio, sia le prescrizioni religiose ebraiche. Ma la collaborazione tra governanti e aristocratici ebbe anche conseguenze negative, favorendo crescenti episodi di corruzione a danno della popolazione e coinvolgendo l’assegnazione delle cariche sacerdotali più elevate, oggetto di vere e proprie aste (Firpo, 1999; Goodman, 2009; Brizzi, 2015).
Le accuse di malgoverno e corruzione nei confronti dei procuratori e dei notabili finirono per riaccendere convinzioni religiose di natura escatologica, legate alla fine dei tempi. Se già la violazione del Tempio da parte di Pompeo venne interpretata come l’avvento del quarto impero premessianico profetizzato nel libro di Daniele (2, 31-45), si moltiplicarono gli scritti ostili a Roma (di cui si prediceva la caduta) nei quali i conquistatori erano identificati con la punizione divina nei confronti dei peccati commessi dalle dinastie regnanti, a cui sarebbe seguito il perdono e la venuta di un liberatore (Firpo, 1999; Brizzi, 2015). Personaggi come Giuda il Galileo espressero la contrarietà al censimento romano del 6 d.C. oltre che al pagamento del tributo, motivandola con l’esclusiva fedeltà ed obbedienza di Israele nei confronti del proprio Dio: infatti, sarebbero stati prossimi i tempi dell’abbattimento dell’impero idolatra in ragione di un impero divino, instaurato dalla vittoria in guerra del popolo giudaico (Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XVIII, 1-6; Goodman, 2009; Brizzi, 2015). Ad ogni modo, simili convinzioni contenevano importanti componenti sociali e culturali: da una parte, il timore di perdere la propria identità religiosa, dall’altra le rivendicazioni degli abitanti delle campagne, alla ricerca di qualcuno che li proteggesse e rispondesse alle loro esigenze, al contrario di quanto ritenevano non avesse fatto la classe dirigente rappresentata dal Sommo Sacerdote. Tali credenze provocarono così un progressivo aumento di presunti profeti e di movimenti con ambizioni messianiche, in grado di creare grande attrattiva e suscitare false speranze sia spirituali, sia politiche, rendendo il terreno fertile per una sollevazione di ampia portata, oltre a provocare una spaccatura nella società (Firpo, 1999; Curran, 2005; Cairo, 2007).
2. La grande rivolta del 66 d.C.
In un clima così teso, alcuni fattori finirono per rappresentare le ultime gocce scatenanti la prima grande rivolta giudaica. Innanzitutto, cominciò ad affermarsi e a circolare sempre più una profezia contenuta nelle sacre scritture, secondo cui dalla Palestina sarebbe emerso un sovrano che avrebbe dominato il mondo (Numeri, 24, 17): se negli ambienti giudaici più intransigenti, questa prefigurava l’avvento prossimo di un messia salvatore di Israele, a seguito di una reinterpretazione finì invece per identificare il futuro imperatore Vespasiano, come successivamente dichiarò Flavio Giuseppe al diretto interessato e come venne riportato anche in altre fonti, ad esempio Svetonio e Tacito (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, III, 400-407; Svetonio, Vespasiano, 4; Tacito, Storie, V, 13; Brizzi, 2015). Dal punto di vista politico, il procuratore in carica Gessio Floro, dopo essere stato accusato di malgoverno davanti al governatore della Siria Cestio Gallo, avrebbe deciso di provocare sempre più i Giudei, fino a condurli all’esasperazione e alla rivolta, tentando così di camuffare maldestramente le proprie malefatte: nel maggio del 66 d.C., trovandosi a Gerusalemme, il procuratore prelevò una somma elevata dal tesoro del Tempio causando diverse agitazioni, represse con brutalità e senza distinguere tra i più esaltati e i moderati, dei quali tra l’altro facevano parte i membri delle classi maggiormente collaborative con Roma (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 293-308; Brizzi, 2015).
La situazione, quindi, divenne insostenibile per la popolazione gerosolimitana che reagì attaccando le truppe romane: un fattore da non sottovalutare, se si considera che fino a quel momento le agitazioni avevano riguardato principalmente le campagne, mentre in città i notabili erano riusciti a tenere le acque piuttosto calme. Messo alle strette, Floro negoziò la sua fuoriuscita da Gerusalemme, dove, prima di tornare a Cesarea, lasciò una guarnigione diversa da quella che aveva infierito sugli abitanti, mentre Cestio Gallo ordinò un’ispezione per valutare la gravità della situazione. Ciò nonostante, gli animi continuavano ad essere accesi e non bastò a placarli nemmeno un tentativo di persuasione da parte di Erode Agrippa II il quale, pur governando ormai solo alcune porzioni della provincia, aveva ereditato dal padre il formale controllo del Tempio e la relativa nomina dei Sommi Sacerdoti. Praticamente fuori controllo e istigate dall’interpretazione favorevole di alcuni segni celesti, le fazioni più estremiste passarono all’azione vera e propria: in tutta la Giudea scoppiarono sommosse, mentre il capitano del Tempio, Eleazar, fece sì che non fossero più officiati sacrifici in favore dei Romani e dell’imperatore (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 315-332, 405-410; VI, 290-291; Brizzi, 2015). Sfruttando l’immobilismo di fatto delle classi dirigenti e ottenendo il sostegno anche degli strati sociali più umili, i rivoltosi, rafforzati dalla presenza dei sicarii guidati da Menahem, assediarono nel palazzo reale la guarnigione romana che, costretta alla resa, fu massacrata nonostante gli accordi presi ed il riposo del sabato. Allo stesso tempo, furono conquistate le fortezze di Masada, Cipro e Macheronte, mentre ovunque si scatenarono scontri e violenze tra Greci, Siri e Giudei; tuttavia, a Gerusalemme già si ravvisavano le prime crepe nello schieramento ribelle, con Eleazar che fece uccidere Menahem e i suoi seguaci più stretti: i sicarii rimasti avrebbero lasciato la città e, successivamente, presero il controllo di Masada (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 442-447, 450-456; Cairo, 2007; Brizzi, 2015). A questo punto, Cestio Gallo fu costretto ad intervenire partendo dalla Siria con un numeroso esercito, la cui avanzata inizialmente sembrò non incontrare particolare resistenza finché, giunto nei pressi di Gerusalemme, una azione di guerriglia guidata da Simone bar Giora lo privò di alcune salmerie: un primo segnale negativo sottovalutato dal legato (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 499-526; Brizzi, 2015). Siccome la sola vicinanza delle truppe romane non aveva sortito l’effetto intimidatorio desiderato, Gallo mosse quindi verso la città, ed una volta entratovi fu sul punto di prenderne il controllo, anche grazie alla fazione cittadina favorevole alla pace: ma improvvisamente, forse per l’assenza di rifornimenti, decise di ritirarsi. Lungo il tragitto del ritorno, subì un’imboscata presso il passo di Beth Horon, nella quale i Romani subirono diverse perdite, oltre a dover abbandonare le macchine da guerra e ad aver subito la sottrazione dell’aquila della XII legione Fulminata (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 527-555; Tacito, Storie, V, 10; Brizzi, 2015). Si trattava di un duro colpo, sia dal punto di vista strategico, sia psicologico.

Le componenti giudaiche favorevoli alla guerra, infatti, si videro politicamente rafforzate, tanto che i ribelli diedero vita ad una amministrazione della Giudea simile a quella di un regno autonomo, con la creazione di distretti affidati a comandanti militari, ma il tutto comunque gestito dalle élites con a capo il Sommo Sacerdote: esse aderirono alla rivolta per non perdere i propri privilegi e, allo stesso tempo, cercare di mitigare gli animi dall’interno, collocando infatti uomini moderati e di fiducia nelle varie regioni. Tuttavia, l’eccessivo entusiasmo per i successi ottenuti portò gli insorti ad incorrere in alcuni errori strategici, come il fallito tentativo di conquista di Ascalona, rimasta sotto il controllo romano. Inoltre, sia l’abbandono della guerriglia in favore di una guerra più convenzionale, basata sulle numerose fortezze distribuite nel territorio, sia le ambizioni di leadership a Gerusalemme dei capi delle diverse fazioni, a lungo andare si sarebbero rivelate fatali; se successivamente sarebbe giunto ai rivoltosi qualche aiuto anche dagli Ebrei della diaspora, questi ultimi, per la maggior parte, rimasero neutrali, pur finendo per subire di riflesso nelle loro comunità le conseguenze di quanto stava accadendo (Cairo, 2007; Goodman, 2009; Brizzi, 2015).
Vista la situazione, i Romani, riorganizzatisi, erano pronti ad affrontare risolutamente la riconquista della provincia e, all’inizio del 67 d.C., Nerone affidò questo incarico a Vespasiano. Personaggio di umili origini, egli si era distinto durante la conquista della Britannia ed era così entrato nella cerchia imperiale, guadagnandosi la fiducia dei Giulio-Claudî: ad ogni modo, il princeps era consapevole che sarebbe stato pericoloso concentrare una elevata quantità di forze per riportare l’ordine in Oriente, quindi affidò la Siria e le relative truppe a Licinio Muciano con il compito di presidiarla, cercando di creare una sorta di rivalità con Vespasiano, designato invece alla pacificazione della Giudea. A questo scopo, venne raccolto un esercito di circa 60.000 uomini, costituito da tre legioni (come la XV Apollinaris, proveniente dall’Egitto e agli ordini del figlio Tito), truppe ausiliarie e contingenti di sovrani alleati, il quale, una volta partito da Antiochia, si diresse verso la Galilea. Vespasiano decise generalmente di avanzare tenendo unite le forze, sempre difendendo le vie di comunicazione e le retrovie da eventuali assalti, così da riprendere metodicamente il controllo di città e presidi fortificati: ma se in alcuni casi le operazioni militari si conclusero senza grandi sforzi, per molti altri furono necessari lunghi assedi (Curran, 2005; Breccia, 2012; Brizzi, 2015).
In questo senso, l’esempio principale prima dell’arrivo a Gerusalemme, fu indubbiamente l’assedio di Iotapata, la cui importanza è dovuta soprattutto alla presenza e al ruolo svolto come difensore della città da Giuseppe ben Mattia, il futuro storico Flavio Giuseppe (Lanfranchi, 2000; Ravallese, 2021). Questi aveva ottenuto l’incarico di comandante del distretto di Galilea probabilmente per il suo status sociale, per la sua posizione moderata, ed infine per le sue capacità militari, dimostrate già prima dello scontro con i Romani: Giuseppe provò infatti a fornire un addestramento adeguato agli uomini a sua disposizione, tentando di imitare il modello militare romano per il quale provava ammirazione, con lo scopo di prepararsi ad un possibile scontro in campo aperto, sebbene non vi sia riuscito per l’insufficienza di tempo. Tuttavia, la regione affidatagli si dimostrò complicata da gestire, a causa della presenza di numerose bande armate e per l’eterogeneità politica, che non la rendeva compatta con il fronte ribelle, nonostante la sua importanza strategica. Così, dopo aver tentato senza successo, a causa della fuga di molti uomini, di affrontare direttamente l’esercito di Vespasiano, e a seguito del fallimento di alcune azioni di disturbo, Giuseppe si diresse da Tiberiade a Iotapata in modo da organizzarne la difesa in vista dell’arrivo imminente delle truppe imperiali, pur non avendo ricevuto da Gerusalemme i rinforzi richiesti (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, III, 127-131, 141-142; Brizzi, 2015).
Iotapata era una piccola città collinare, la cui posizione permetteva di sfruttare alcune difese naturali costituite da strapiombi, accessibile solamente da un sentiero a nord e rafforzata da fortificazioni. Una volta giuntovi, Vespasiano si accampò poco distante ed ordinò il giorno successivo l’inizio degli assalti, i quali però non ebbero esito positivo grazie alla resistenza dei difensori guidati da Giuseppe, autori di sortite che riuscirono a mettere in difficoltà e a rallentare le più organizzate truppe romane. Ebbe così inizio l’assedio vero e proprio, con la costruzione di un terrapieno coperto dal lancio di catapulte e baliste, oltre che di arcieri e frombolieri, mentre l’opera dei genieri era inoltre protetta da apposite tettoie, le vineae (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, III, 145-170; Breccia, 2012; Brizzi, 2015). Ma all’abilità poliorcetica degli assedianti, i Giudei rispondevano con stratagemmi efficaci, almeno per qualche tempo: ad esempio, per evitare che il terrapieno raggiungesse la cima delle mura, Giuseppe ordinò di realizzare una barriera sopraelevata, proteggendo nel frattempo i suoi uomini grazie a pelli di bue appena scuoiati appese a dei pali, la cui consistenza e umidità avrebbero limitato i danni provocati dai proiettili, compresi quelli incendiari. E quando, successivamente, i Romani tentarono di prendere la città per sete accorgendosi della scarsità di acqua al suo interno, sulle mura vennero esposti tessuti bagnati a dimostrazione, invece, dell’esatto contrario (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, III, 171-175, 181-188).
Nonostante l’inventiva mostrata da Giuseppe, la caduta di Iotapata era però solo questione di tempo: quando egli se ne accorse, pensò di lasciarla ed organizzare delle azioni di guerriglia in modo da distogliere l’esercito romano dall’assedio, ma ciò sarebbe stato impedito dalle suppliche degli abitanti. L’assedio entrò nella sua fase finale poco tempo dopo: con la conclusione del terrapieno, un grande ariete iniziò a battere incessantemente sulle mura, mentre allo stesso tempo continuava il lancio da parte delle macchine di artiglieria, provocando un diffuso terrore nella popolazione oltre a causare morti delle quali Giuseppe (probabilmente esagerando) riporta dettagli raccapriccianti (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, III, 193-202, 213-221, 240-248; Brizzi, 2015). Questi fece il possibile per ritardare la presa della città, sempre grazie a vari stratagemmi uniti alla grande determinazione dei suoi uomini: lo stesso Vespasiano, rimasto leggermente ferito, aveva ormai compreso di avere di fronte a sé nemici disposti a tutto pur di non arrendersi (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, III, 236, 271-282; Svetonio, Vespasiano, 4). Tuttavia, dopo aver ricevuto informazioni da un disertore sul fatto che le forze dei difensori erano ormai allo stremo, il comandante ordinò l’attacco decisivo, affidato alla guida di Tito e dei suoi uomini: realizzate delle torri alte 15 metri, essi riuscirono ad oltrepassare le mura dopo aver eliminato le sentinelle, ed entrarono in città. I maschi adulti furono uccisi, mentre donne e bambini divennero schiavi: tra i pochi superstiti c’era però proprio Giuseppe, il quale, inizialmente rifugiatosi in una grotta insieme ad altri quaranta combattenti e sopravvissuto al suicidio collettivo per evitare la cattura, si arrese; opportunista o meno, certo è che da quel momento egli sarebbe diventato uno stretto collaboratore dei Flavî, a cui durante la guerra furono affidati anche tentativi diplomatici verso i propri compatrioti (Lanfranchi, 2000; Breccia, 2012; Foraboschi, Bussi, 2013; Brizzi, 2015).
La riconquista di Iotapata rappresentò comunque un chiaro segnale, finendo per fiaccare le resistenze di buona parte della Galilea: passato l’inverno presso le città amiche di Cesarea e Scitopoli, le truppe romane ripresero l’avanzata verso i territori orientali della regione, le cui città caddero una dietro l’altra, nonostante alcuni disperati tentativi di resistenza. Tali eventi si ripercossero inoltre su Gerusalemme dove i moderati, come il Sommo Sacerdote Anano, finirono per diventare vittime dei più facinorosi, i quali innescarono una vera e propria guerra intestina ai ribelli, mentre Vespasiano stringeva il cerchio intorno alla città e si preparava ad attaccarla (Breccia, 2012; Brizzi, 2015).
3. La riconquista di Gerusalemme
A poco più di un anno dal suo arrivo, Vespasiano stava pacificando la Giudea, apprestandosi a colpire i ribelli dopo averli fatti concentrare prevalentemente a Gerusalemme. Tuttavia, nel giugno del 68 d.C., la notizia della morte di Nerone finì per stravolgere i piani prestabiliti: in seguito ad una prudente attesa dello svolgersi degli eventi che lo condusse a sospendere le operazioni per diversi mesi, il comandante venne acclamato imperatore dalle legioni in Egitto e in Siria trovandosi così coinvolto nella guerra civile in atto per il trono imperiale. Vespasiano, una volta divenuto imperatore dopo la morte del contendente Vitellio, nel 69 d.C. si recò in Italia lasciando al figlio Tito il compito di domare la rivolta: quest’ultimo si era distinto sul campo in prima persona soprattutto per la sua intraprendenza, che lo aveva condotto a prendersi numerosi rischi combattendo al fianco dei propri uomini, finendo però per compiere alcuni errori strategici dovuti anche alla volontà di tentare degli inutili negoziati (Svetonio, Tito, 4; Jones, 1989; Brizzi, 2015). In ogni caso, il nuovo comandante poté approfittare delle divisioni tra le fazioni ribelli, sempre più accentuate e connotate da rivalità i cui esiti furono esclusivamente controproducenti. Gerusalemme, che si trovava sotto il comando autoritario di Giovanni di Giscala, finì per accogliere Simone bar Giora ed il suo numeroso seguito (abbandonati i sicarii di Masada), accresciutosi grazie ad una propaganda sociale che lo condusse infine ad identificarsi con il messia; inoltre, dalla fazione di Giovanni se ne venne a creare una terza, guidata da Eleazar figlio di Simone. Combattendosi tra loro, questi schieramenti gettarono la città nel caos, sprecando risorse fondamentali come le riserve di grano, distrutte per evitarne l’utilizzo da parte degli avversari, o smettendo di rispettare le prescrizioni religiose (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, IV, 557-584; V, 21-36; Tacito, Storie, V, 12; Brizzi, 2015).

Tito iniziò l’avanzata verso Gerusalemme potendo contare su un esercito al quale si era aggiunta una quarta legione, quella stessa XII Fulminata umiliata dai ribelli a Beth Horon. Nell’aprile del 70 d.C., si accampò nei pressi della città, difesa da imponenti fortificazioni e da circa 25.000 uomini distribuiti tra le varie fazioni, senza contare i possibili combattenti improvvisati: una volta trovato il punto debole della prima cinta muraria, grazie al consiglio di Flavio Giuseppe, Tito diede l’ordine di cominciare la costruzione di terrapieni dietro la copertura degli arcieri e delle macchine da guerra, terminati nonostante le sortite degli assediati; l’uso di torri e arieti permise infine di aprire una breccia nella prima cerchia muraria, all’interno della quale le truppe romane si accamparono, in vista dell’assalto alla seconda. I Giudei, travolti da lotte interne, provarono comunque a ritardare l’avanzata attraverso espedienti ed inganni, che sfruttavano l’ingenuità di Tito e la sua intenzione di concludere l’assedio nella maniera meno violenta possibile. Ciò non impedì però ai Romani di penetrare nel secondo cerchio di fortificazioni dopo appena venti giorni dall’inizio dell’attacco, pur avendo il loro comandante commesso alcune leggerezze nella valutazione dei possibili rischi (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, V, 317-330; Breccia, 2012; Brizzi, 2015).
Ormai gli assedianti erano giunti in prossimità della Torre Antonia, obiettivo fondamentale per poi passare all’assalto del Tempio: sebbene le capacità tecniche romane fossero nettamente superiori, i ribelli guidati da Giovanni di Giscala riuscirono a scavare al di sotto delle macchine di artiglieria delle gallerie che, una volta riempite di materiale combustibile e date alle fiamme, permisero di farle crollare e distruggerle (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, V, 469-472). Tutto questo, dopo aver rifiutato l’ennesimo tentativo diplomatico di Flavio Giuseppe ed aver cominciato ad utilizzare l’olio ed il vino conservati nel Tempio, in una sorta di auto sacralizzazione all’interno di una guerra percepita come santa. Perciò, vista l’intraprendenza dei Giudei che, nonostante tutto, in alcuni casi lo aveva costretto ad impegnarsi direttamente per evitare pericolosi sbandamenti delle sue truppe, Tito decise di far costruire un muro tutt’attorno alla città, così da farla cadere per fame: l’opera fu conclusa in soli tre giorni, non tardando a portare risultati (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, V, 491-509, 562-565; Breccia, 2012; Brizzi, 2015).
I Romani poterono trarre vantaggio, oltre che dalla maggiore sorveglianza e decisione nel difendersi dai ribelli (tanto da praticare crocifissioni intimidatorie a danno di chiunque di essi attraversasse le linee), dalla situazione venutasi a creare a Gerusalemme: la popolazione infatti, messa in ginocchio dalla fame, fu costretta a cercare cibo perfino nelle fognature, mentre aumentava il numero dei fuggitivi accolti nell’accampamento romano; allo stesso tempo, in città venivano giustiziati tutti coloro che erano accusati di diserzione e continuavano ad essere praticati i sacrifici rituali (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, V, 424-438, 446-451; Breccia, 2012; Brizzi, 2015). Preso successivamente anche il controllo dell’Antonia, Tito diresse le sue attenzioni verso il Tempio, diventato l’ultima roccaforte dei ribelli. Dopo alcuni scontri iniziali, il comandante convocò il consiglio di guerra per decidere il da farsi: se alcuni ritenevano fosse necessario distruggere l’edificio o incendiarlo, altri invece ne ipotizzavano l’evacuazione; secondo Giuseppe, infine Tito sarebbe stato propenso a risparmiare il Tempio, in particolar modo dalle fiamme (seppur privandosi di uno strumento molto efficace nei combattimenti urbani), ma l’attendibilità di queste intenzioni rimane controversa (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VI, 237-242; Leoni, 2000). Quando però i Giudei provarono una sortita disperata contro le truppe a presidio del piazzale esterno, vennero prima respinti e poi travolti dalla cavalleria romana: durante l’inseguimento dei nemici in ritirata, un soldato avrebbe lanciato una torcia che, passata attraverso una finestra, fece scoppiare un incendio all’interno dell’edificio. Nonostante i presunti tentativi di Tito di frenare la furia dei suoi uomini, essi si diedero al saccheggio e favorirono il propagarsi del fuoco, decretando così la distruzione del Tempio oltre che la morte di molti tra coloro i quali avevano pensato di rifugiarsi al suo interno; in diversi, compresi alcuni sacerdoti, riuscirono a fuggire lungo il muro esterno ma senza trovare la salvezza sperata, vuoi per l’arrivo delle fiamme, vuoi perché venne loro negata dal comandante, malgrado le suppliche (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VI, 244-266; Brizzi, 2015).
Saccheggiati i tesori e distrutta una parte della città, ai Romani non restava che eliminare i ribelli superstiti, tra i quali vi erano ancora due capi, Simone bar Giora e Giovanni di Giscala: questi ultimi, messi alle strette, chiesero di poter trattare la propria fuoriuscita da Gerusalemme, probabilmente per unirsi a quanti presidiavano le roccaforti nel deserto; Tito invece ne pretese la resa, ottenendo in cambio un netto rifiuto. A questo punto, ebbe inizio un’ultima disperata resistenza, conclusasi con la fuga nelle gallerie sotterranee, che però non impedì la cattura dei capi ribelli, successivamente condotti a Roma per sfilare durante il trionfo (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VI, 323-355; Brizzi, 2015). Per quanto riguarda la sorte dei loro uomini, essi furono in parte giustiziati ed in parte resi schiavi, come la maggioranza dei Giudei catturati non Gerosolimitani: pur non potendo ritenere attendibili i numeri forniti da Giuseppe (che parla di un milione e centomila morti), le vittime dell’assedio furono indubbiamente numerose (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VI, 420-421; Brizzi, 2015). Ad ogni modo, seppur presa Gerusalemme nel settembre del 70 d.C., la rivolta non si era ancora conclusa, ed ebbe fine solo nel 74 d.C. con la caduta della roccaforte di Masada (Breccia, 2012): in seguito, decadute le classi aristocratiche e sacerdotali, Vespasiano avrebbe riorganizzato la Giudea facendo in modo che fosse governata da un legato di rango pretorio piuttosto che equestre, oltre ad essere militarmente indipendente dalla Siria, lasciandovi stabilmente a presidiarla la X legione Fretensis. Diverse città, come Cesarea, subirono un cambiamento del proprio status, ed infine fu imposto a tutti i Giudei il pagamento di una tassa equivalente a due dracme, il Fiscus Judaicus (Brighton, 2016).
Una volta ritornato a Roma nel giugno del 71 d.C., a seguito di alcune manovre diplomatiche, Tito aveva celebrato il trionfo insieme al padre, nonostante il Senato ne avesse predisposti due separati. Durante il corteo, naturalmente, erano state messe in mostra le battaglie compiute tramite degli scenari mobili ampiamente dettagliati, insieme a numerose ricchezze, nelle quali spiccava soprattutto il bottino del Tempio di Gerusalemme: esso annoverava pezzi di grande pregio, tra cui una menorah (candelabro d’oro a sette braccia), una tavola dorata per la presentazione dei pani ed una copia della legge giudaica. Erano poi stati fatti sfilare anche i prigionieri, in particolare Simone bar Giora, giustiziato una volta giunta la processione presso il tempio di Giove Capitolino (Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, VII, 121-157; Brizzi, 2015; Murison, 2016). Una rappresentazione efficace di questo trionfo venne successivamente realizzata sull’Arco dedicato a Tito nel foro, probabilmente completato entro il 90 d.C. da parte del fratello Domiziano. Il monumento, in marmo pentelico, ancora oggi riporta in particolare due rilievi: nel primo, Tito è raffigurato su una quadriga guidata da una personificazione della Virtus, mentre viene inoltre incoronato da una Vittoria e accompagnato da altre figure divine, con una grande folla sullo sfondo; nel secondo, è visibile il passaggio del corteo dalla porta triumphalis con il trasporto degli arredi del Tempio di Gerusalemme, tra cui anche le trombe, uniti alle tavole recanti didascalie e i nomi delle città sconfitte. Queste rappresentazioni, tra l’altro, riescono a ricreare l’atmosfera trionfale fornendo una sensazione di movimento, grazie ad un uso efficace degli spazi e alla presenza di numerosi oggetti che si ergono al di sopra delle teste (Bianchi Bandinelli, Torelli, 2008; Tuck, 2016).

La riconquista della Giudea venne anche celebrata attraverso diverse coniazioni monetali, sia a Roma, sia nelle province. Quelle più note sono indubbiamente le emissioni in metalli nobili e bronzee di Vespasiano successive alla presa di Gerusalemme nel 70 d.C., recanti le legende IVDAEA e IVDAEA CAPTA: esse sono generalmente caratterizzate dal tipo al rovescio con una figura femminile piangente a personificare la provincia, associata ad un trofeo o ad una palma. Successivamente, sarebbero state introdotte alcune variazioni iconografiche, come la figura del prigioniero giudeo o di uno tra Vespasiano e Tito insieme ad alcune armi distribuite nel campo, diventando più complesse a partire dalle coniazioni autonome del secondo. Non avendo legami diretti con la dinastia Giulio-Claudia, queste emissioni vennero utilizzate dai Flavî anche per mostrare il decisivo ruolo pacificatore e militare svolto in Giudea da Tito, conferendo continuità e legittimità alla linea dinastica di Vespasiano (RIC II, n. 15-16, 93, 427; BMC Emp. II, n. 31-43, 631-632; Cappelletti, 2004; Barag, 1978).
In conclusione, la grande rivolta giudaica fu il risultato di tensioni accumulatesi nel corso del tempo, probabilmente più interne alla società della Giudea che non dirette verso i dominatori del momento. Era infatti evidente la spaccatura esistente tra élites urbane e abitanti delle campagne, da dove provenivano principalmente i moti di ribellione: le diverse fazioni, sfruttando il fanatismo religioso unito alle accese speranze escatologiche del periodo, si professavano rappresentanti delle istanze israelitiche contro i Romani, ma allo stesso tempo intendevano creare una contrapposizione con gli stessi ultimi sovrani locali, la cui incapacità di rispondere alle aspettative degli strati sociali più umili era alla radice di quanto sarebbe accaduto. Per quanto riguarda Roma, la brutale repressione della rivolta deve comunque essere considerata coerente con le strategie adottate fino a quel momento nei confronti dei popoli assoggettati, mostrando una severità direttamente proporzionale alla determinazione nella resistenza da parte degli sconfitti. Ad ogni modo, le difficoltà e le incomprensioni col mondo giudaico erano tutt’altro che risolte, come avrebbero dimostrato in seguito nuovi, violenti, scontri (Cairo, 2007; Foraboschi, Bussi, 2013; Brizzi, 2015).

Michele Gatto – Scacchiere Storico
Michele Gatto è uno studioso dell’antichità greca e romana, in particolare della Grecia in età classica e di Roma in età imperiale. È specializzato in Numismatica Antica. I suoi interessi arrivano a comprendere inoltre la storia bizantina.
Bibliografia
Barag D. 1978, The palestinian “Judaea capta” coins of Vespasian and Titus and the Era on the coins of Agrippa II minted under the Flavians, in “The Numismatic Chronicle” 138, pp. 14-23; Bianchi Bandinelli R., Torelli M. 2008, L’arte dell’antichità classica: Etruria – Roma, Novara; BMC Emp. II = H. Mattingly, Vespasian to Domitian, London, 1966; Breccia G. 2012, I figli di Marte. L’arte della guerra nell’antica Roma, Milano; Brighton M.A. 2016, Flavian Judaea, in A. Zissos (ed. by), A companion to the flavian age of imperial Rome, Chichester, pp. 239-254; Brizzi G. 2015, 70 d.C. La conquista di Gerusalemme, Roma – Bari; Cairo G. 2007, Il potere politico e religioso in terra di Palestina tra l’epoca di Cesare e la guerra giudaica, in “Pagani e Cristiani. Forme ed attestazioni di religiosità del mondo antico in Emilia” 6, pp. 201-212; Cappelletti S. 2004, La campagna giudaica nella monetazione di Vespasiano, in “Rivista Italiana di Numismatica e Scienze Affini” 55, pp. 69-92; Curran J. 2005, “The long esitation”: some reflections on the Romans in Judaea, in “Greece & Rome” 52, pp. 70-98; Firpo G. 1999, Le rivolte giudaiche, Roma; Foraboschi D., Bussi S. 2013, Integrazione e alterità: incontri/scontri di culture nel mondo antico, Milano; Goodman M. 2009, Roma e Gerusalemme: lo scontro delle civiltà antiche, Roma – Bari; Jones J.W. 1989, Titus in Judaea, A.D. 67, in “Latomus” 48, pp. 127-134; Lanfranchi P. 2000, Flavio Giuseppe personaggio della “Guerra giudaica”, in “ACME – Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano” 53, II, pp. 125-162; Leoni T. 2000, Tito e l’incendio del Tempio di Gerusalemme: repressione o clemenza disubbidita?, in “Ostraka” 2, pp. 455-470; Murison C.L. 2016, The emperor Titus, in A. Zissos (ed. by), A companion to the flavian age of imperial Rome, Chichester, pp. 76-91; Ravallese M. 2021, Verità e apologia nella Guerra giudaica di Flavio Giuseppe, in “SemRom: Seminari romani di cultura greca” 10, pp. 173-202; RIC II = H. Mattingly, E.A. Sydenham, Vespasian to Hadrian, London, 1926; Tuck S.L. 2016, Imperial image-making, in A. Zissos (ed. by), A companion to the flavian age of imperial Rome, Chichester, pp. 109-128.
Immagine di copertina: La distruzione del Tempio di Gerusalemme, F. Hayez, 1867. Gallerie dell’Accademia di Venezia (fonte: autore, Didier Descouens; licenza, CC BY-SA 4.0)
Scarica l’articolo in formato PDF:
