IL GRANDE INCENDIO DI LONDRA

Dipinto del grande incendio

di Nicoletta Iannuzzi

Nella notte del 2 settembre 1666 Londra fu teatro di uno degli eventi più devastanti e straordinari della sua storia: The Great Fire, il Grande Incendio. Quella che sembrava essere una notte tranquilla, si trasformò alle prime luci dell’alba in un incubo infernale che si protrasse per ben quattro giorni, cambiando per sempre il volto della capitale britannica.

Gran parte della City andò in fiamme, le abitazioni e i monumenti all’interno delle antiche mura romane bruciarono per poi crollare su se stessi e in alcuni punti le fiamme oltrepassarono le imponenti mura; i danni furono incalcolabili in una città già fortemente provata da una lunga epidemia di peste.

1. Londra nel 1666: nel cuore della crisi

Il Grande Incendio di Londra fu senza dubbio un’immane tragedia umanitaria e sociale. Nei primi giorni di settembre la città era completamente avvolta dalle fiamme; il danno fu tale da devastare gran parte della City, già funestata da una epidemia di peste che si era abbattuta sull’intera nazione e su Londra, in particolar modo, a partire dall’anno precedente. L’incendio trasformò in senzatetto un incalcolabile numero di abitanti e fece precipitare l’economia nazionale, ma non si trattò comunque di un evento isolato, perché molti accadimenti che scossero l’Inghilterra e la Londra del XVII secolo ne furono all’origine o furono da esso influenzati.

Sebbene sia difficile stabilirlo con certezza, è probabile che Londra all’epoca fosse già la città più grande del continente; la sua pluriennale vivacità economica l’aveva portata ad essere sproporzionatamente vasta e densamente popolata, infatti circa un terzo dell’intera popolazione inglese viveva nella capitale, rendendola “una Testa troppo grande per il Corpo” così come riporta una fonte dell’epoca (Jordan, 2017). 

Incisione di Londra prima dell'incendio
Incisione raffigurante una vista di Londra prima del terribile incendio del 1666, ad opera di un artista anonimo. Yale Center for British Art (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Nel 1666, l’anno del Grande Incendio, circa 400.000 persone vivevano a Londra. Il centro storico della metropoli era rappresentato dalla vecchia City, l’area inglobata nelle antiche mura romane e dalle parrocchie civili che le circondavano. In linea di massima, Londra aveva conservato l’antica struttura medievale, con case e botteghe ammassate a ridosso di stretti vicoli e stradine.  Al di fuori della City si estendevano i sobborghi e le numerose periferie londinesi (Field, 2017). Nel 1666 la popolazione della capitale stava ormai aumentando incessantemente da circa un secolo e la maggior parte dei nuovi migranti tendeva a riversarsi nelle periferie o lungo il Tamigi, vivendo in case sudicie o comunque densamente abitate, generalmente lontano dagli sfarzi e dalla più diffusa agiatezza della City.

La situazione politica nel corso degli anni ‘60 del 1600 risultava altrettanto precaria. Il governo del re Carlo II Stuart – ristabilito sul trono dopo la breve e sanguinosa parentesi del Commonwealth di Oliver Cromwell –  si trovava ad affrontare diverse questioni sociali e politiche tra cui l’eredità della guerra civile inglese, il dissenso religioso, le inadeguate fonti di entrate governative e la guerra con la Repubblica Olandese. Il Grande Incendio di Londra contribuì ad esacerbare le tensioni esistenti e a prosciugare le risorse del governo per gestirne le conseguenze. Di fatto, l’incendio non solo devastò la città di Londra ma si rivelò anche dannoso per il regno di Carlo II e aumentò l’instabilità in tutta l’Inghilterra (Jordan, 2017; Field, 2017). 

A complicare ulteriormente la fragile e precaria situazione socio-politica della città di Londra, in quegli anni si era abbattuta una drammatica epidemia di peste bubbonica la quale è passata alla storia con il nome di “Great Plague”, condividendo con l’incendio di Londra di cui è coeva l’infausto aggettivo “Great”, grande, a sottolineare la portata straordinariamente vasta- e drammatica- dei due eventi. I primissimi casi di peste si ebbero nella primavera del 1665 in una parrocchia immediatamente al di fuori delle mura di Londra, St Giles-in-the-Fields. Il tasso di mortalità crebbe in maniera spropositata nei caldissimi mesi estivi ed ebbe il suo picco nel mese di settembre, quando in una sola settimana morirono 7.165 londinesi contagiati.

Coloro che poterono, compresi la maggior parte dei medici, avvocati e mercanti, fuggirono dalla città. Carlo II e la sua corte partirono in luglio per Hampton Court e poi per Oxford. Per i poveri fuggire da Londra era più difficile e le condizioni anguste in cui molti vivevano incoraggiarono la diffusione della malattia. Secondo le stime ufficiali, la ‘Grande Peste’ uccise 68.595 persone solo in quell’anno. La vera cifra è probabilmente più vicina ai 100.000 o comunque circa un quinto della popolazione della città. All’inizio del 1666 comunque il numero di persone morte di peste era in diminuzione e l’epidemia giunse quasi alla conclusione nell’estate di quello stesso anno (https://www.rmg.co.uk/stories/topics/great-plague).   

2. 2 settembre 1666: la genesi di un disastro 

Il fuoco divampò durante le prime ore di domenica 2 settembre 1666 settembre secondo il calendario Gregoriano (12 settembre secondo il calendario Giuliano), in una panetteria di proprietà di Thomas Farriner, al servizio di Re Carlo II, nella zona orientale di Pudding Lane, stradina angusta della vecchia City di Londra nei pressi del Tamigi.

Nonostante le teorie complottiste nate intorno allo scoppio dell’incendio, gli storici sono generalmente concordi nel ritenere che si trattò di un banale incidente: è probabile che una scintilla del forno mal spento di Farriner abbia trovato nuova vita tra le fascine accatastate nelle vicinanze e che questo sia bastato a generare il successivo indomabile incendio. In poche ore, il fuoco si propagò, favorito da un’estate eccezionalmente secca e da un vento orientale che soffiava implacabile. La City, sovraffollata e le cui case erano costruite in legno e molto vicine tra loro, essendo estremamente vulnerabile in breve tempo fu avvolta dalle fiamme (Field, 2017).

La casa di Farriner fu inizialmente invasa dal fumo mentre i suoi abitanti, non riuscendo a raggiungere la porta d’ingresso, scapparono da una finestra del solaio. La cameriera di Farriner fu apparentemente riluttante a seguire la famiglia per cui fu lasciata indietro divenendo la prima vittima dell’incendio. Le fiamme raggiunsero successivamente il cortile dell’abitazione dove si trovava accumulata la legna per il fuoco. In questi primi convulsi momenti, non c’era nulla che distinguesse questo incendio dagli innumerevoli altri che si verificavano a Londra regolarmente (Field, 2017).

Se la diffusione iniziale fu lenta, tuttavia le fiamme si propagarono inesorabilmente lungo Padding Lane, fino alla vicina Fish Street Hill: il primo grande edificio ad essere distrutto fu lo Star Inn. La città fu quindi gradualmente investita dalla forza delle fiamme e per diverse ragioni risultò essere una vera e propria polveriera per l’espansione dell’incendio che inesorabilmente sventrò la City, partendo da Padding Lane ed allargandosi a raggiera nei quartieri circostanti. 

Incisione del grande incendio di Londra
Incisione con una vista generale di Londra durante il Grande Incendio del 1666. Yale Center for British Art (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Come detto in precedenza, la conformazione delle strade e delle abitazioni di Londra non fece altro che agevolare la diffusione del fuoco: costruire con legno e tetti di paglia era stato proibito per secoli, ma questi materiali economici continuavano ad essere utilizzati; le tipiche case londinesi dell’epoca si sviluppavano generalmente in verticale piuttosto che in orizzontale, così da massimizzare la capienza sfruttando lotti di terreno modesti e nei piani superiori si aprivano i cosiddetti “Jetties”, piani sporgenti. Un proclama di Carlo II del 1661 aveva proibito la costruzione di tali strutture ma esso era stato ampiamente ignorato. Trattandosi di un’epoca antecedente all’introduzione dell’energia elettrica, era inoltre comune trovare camini aperti, candele ed ogni genere di rischio correlato agli incendi. La città di Londra ospitava numerose fonderie, botteghe dei fabbri e vetrai – tutte professioni che comportavano rischi enormi e a cui era stato vietato di operare nelle zone densamente popolate. Ma ancora una volta, le regole erano state ampiamente ignorate. I privati ​​cittadini avevano inoltre riserve di polvere da sparo, un’eredità della guerra civile inglese. Si stima che la Torre di Londra contenesse circa cinquecento o seicento tonnellate di polvere. 

La City inoltre non disponeva di un corpo dei vigili del fuoco adeguato per contrastare un incendio di tale portata. All’epoca le misure di contrasto ai numerosi incendi che scoppiavano in città coinvolgevano un migliaio di cittadini volontari, anche detti “bellmen”, i quali pattugliavano le strade durante la notte e si precipitavano sui luoghi degli incendi richiamati dai rintocchi delle campane parrocchiali. I metodi maggiormente utilizzati per domare gli incendi includevano l’utilizzo dell’acqua e di lunghe aste con dei ganci sulle estremità, utilizzate per demolire gli edifici adiacenti a quelli in fiamme. Ciò era pensato per contenere il fuoco rimuovendo il materiale che poteva essere a sua volta bruciato. Ad ogni modo questa procedura sottintendeva una questione piuttosto spinosa: si trattava di demolire proprietà private e le autorità ricevevano enormi pressioni affinché ciò fosse evitato. Così, anche nella notte del 2 settembre 1666, fu necessario l’intervento del sindaco di Londra, Thomas Bloodworth, chiamato a fornire il permesso per procedere. 

Quando Bloodworth arrivò nel quartiere intorno alle 3:00 del mattino, informato dell’emergenza in corso, non prese provvedimenti opportuni per contenere le fiamme, probabilmente per paura delle rimostranze dei proprietari delle abitazioni coinvolte. Al contrario, minimizzò la faccenda e tornò a casa a dormire: in quel frangente il Lord Mayor si assicurò comunque un posto nei libri di storia esclamando che il fuoco fosse così debole che «a woman could piss it out» (Field, 2017). 

Le cause dell’incendio non furono, come detto, mai completamente chiarite: certamente, la mancanza di mezzi per il controllo del fuoco, la difficoltà nel mettere in campo un sistema di protezione antincendio, la mancanza di un corpo organizzato dei vigili del fuoco e la conformazione stessa della City contribuirono a far sì che questo avvenimento, piuttosto comune per l’epoca, si trasformasse in una tragedia in quella fatidica notte di settembre. 

3. Voci dall’inferno 

L’alba di domenica 2 settembre trovò una città avvolta dal fumo e dalle fiamme e nei successivi quattro giorni lo scenario continuò a peggiorare. 

Ricostruzione dell'incendio
Ricostruzione grafica della diffusione delle fiamme tra la domenica e il mercoledì (fonte: autore, Bunchofgrapes; licenza CC BY 3.0)

Un resoconto dettagliato del Grande Incendio di Londra ci è stato fornito da Samuel Pepys, scrittore e politico inglese, noto funzionario dell’epoca, famoso soprattutto per il suo diario in cui ha registrato con grande zelo e precisione gli eventi più significativi del suo periodo. Il diarista Pepys salì sulla Torre di Londra la mattina di domenica per osservare l’incendio e scrisse che il vento orientale lo aveva trasformato in un inferno. L’incendio aveva già distrutto circa 300 case e stava arrivando al lungofiume. Mentre quelle sul London Bridge stavano bruciando, Pepys, a bordo di una barca, osservò le persone che cercavano di mettersi in salvo, gettando i loro beni nel fiume o caricandoli su barche. Raccontò di aver informato il re Carlo II della gravità della situazione, suggerendo che solo con l’abbattimento delle case si sarebbe potuto fermare l’incendio. Il re, ragguagliato intorno alle 11:00 del mattino, ordinò che le case venissero abbattute e il duca di York, fratello del sovrano, offrì l’aiuto della Guardia Reale (Pepys, 1666).

Ritratto di Samuel Pepys
Ritratto di Samuel Pepys, J. Hayls, 1666. National Portrait Gallery, Londra (Fonte: Wikimedia, licenza CC0)

L’incendio si diffuse rapidamente a causa del forte vento e, nel primo pomeriggio, i cittadini abbandonarono ogni tentativo di spegnere le fiamme, fuggendo dal pericolo. Le strade erano ingombre di persone che fuggivano e i pompieri non riuscivano a passare. Pepys tornò a piedi verso la città e trovò Bloodworth che, esausto e vicino al crollo, stava cercando di coordinare i soccorsi il quale rifiutò una sua ulteriore offerta di aiuto e tornò a casa. Nel frattempo, il re Carlo II, arrivato sul luogo, prese il controllo della situazione e ordinò la demolizione delle case senza interpellare più il sindaco. Nel pomeriggio, l’incendio divenne una vera e propria tempesta di fuoco, con un effetto “camino” che alimentava le fiamme e spingeva il fuoco verso il centro della città. Entro la sera di domenica, aveva già causato danni devastanti, estendendosi per 500 metri lungo il fiume.

Il giornale ufficiale che documentò l’evento fu la London Gazette e la prima pagina di lunedì 3 settembre riportò un drammatico resoconto di quelle prime convulse giornate. Durante la giornata di lunedì, l’incendio si diresse verso ovest e nord. A sud, il fiume lo rallentò, ma le case sul London Bridge furono distrutte e si temeva che il fuoco potesse attraversare il ponte e minacciare il quartiere di Southwark. Tuttavia, una porzione libera tra gli edifici del ponte agì da barriera contro le fiamme, proteggendo l’area.

Il fuoco si estese come detto a nord, colpendo il cuore finanziario della città. Le case dei banchieri di Lombard Street iniziarono a bruciare nel pomeriggio, spingendo alla corsa per salvare le monete d’oro prima che fondessero. Molti osservatori sottolinearono la disperazione e l’impotenza che sembrarono prendere gli abitanti di Londra in quel secondo giorno di incendio. Le zone più ricche, come la Royal Exchange e le lussuose botteghe di Cheapside, furono anch’esse minacciate dalle fiamme. La Royal Exchange andò infine distrutta nel tardo pomeriggio (Field, 2017).

Oltre allo scrittore Samuel Pepys, un resoconto dettagliato dei fatti di quei giorni proviene dal diario dello scrittore e funzionario governativo John Evelyn. Egli osservò la distruzione da Southwark, oltre il London Bridge, e descrisse il paesaggio di un’enorme città in fiamme. Nei suoi racconti, il fiume Tamigi era pieno di barche che cercavano di fuggire con numerosi carichi ed un gran numero di persone e carri che cercavano rifugio nei campi circostanti. Evelyn descrisse la scena come un “spettacolo miserabile e calamitoso” e paragonò la città di Londra alla mitica Troia in fiamme: «Thus, I left it this afternoon burning, a resemblance of Sodom, or the last day. It forcibly called to my mind that passage — “non enim hic habemus stabilem civitatem”; the ruins resembling the picture of Troy» (https://www.nationalarchives.gov.uk/education/resources/great-fire-of-london-examine-the-evidence/extracts-from-john-evelyns-diary/).

Nel frattempo, si diffuse la paura che l’incendio non fosse accidentale. Le voci di un attacco doloso si fecero strada, alimentate dalla situazione di guerra con i Paesi Bassi e le tensioni religiose. La paranoia aumentò quando l’ufficio postale centrale fu distrutto e la stampa della London Gazette fu interrotta. Le forze di sicurezza iniziarono a concentrarsi maggiormente sugli arresti di stranieri sospetti piuttosto che sul combattere il fuoco.

I cittadini, soprattutto i più abbienti, cercavano disperatamente di salvare i propri beni portandoli lontano dalla città. Questo creò opportunità per i poveri, che divennero trasportatori a pagamento, ma anche per chi affittava carretti e barche. I prezzi per il trasporto salirono vertiginosamente, raggiungendo cifre esorbitanti. Le strade erano in preda al caos, con le porte della città chiuse temporaneamente per cercare di fermare l’afflusso di persone e spingerle a concentrarsi sul combattere il fuoco invece che sul salvare i propri beni. Nel tardo pomeriggio l’azione organizzata iniziò a prendere piede ma il caos non cessava. Il sindaco, Lord Mayor Bloodworth, era assente e fu Giacomo Stuart, il fratello del re Carlo II e Duca di York, a prendere il comando definitivo. Il Duca cercò di mantenere l’ordine, anche salvando gli stranieri dalle mani della folla. Tuttavia, le speranze di fermare il fuoco vennero infrante quando anche la fortezza storica di Baynard’s Castle, controparte occidentale alla Torre di Londra, fu consumata dalle fiamme e bruciò per tutta la notte (Field, 2017).

Martedì 4 settembre fu il giorno più drammatico, il comando del Duca di York, situato presso Temple Bar, doveva fermare l’avanzata dell’incendio verso ovest, verso il Palazzo di Whitehall. Si sperava che il fiume Fleet potesse fungere da barriera naturale contro il fuoco, e che i pompieri avrebbero resistito a partire dal Fleet Bridge fino al Tamigi. Tuttavia, nelle prime ore del martedì, le fiamme superarono il Fleet e aggirarono la resistenza, spinte dal forte vento orientale, costringendo i pompieri a ritirarsi. 

A metà mattina l’incendio aveva raggiunto la vivace strada commerciale di Cheapside. I pompieri del Duca crearono una larga barriera contro il fuoco a nord del rogo, sebbene questa fu presto superata in più punti. Durante la giornata, le fiamme iniziarono a muoversi verso est dal quartiere di Pudding Lane, contro il vento prevalente, dirette verso la Torre di Londra che custodiva grosse riserve di polveri da sparo. La guarnigione della Torre prese l’iniziativa, dopo aver aspettato tutto il giorno invano gli aiuto dai pompieri ufficiali di James impegnati a ovest: vennero cos’ create delle barriere distruggendo case su larga scala nei dintorni, fermando così l’avanzata del fuoco (Field, 2017).

Disegno di St Paul in fiamme
Illustrazione dell’antica Cattedrale di St Paul in fiamme. Wenceslaus Hollar, XVII secolo (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Si pensava che la storica Cattedrale di Saint Paul fosse un rifugio sicuro, grazie alle sue spesse mura di pietra e alla piazza vuota che la circondava, la quale poteva fungere da barriera naturale. La cattedrale fu riempita di beni salvati e la sua cripta era stata considerata una sorta di cassaforte per le scorte di stampatori e librai della vicina Paternoster Row. Tuttavia, l’edificio era ricoperto da ponteggi in legno per lavori di restauro diretti da Christopher Wren e voluti da Carlo I. Essi presero fuoco intorno alle 20:00 di martedì. In mezz’ora, il tetto di piombo cominciò a fondersi e i libri e i documenti nella cripta bruciavano. La cattedrale divenne rapidamente una rovina. 

Nonostante il vento si fosse calmato durante la notte, la mattina di mercoledì 5 settembre la gente continuava a temere che i sobborghi venissero distrutti e si preparava a fuggire verso contee e villaggi vicini. Un gran numero di persone si radunò nei campi di Islington, ma lì non c’erano forze dell’ordine che gestissero la situazione di crisi. Quel giorno Carlo II ordinò che si tenessero sotto stretto controllo i rifugiati, ma anche che questi venissero accolti “in modo caritatevole e cristiano”, fornendo loro alloggio e cibo. Proclamò inoltre che il pane sarebbe stato fornito alle persone rimaste senza casa. Tutte le chiese, le cappelle, le scuole e gli edifici pubblici dovevano essere aperti per immagazzinare i beni salvati dalle fiamme e altre città furono invitate ad accogliere i rifugiati da Londra e sollecitate a permettere loro anche di esercitare i propri mestieri durante la crisi.

Gli sforzi per combattere l’incendio guidati dal Duca di York continuarono con l’uso della polvere da sparo per creare più rapidamente le barriere anti-incendio. Inoltre, con il vento che si era notevolmente calmato, l’incendio smise di diffondersi e cominciò a spegnersi in alcune zone. Tuttavia, persistevano ancora dei pericoli. Le fiamme infuriavano attorno a Cripplegate, minacciando la zona a nord delle mura. Bloodworth, con l’aiuto personale di Carlo II e del Duca di York, supervisionò la demolizione delle case nell’area, impedendo così che le fiamme si propagassero. L’ultimo scoppio di attività del fuoco avvenne quella sera attorno agli Inns of Court, dove le fiamme minacciavano l’Inner Temple. Ancora una volta, il Duca di York si distinse per essersi precipitato sul posto e aver impedito che l’incendio prendesse piede. Entro la notte di mercoledì, il Grande Incendio si era praticamente spento (Pepys, 1666).

Dipinto dell'incendio di St Paul e Ludgate
The Great Fire of London, with Ludgate and Old St Paul’s, dipinto anonimo del 1670 circa. Yale Center for British Art (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

4. La conta dei danni e la ricostruzione

Il bilancio materiale della distruzione fu inestimabile. Oltre alla Vecchia Cattedrale di St. Paul, 84 chiese parrocchiali erano andate distrutte ed almeno altre 3 gravemente danneggiate. Quarantaquattro delle cinquantuno sedi delle Corporazioni presenti nella City erano crollate, così come la Royal Exchange, la Custom House, il Palazzo di Bridewell e altre prigioni della città, l’Ufficio Generale delle Poste e le tre porte principali – Ludgate, Newgate e Aldersgate. Il valore monetario delle perdite è stato stimato intorno ai 9-10 milioni di sterline (equivalenti a 2,13 miliardi di sterline nel 2023). Più preoccupante era il bilancio del crollo delle abitazioni: si stima siano state circa 13.200, il che presupponeva un numero non quantificabile di sfollati. 

Per quanto gravissimo, il bilancio della catastrofe sarebbe potuto essere ben peggiore. Se il fuoco avesse oltrepassato l’area della City e avesse raggiunto i sobborghi della città, Londra sarebbe stata spogliata di un numero ancora più grande di abitazioni e quindi ancora più persone avrebbero perso i propri alloggi. Un colpo di fortuna nei giorni dell’incendio fu la diffusione piuttosto lenta delle fiamme, che diede la possibilità ai cittadini di mettersi in salvo: se il fuoco si fosse espanso con maggiore velocità, il bilancio delle vittime sarebbe stato catastrofico; si pensi che nei due Grandi Incendi coevi a quello Londinese, l’incendio di Edo nel 1657 e di Costantinopoli nel 1660, morirono rispettivamente 85.000 e 40.000 persone (Field, 2017).

È difficile stabilire quante persone persero la vita nel Grande Incendio di Londra. L’attuale bilancio di sei vittime potrebbe essere ben più alto. Alcuni storici suggeriscono sia possibile che centinaia di persone abbiano perso la vita e che i loro corpi non siano mai stati trovati perché intrappolati nelle fiamme e ridotti in cenere. Nei registri delle vittime alcuni inseriscono anche quelle non derivate direttamente dall’incendio: migliaia di persone rimasero senza casa e molte di esse, tra cui soprattutto bambini e anziani, morirono a causa della povertà e dell’esposizione al freddo nel gelido inverno che seguì quel settembre; fu il caso ad esempio del drammaturgo James Shirley e di sua moglie, i quali morirono di freddo e privazioni il 29 ottobre (Field, 2017). 

Terminato l’incendio, come detto, la questione principale e più urgente era provvedere alle migliaia di sfollati. Non è semplice stabilire quante persone abbiano effettivamente perso la propria dimora, ma considerando che circa 400.000 persone vivevano nella City al momento dell’incendio, è lecito pensare che almeno in 100.000 fossero homeless all’alba del 6 settembre. Persone di ogni età e status sociale avevano perso ogni bene: nelle parole di Francisco De Rapicani, il quale si trovava a Londra al seguito del conte Jöran Fleming e di Peter Julius Coyet, Ambasciatori Straordinari del re di Svezia durante il Grande Incendio, «C’era grande angoscia tra la gente e innumerevoli poveri che in passato erano stati ricchi e ben sistemati, con nulla tranne un bastone in mano, erano sparsi qua e là nei campi dove avevano costruito capanne per sé» (Field, 2017).

Subito dopo, si diffuse una teoria secondo cui l’incendio fosse il risultato di un complotto cattolico contro la città e la sua monarchia protestante. Questo tipo di speculazioni alimentò l’ansia e le tensioni sociali, mentre la popolazione cercava disperatamente un colpevole. Un orologiaio francese, Robert “Lucky” Hubert, che sembrava instabile mentalmente, si fece avanti e confessò di essere stato l’autore del rogo. Inizialmente disse di averlo innescato a Westminster ma successivamente cambiò versione, affermando che fosse avvenuto nel forno di Pudding Lane. Nonostante le evidenti prove della sua innocenza, Hubert venne condannato e giustiziato a Tyburn il 28 settembre.

Nel frattempo, Londra affrontava la sfida colossale della ricostruzione. Per organizzare i lavori, vennero create due commissioni: una nominata dal re, comprendente anche l’acclamato architetto Christopher Wren e l’altra dalle autorità cittadine, con Robert Hooke. Entrambi, grazie alla loro esperienza e competenza, furono determinanti nel processo di ricostruzione della città. Il piano iniziale prevedeva una ricostruzione in mattoni e pietra, con una pianta a griglia e ampi viali e piazze nello stile nord-europeo. Tuttavia, le fondamenta di molti edifici sopravvissuti e le difficoltà legate alle dispute sulla proprietà dei terreni portarono all’abbandono di questo progetto. Nel 1667, il Parlamento iniziò a raccogliere fondi attraverso una tassa sul carbone, e la città fu ricostruita mantenendo in gran parte il piano stradale esistente, ma con materiali più sicuri, come mattoni e pietra, e miglioramenti ai sistemi di drenaggio e viabilità. Pur conservando l’impianto medievale delle strade, la ricostruzione conferì a Londra un aspetto decisamente più moderno. Wren e Hooke si occuparono anche della riedificazione della Cattedrale di St Paul, il cui completamento avvenne 11 anni dopo l’incendio, divenendo un simbolo di speranza e rinascita per la città (https://www.bbc.co.uk/bitesize/articles/z7j6s82#znhvcxs) .

Un importante simbolo della tragedia e della ricostruzione di Londra è il Monumento al Grande Incendio di Londra (The Monument), voluto dal re Carlo II e progettato da Wren e Hooke. The Monument, come venne chiamato, è alto 61 metri (202 piedi) – la distanza esatta tra esso e il sito di Pudding Lane dove ebbe inizio l’incendio.  Inaugurato nel 1677, si erge nel quartiere di Fish Street Hill, nei pressi di Pudding Lane. Questa colonna dorica, alta 61 metri è sormontata da un tamburo e da un’urna di rame da cui uscivano fiamme, simboleggiando il Grande Incendio. In passato il sito è stato utilizzato per esperimenti scientifici della Royal Society, oggi invece non ha più un uso pratico ma mantiene il compito eterno di ricordare ai posteri la capacità di Londra di risorgere dalle proprie ceneri. I visitatori salendo fino alla cima, possono godere di una vista unica sulla città e riflettere sulla tragica distruzione e la successiva rinascita della capitale (https://www.themonument.org.uk).

Stampa sul monumento all'incendio
The Monument of London in Remembrance of the Dreadful Fire in 1666, stampa a colori di T. Bowles, 1752. Yale Center for British Art (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Un altro monumento, il “Golden Boy of Pye Corner” a Smithfield, segna il punto in cui il fuoco si fermò.  Inoltre, dopo l’incendio, furono create nuove strade come Queen Street e King Street, che tagliavano attraverso vie più antiche e collegavano il Tamigi al Guildhall, rappresentando le uniche nuove vie significative dopo la distruzione della città.Nel corso dei secoli, i londinesi non hanno mai dimenticato quanto accaduto alla loro città nel 1666. Nel 2016, ad esempio, per celebrare i 350 anni dal Grande Incendio, hanno avuto luogo una serie di eventi straordinari per commemorarlo. Tra questi, la performance artistica London’s Burning, che ricreava simbolicamente l’incendio, mentre, diverse mostre storiche ospitate in luoghi come il Museum of London e la National Gallery hanno meravigliato il mondo contribuendo a diffondere la storia della città. Queste commemorazioni non solo ricordarono l’impatto devastante dell’incendio, ma celebrarono anche la resilienza e la capacità di Londra di superare una delle crisi più gravi della sua storia avviandosi ad assumere l’aspetto della città cosmopolita e moderna che conosciamo.

Nicoletta Iannuzzi – Scacchiere Storico

Nicoletta Iannuzzi è laureata in Letterature Comparate all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Si interessa in particolare di storia e letteratura inglese dalle origini all’Età Moderna.

Bibliografia

Jordan, D., The King’s City: London Under Charles II: A City that Transformed a Nation – and Created Modern Britain, Little, Brown Book Group, Regno Unito, 2017; Field, J. F., London, Londoners and the Great Fire of 1666: Disaster and Recovery, Taylor & Francis, Regno Unito, 2017; Little B., When London Faced a Pandemic- And a Devastating Fire, 5 ottobre 2023, all’URL: https://www.history.com/news/plague-pandemic-great-fire (consultato il 13/03/2025); Pepys S., The Diary of Samuel Pepys, London, George Bell & Sons, Londra 1666-1703; Porter, S., The Great Fire of London, History Press, Regno Unito, 2011.

Sitografia

https://www.nationalarchives.gov.uk/education/resources/great-fire-of-london-examine-the-evidence/extracts-from-john-evelyns-diary/ (Consultato il 05/03/2025);  https://www.london-fire.gov.uk/museum/history-and-stories/the-great-fire-of-london/ (Consultato il 09/03/2025); https://www.bbc.co.uk/bitesize/articles/z7j6s82#znhvcxs (Consultato il 09/03/2025); https://www.britannica.com/event/Great-Fire-of-London (Consultato il 05/03/2025); https://www.themonument.org.uk/great-fire-london-faqs#:~:text=It%20didn’t%20stop%20the,the%20plague%20after%20the%201666; (Consultato il 16/03/2025);  https://www.rmg.co.uk/stories/topics/great-plague#:~:text=Bubonic%20plague%20terrorised%20Europe%20for,fifth%20of%20the%20city’s%20population (Consultato il 10/03/2025); https://theclassicjournal.uga.edu/index.php/2020/04/21/the-social-and-political-consequences-of-the-great-fire-of-london/ (Consultato il 16/03/2025). 

Immagine di copertina: The Great Fire of London, dipinto a olio di Josepha Jane Battlehooke, 1675. London Museum (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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