MAMMA MIA DAMMI CENTO LIRE CHE IN AMERICA VOGLIO ANDAR: STORIA DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA NEL XIX SECOLO

Dipinto sugli immigrati di Raffaello Gambogi

di Federica Fornasiero

«Negli anni che vanno dal 1876, anno del

censimento ufficiale dell’emigrazione italiana

alla fine della Seconda guerra mondiale,

milioni di persone si accalcarono sulle banchine

dei tre principali porti italiani, Genova, Napoli e Palermo,

diretti verso il nuovo mondo alla ricerca di un futuro migliore.»

(Martini, Cecchet, 2005)

Introduzione

L’emigrazione italiana del XIX secolo rappresentò un fenomeno multiforme e complesso di grande rilevanza storica e sociale, che si inserisce sia nel quadro nazionale, sia in quello internazionale. La Grande Emigrazione – prima fase degli spostamenti degli italiani oltreoceano, soprattutto verso le Americhe, Argentina, Brasile e USA in primis – fu causata principalmente da fenomeni socioeconomici e coinvolse dapprima l’Italia Nordoccidentale, poi il Veneto e il Mezzogiorno a partire dall’Unità d’Italia fino al 1900. A seguire si possono individuare altre fasi migratorie: il periodo compreso tra il 1900 fino alla Grande Guerra; quello tra le due guerre mondiali e del fascismo; quello dal Secondo dopo guerra agli anni Sessanta e Settanta (la cosiddetta Migrazione Europea); infine quello dei recenti spostamenti. Quali furono quindi le cause della Grande Emigrazione? All’Unità d’Italia, la situazione della popolazione italiana era critica, caratterizzata soprattutto da analfabetismo, povertà, bassa aspettativa di vita e basso potere d’acquisto, nonché grande disparità di reddito sia a livello cetuale, sia a livello geografico, bassa specializzazione lavorativa e mancanza di terre coltivabili, soprattutto al Sud. Si passò da una migrazione per lo più stagionale e temporanea a un’emigrazione di massa sia provvisoria, sia definitiva con spinte transoceaniche. Inoltre, tra la metà dell’Ottocento fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, le possibilità di grandi spostamenti iniziarono ad essere tangibili; se da una parte vi era una popolazione disposta a grandi e faticosi spostamenti per trovare sbocchi lavorativi, dall’altra vi era grande richiesta di manodopera e i mezzi per trasportarla oltreoceano. La rivoluzione industriale e il miglioramento dei trasporti, la crescita economica, ma anche politiche che favorirono le emigrazioni furono i motori degli spostamenti in tutta Europa, dapprima dal Nord fino a coinvolgere i paesi europei meridionali. Tutto ciò portò anche gli italiani a emigrare verso le Americhe, con la speranza di un miglioramento delle proprie condizioni socioeconomiche, senza però tranciare del tutto il cordone ombelicale con la madrepatria, dove spesso continuavano a permanere i legami affettivo-famigliari o culturali, anche perché spesso l’idea iniziale era quella di partire, “fare fortuna” e tornare in patria (Carbone, Da Moline, 2016; Falleni, Guerrini, 2011; Idos, 2018; Martini, Cecchet, 2005; Pugliese, Vitiello, 2024).

  1. La Grande Emigrazione, 1861-1900

«L’esodo comincia a Nord perché quella parte d’Italia è già collegata con i porti delle Americhe: piemontesi e liguri seguiti poi da lombardi, veneti e friulani. E Genova è il porto italiano a gestire per quasi un secolo la mole più consistente del traffico di emigrazione. Nel periodo che va dal 1833 al 1850 sono già circa 14.000 gli emigranti che partono da Genova per le Americhe e dal 1876 al 1901 in quel porto si imbarca il 61% dell’emigrazione transoceanica italiana.» (Martini, Cecchet, 2005)

Emigranti italiani in Colombia
Italiani in arrivo in Colombia (fonte: autore, Francesco Mazzo; licenza, CC BY-SA 4.0)

A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo, a seguito dell’Unità d’Italia, un sempre maggior numero di italiani iniziò a emigrare verso nuove direttrici, tanto da poter parlare a questo punto di vere e proprie migrazioni di massa, spesso definitive e ad ampio raggio. A causare la prima fase dell’esodo italiano furono principalmente le condizioni socioeconomiche della Penisola, nonché politiche e sociali, ma anche cambiamenti sostanziali nei paesi che ricevettero il maggior numero di migranti, ad esempio i processi di industrializzazione e politiche di accoglienza di manodopera non specializzata a basso costo, il miglioramento e la maggiore accessibilità delle tratte transoceaniche. D’altra parte, invece, l’Italia postunitaria era caratterizzata da una diffusa povertà, che esasperava fenomeni socioculturali importanti, e le criticità più evidenti riguardavano sicuramente le condizioni delle classi sociali meno abbienti. A tutto ciò si aggiungeva anche una limitata partecipazione degli italiani alla vita politica del neonato Paese, riservata sostanzialmente alla classe borghese e agli uomini, cosicché la maggior parte della popolazione era esclusa dal diritto di voto. Inoltre, l’Unità d’Italia non era stata in grado né di migliorare le condizioni socioeconomiche, favorendo principalmente la crescita economica dell’Italia Nordoccidentale, né di “fare gli italiani”, che non sentivano ancora di essere parte di un’unica Nazione (quanto meno fino a ridosso della Grande Guerra), rimanendo ancorati alle consuetudini, anche sociolinguistiche, locali (Idos, 2020; Fauri, 2015; Salvatore, 2017). 

Come si è accennato, la Grande emigrazione interessò dapprima le regioni Nordoccidentali della Penisola e coinvolse soprattutto contadini, operai e artigiani, i quali, spinti dalla speranza di migliorare le proprie condizioni socioeconomiche, partirono sia verso l’Europa, soprattutto in Francia, Svizzera e Germania, sia per le Americhe dirigendosi in paesi come l’Argentina (che ottenne l’indipendenza dalla Spagna nel 1816), il Brasile (nel quale venne abolita la schiavitù nel 1888, rimanendo così a corto di manodopera nei grandi latifondi) e gli USA (in cui la schiavitù venne definitivamente abolita nel 1865). Le difficoltà erano molteplici dal punto di vista economico e lavorativo, nonché da quello socioculturale e linguistico: molti migranti erano analfabeti, incapaci non solo di leggere e scrivere, ma anche di parlare tra loro un’unica lingua; la maggior parte era costituita da manodopera non specializzata o poco specializzata, la predominanza dei quali era costituita da lavoratori agricoli; gli espatriati spesso faticavano a inserirsi nelle comunità ospitanti e si piegavano a svolgere lavori umili, faticosi, mal pagati (tuttavia, pagati meglio che in patria) e per i quali non erano richieste particolari competenze (ad esempio, scaricatori di porto, manovali, minatori, braccianti, garzoni), mentre talvolta, non riuscendo a inserirsi nel tessuto produttivo del paese ospitante, si arrabattavano con lavoretti saltuari oppure diventavano artisti di strada, accattoni e venditori ambulanti. Spesso i migranti già alla partenza possedevano poco: lasciare la propria terra e potersi permettere le tratte transoceaniche poteva risultare un sacrificio sia a livello affettivo, sia economico. Con l’aumento delle partenze, si ebbe un incremento delle agevolazioni politiche e finanziarie per affrontare la traversata, specialmente in paesi come Argentina e Brasile, che via via promossero una sorta di colonizzazione delle terre disponibili. Con il passare degli anni, la spinta migratoria iniziò a coinvolgere anche veneti e meridionali, che si spostarono soprattutto oltreoceano, verso le Americhe, con una preferenza per gli USA e New York. Per capire la portata del fenomeno si pensi che «nel periodo 1869-1899 emigrarono più di 5 milioni di italiani» sia oltreoceano, sia in Europa. Sori, per sintetizzare, spiega come «l’Italia settentrionale ebbe sempre (o quasi) una elevata e spesso crescente preferenza per l’emigrazione europea, mentre, man mano che ci si sposta a Sud, sale la quota di emigrazione transoceanica. L’Italia centrale è e si mantiene in posizione intermedia rispetto ai due mercati del lavoro, mentre il Mezzogiorno, specie durante la grande emigrazione, inviò praticamente il 90% della sua emigrazione oltre oceano. Posizione geografica, struttura e costo dei mezzi di trasporto devono dunque aver giuocato un ruolo importante nell’orientare queste “scelte”» (Colucci, Gallo, 2023; Pugliese, Vitiello, 2024; Sori, 1979). In ogni caso, la scelta di emigrare era generalmente vista come un’opportunità, più che come un trauma; era solitamente una scelta ben ponderata a livello famigliare e i capi famiglia spesso si ponevano come “pionieri” oltreoceano. Lo scopo era quello di guadagnare per poter poi tornare in patria e investire i risparmi, oppure per permettere alla famiglia di emigrare a sua volta (Idos, 2020; Sori, 1979). 

  1. Italiani oltreoceano

«Lo straordinario impulso che la navigazione transoceanica ricevette durante tutta la seconda metà dell’Ottocento e fino alla Prima guerra mondiale, fu il veicolo non solo tecnico-materiale, ma anche economico, della grande emigrazione europea verso nuovi mondi. […] La rivoluzione dei trasporti marittimi condusse a noli per il trasporto di persone sempre più bassi» (Sori, 1979).

Emigranti a Ellis Island
Arrivo di emigranti ad Ellis Island, 1902 (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Da secoli, la popolazione europea era abituata agli spostamenti, spesso stagionali o periodici, che avevano come motivazione primaria il lavoro o la ricerca di lavoro, sia come professionisti, sia come manodopera non specializzata. Gli spostamenti si verificavano su diverse direttrici: all’interno della propria nazione (per esempio, dalle Alpi e dagli Appennini alla Pianura Padana), sia verso paesi confinanti, sia ancora percorrendo tratte a più lungo raggio; ci si spostava abitualmente – sin ben prima dell’Unità d’Italia – per diversi motivi, soprattutto per incrementare le entrate famigliari e migliorare le condizioni di vita, il proprio status o la propria professionalità, ma anche per affari: sostanzialmente, la popolazione dell’Italia preunitaria era avvezza e ben si era adattata agli spostamenti, supportata anche da reti sociali e familiare ben consolidate (Fauri, 2015; Colucci, Gallo, 2023; Colucci, Sanfilippo, 2010; Pugliese, Vitiello, 2024). Infatti,

«il primo censimento italiano (1861) rileva come quasi il 15% della popolazione totale (3.2 milioni) vivesse in un comune diverso da quello di nascita e le emigrazioni periodiche interessassero 185.000 persone (di queste, 44.000 oltre confine). L’unificazione italiana trovò quindi una popolazione non statica, con salde tradizioni di spostamento e scambi tra comunità locali per lo più all’interno del paese, ma anche verso Stati geograficamente vicini». (Fauri, 2015)

Tuttavia, durante tutto il XIX secolo, il raggio degli spostamenti iniziò – a livello europeo e poi anche italiano – ad allargarsi notevolmente: una gran massa di italiani scelse di emigrare verso le Americhe e una delle motivazioni principali fu quella economica. Incentivati da prezzi via via sempre più abbordabili delle tratte transoceaniche, dalla speranza di un miglioramento delle proprie condizioni di vita e da politiche e finanziamenti pubblici e privati, i migranti decisero di salpare con la speranza di un futuro più prospero per sé e per la propria famiglia, allettati dalle testimonianze di chi prima di loro aveva già fatto la grande traversata oceanica ed era tornato non solo per raccontarla, ma anche con un gruzzoletto in tasca. Solitamente, partivano i “maschi di casa” o i capi famiglia, sia temporaneamente sia definitivamente, i quali risultavano maggiormente impiegabili nel mercato del lavoro dei paesi ospitanti; gradualmente, però, le tratte transoceaniche iniziarono ad accogliere sempre più donne e più giovani (ricongiungimenti famigliari o – durante gli anni della Grande Guerra – per sostituire gli uomini chiamati alle armi) (Colucci, Gallo, 2023; Fauri, 2015; Pugliese, Vitiello, 2024; Sori, 1979).

  1. Sì, viaggiare! Ma cosa spinse migliaia di italiani a farlo?
Vignetta anti-italiana
Vignetta anti-italiana pubblicata sul quotidiano di New Orleans The Mascot, il 7 settembre 1889 (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

La seconda metà dell’Ottocento fu un periodo di spostamenti: migliaia di persone dall’Europa si trasferirono verso le Americhe, rimpolpando le fila della manodopera nei paesi ospitanti. Infatti, 1/3 della popolazione europea – dapprima da Inghilterra, Irlanda, Germania e in seguito da Scandinavia, e successivamente da Italia, Spagna, Portogallo, Austria, Ungheria e Russia – si diresse verso le Americhe, 2/3 dei quali sbarcarono negli USA. Le prime partenze si registrarono dal Nord-Mitteleuropa; tuttavia, ben presto questi paesi assistettero a una rapida crescita economica che progressivamente ridusse il flusso delle partenze. Al contrario, invece, le regioni europee meridionali e orientali – che invece faticavano a raggiungere un miglioramento economico – videro aumentare gli espatri. Solitamente, partivano gli uomini sotto i 40 anni, tendenzialmente da soli, ponendosi di fatto come capifila per un’eventuale migrazione famigliare (circa il 64%). Bisogna inoltre distinguere tra emigrazione netta (spostamento definitivo, senza ritorno in patria) e lorda (migrazione periodica o aperta al ritorno una volta accumulata l’esperienza e i guadagni desiderati) (Colucci, Gallo, 2023; Fauri, 2015).

«Più di 40 milioni di persone emigrarono dall’Europa verso il nuovo mondo tra il 1850 e il 1913. Anche se una quota significativa e crescente di emigranti dopo qualche anno di lavoro tornava a casa, questa emigrazione di massa rappresentò un trasferimento di popolazione senza precedenti nella storia che ebbe effetti profondi e duraturi sulla distribuzione mondiale della popolazione, del reddito e della ricchezza» (Fauri, 2015).

Ma cosa spingeva tutte queste persone a lasciare la terra natia? Le cause – concatenate tra loro – furono diverse. Prima di tutto, i progressi nell’ambito dei trasporti diedero impulso alla globalizzazione del mercato del lavoro, che iniziava ad aprirsi dalla sola Europa alle rotte oltreoceano. Più le notizie di chi partiva erano positive, più chi restava ambiva a seguire chi li aveva preceduti, che a loro volta costituivano una sorta di rete d’appoggio per i nuovi arrivati. Il fatto che vi fu un netto miglioramento nel trasporto a vapore oltreoceano fece sì che si ridussero tempo e prezzo del viaggio (quest’ultimo quasi dimezzato dalla metà alla fine dell’Ottocento e fino agli albori del Novecento, quando invece il prezzo subì un notevole rincaro), rendendolo gradualmente maggiormente accessibile a un bacino più ampio di popolazione. Sebbene la partenza costituisse un sacrificio, il guadagno all’estero poteva progressivamente compensare il costo del viaggio e garantire un profitto maggiore rispetto al lavoro in patria; poteva altresì assicurare o il ricongiungimento famigliare nel paese ospitante, che diveniva così meta definitiva dello spostamento, oppure il ritorno in patria ed eventualmente una successiva partenza. Non mancavano certo le esperienze fallimentari; il ritorno in questo caso poteva essere definitivo e l’investimento iniziale sostanzialmente perso (Colucci, Gallo, 2023; Fauri, 2015). In generale, «per molti emigrare voleva dire rimanere all’estero per un periodo variabile di circa tre anni che doveva servire a massimizzare il reddito nel più breve tempo possibile. Una volta tornati e messi a frutto i risparmi, si decideva talora di ripartire e ricominciare» (Fauri, 2015).

Mappa diaspora italiana
Ricostruzione cartografica della diaspora italiana nel mondo (fonte: autore, Mariabau; licenza, CC BY-SA 4.0)

Se da una parte vi erano i miglioramenti del trasporto transoceanico e un’apertura del mercato del lavoro globale, dall’altra si devono considerare altri fattori che incentivarono l’emigrazione di massa: la differenza salariale tra il paese di partenza e quello di arrivo, il fattore demografico e la condivisione delle esperienze, le politiche migratorie volte ad incentivare le partenze. Emigrare significava prima di tutto ambire a un maggiore guadagno: «chi emigra è motivato in primo luogo dal confronto fra le opportunità di guadagno sul mercato interno e internazionale» (Fauri, 2015); gradualmente, chi partiva iniziava a considerare non solo il mero profitto, ma anche le prospettive future, investendo su paesi che offrivano maggiore stabilità e maggiori servizi, come per esempio gli Stati Uniti; d’altra parte, chi rimaneva beneficiava alla lunga di un incremento salariale dovuto al riequilibrarsi del mercato del lavoro, meno soggetto all’eccesso di manodopera. Secondariamente, l’Europa ottocentesca vide aumentare la propria popolazione a seguito del calo della mortalità determinato dalle innovazioni tecnico-scientifiche, mediche e dall’aumento delle risorse alimentari disponibili. Tuttavia, la crescita demografica portò progressivamente a una minore disponibilità di risorse, innescando così un circolo vizioso che vide l’abbassamento dei salari con il conseguente impoverimento delle classi meno abbienti, le quali iniziarono a migrare: l’eccesso di manodopera trovò così sfogo nel mercato internazionale del lavoro. Maggiori gli spostamenti, maggiore fu la condivisione delle esperienze, soprattutto grazie a lettere, diari, memoriali, e la creazione di una rete di solidarietà e assistenzialismo tra migranti: accoglienza e racconto furono pertanto un nuovo forte incentivo alle nuove partenze. Infine, le politiche migratorie e i sussidi che sia i paesi di partenza, sia di arrivo misero in atto ebbero l’effetto di favorire i flussi migratori. Da una parte, paesi come l’Italia non posero freno alla fuoriuscita dei propri cittadini, dall’altra i paesi oltreoceano accolsero – quanto meno inizialmente – chi sbarcava. Stati Uniti e Argentina, per esempio, furono tra i paesi ospitanti che vararono leggi per regolare e finanziare gli arrivi (Colucci, Gallo, 2023; Fauri, 2015; Pugliese, Vitiello, 2024).

  1. La politica migratoria italiana

«L’Italia stentò ad assumere delle altrettanto determinate politiche di emigrazione, limitandosi a trattare il problema come una questione di ordine pubblico, a livello appena di una “polizia dell’emigrazione”: questa espressione sta a indicare interventi orientati a correggere alcune manifestazioni negative di un fenomeno di cui non si intendeva incidere sui tratti fondamentali.» (Colucci, Gallo, 2023)

Madre con figli a Ellis Island
Anna Sciacchitano con i figli a Ellis Island, fotografati da Lewis Hine nel 1905. Museum of Fine Arts, Houston (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Per quanto riguarda l’Italia postunitaria, il governo non si oppose veementemente alla necessità di partire degli italiani; a lungo termine, a livello socioeconomico, la diaspora rese al neonato Stato, nonostante il «contrapporsi di posizioni differenti tra chi temeva uno spopolamento dei borghi e dei campi con un conseguente aumento del costo del lavoro agricolo e chi vedeva nell’emigrazione una soluzione alla tensione sociale rurale e alla miseria che affliggeva le campagne, in particolare quelle meridionali e venete» (Colucci, Gallo, 2023). Il mercato del lavoro nazionale andò equilibrandosi con le partenze, alleggerendo la pressione causata da un esubero di manodopera; conseguentemente, i salari aumentarono gradualmente anche per chi rimaneva. Inoltre, le cosiddette rimesse – somme di denaro e risparmi che arrivavano dall’estero in patria sia con i ritorni, sia tramite spedizione – aiutarono le famiglie a migliorare le proprie condizioni di vita, soprattutto nelle regioni Centrosettentrionali, e furono altresì una nuova spinta alle successive migrazioni. Con la legge sull’emigrazione del 1901 si affidò al «Banco di Napoli, al sistema postale e alle strutture consolari la funzione di canalizzare il risparmio degli italiani all’estero verso l’Italia. […] Gli effetti di stabilizzazione finanziaria in qualche modo legati alla fase di massimo afflusso delle rimesse (1896-1913) sono evidenti» (Sori, 2003; cfr. Fauri, 2015). Le rimesse favorirono pertanto una maggiore stabilità economica e il commercio estero, soprattutto verso i paesi maggiormente abitati dagli italiani (Colucci, Gallo, 2023; Fauri, 2015; Pugliese, Vitiello, 2024; Sori, 2003).

Il primo censimento italiano risale al 1861, agli albori della neonata Italia Unita; il documento palesa i primi dati relativi all’emigrazione italiana ed esplicita quali siano le mete maggiormente gettonate dagli expat: in Europa – Francia, Germania, Svizzera soprattutto – si trovavano circa 110.000 italiani, mentre 100.000 partirono verso le Americhe, principalmente verso USA, Argentina e Brasile. I flussi migratori si intensificarono a seguito della crisi economica degli anni Settanta dell’Ottocento; è quindi possibile ravvisare tre fasi migratorie: tra il 1876 e il 1890, la meta per eccellenza era l’Argentina, mentre tra il 1891-1900 ci si spostava soprattutto verso il Brasile, infine le partenze per gli Stati Uniti accrebbero dal 1900 al 1920. La classe dirigente italiana non aveva intenzione di bloccare le partenze, che fino al 1888 – anno della prima legge sull’emigrazione – erano regolate dal Ministero dell’Interno con circolari, che riguardavano più che altro questioni di pubblica sicurezza, di fatto palesando una sorta di vuoto legislativo. Questo atteggiamento era principalmente dettato prima di tutto da flussi ancora poco allarmanti, da altre incombenze su cui concentrarsi successivamente l’unificazione del Paese (che ricordiamo essere stato politicamente e geograficamente frammentato fino appunto all’Unità d’Italia), dalla politica liberista dei politici italiani che scongiurava un intervento importante dello Stato sulle libertà individuali riconoscendo pertanto il diritto all’espatrio, e infine dai vantaggi che al momento l’emigrazione poteva portare al neonato Stato. Ad un aumento delle partenze, che via via assunsero il carattere di emigrazioni di massa, vi fu una maggiore risposta legislativa, che comunque non intendeva limitare fermamente gli spostamenti: si intervenne infatti soprattutto sulla speculazione da parte di agenti che ambivano ad arricchirsi sulle spalle dei migranti e per contenere l’eccessivo spopolamento delle campagne e dei latifondi, nella quali la manodopera a basso costo era fondamentale. Per arginare l’emorragia dei lavoratori agricoli, dal 1865 divenne obbligatorio ottenere un passaporto, documento allora non ancora richiesto all’estero. La legge Crispi del 1888 – che si rivelò inadeguata alla situazione, perché incapace di tutelare appieno i migranti – ammise una sorta di compromesso tra interessi dello Stato e interessi delle compagnie di navigazione, regolando le attività degli agenti; confermava inoltre il diritto a emigrare a patto che venissero rispettate le prescrizioni di legge, prima fra tutti l’obbligo di passaporto (Colucci, Sanfilippo, 2010; Fauri, 2015; Pugliese, Vitiello, 2024). 

Come si è accennato, per avere una vera e propria legge relativa all’emigrazione si dovette attendere la proposta di Luigi Luzzati e la legge n. 23 del 1901. Quest’ultima prescriveva l’istituzione del Commissariato Generale dell’Emigrazione, un ente autonomo incaricato di coordinare i comitati comunali dell’emigrazione formati dalle autorità locali nei luoghi interessati dalle partenze, e di esaminare tramite ispettori le condizioni sanitarie e culturali dei migranti, soprattutto nei porti di Genova, Napoli e Palermo, che registravano il maggior numero degli imbarchi; le questioni migratorie passarono inoltre dal ministero dell’Interno a quello degli Esteri; venne poi abolita la figura dell’agente, considerata superflua, e sostituita con quella del vettore, che rispondeva ad eventuali danni subiti dal migrante; si prescriveva inoltre la presenza di medici militari di nomina commissariale sulle navi in partenza e nei porti di arrivo di uffici per la sicurezza, protezione, informazione e avviamento al lavoro degli addetti e degli ispettori; erano previste inoltre commissioni che si occupassero di contenziosi tra vettori e migranti, nonché sussidi alle associazioni di patronato; infine, venne costituito il Consiglio dell’emigrazione con funzione consultiva; vennero altresì intensificate le disposizioni di carattere sanitario alle quali gli emigranti dovevano sottoporsi prima della partenza per ottenere il permesso all’imbarco (visita medica, antivaiolosa, bonifica del corpo e disinfezione degli abiti). Tutto questo venne autofinanziato dall’acquisto dei biglietti da parte dei migranti (Colucci, Gallo, 2023; Fauri, 2015; Martini, Cecchet, 2005; Pugliese, Vitiello, 2024).

Conclusione 

Italiani popolo di santi, poeti, navigatori e migranti. I fenomeni migratori hanno interessato diversi storici e studiosi, che lo hanno trattato sotto molteplici punti di vista, da quello politico, economico socioculturale e sociolinguistico. Del resto, «la storia dell’umanità è una storia di migrazioni» Colucci, Gallo, 2023). Inoltre, l’immigrazione che ha interessato l’Italia negli ultimi decenni ha sicuramente dato un’ulteriore spinta agli studi di settore (Colucci, Gallo, 2023; Colucci, Sanfilippo, 2010). 

Immigrati italiani a Buenos Aires
Immigrati italiani a bordo di un carretto presso l’Hotel de Inmigrantes di Buenos Aires. Foto di Frank George Carpenter, 1899 (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Questo articolo si propone di riassumente parte delle dinamiche relative alla Grande Emigrazione, fenomeno migratorio che interessò l’Italia postunitaria fino agli albori del Novecento, che ha avuto diverse e concatenate cause e conseguenze e che ha influenzato la Penisola negli anni seguenti. L’accento è stato posto sulle direttrici transoceaniche, che alla fine del XIX secolo videro migliaia di connazionali salpare verso le Americhe in cerca di fortuna. 

Per concludere si vuole dare una brevissima panoramica circa il binomio emigrazione-lingua italiana. L’emigrazione è stata uno dei fenomeni che ha caratterizzato l’uso e la diffusione dell’italiano sia all’estero, sia in patria: nelle testimonianze scritte – soprattutto in quelle di carattere personale, come per esempio le lettere – è possibile riconoscere uno «sforzo di distanziamento dal dialetto in favore dell’italiano» (Salvatore, 2017). L’emigrazione, infatti, accentuò la coscienza identitaria italiana dei migranti, persone che in patria tendenzialmente parlavano il proprio dialetto come lingua madre: l’italiano non era che una lingua secondaria, e spesso non rappresentava nemmeno la lingua di prima alfabetizzazione. Tuttavia, emigrare da una parte espose gli expat all’italofonia, dall’altra rese palese che l’analfabetismo e la difficoltà di comunicare con una lingua comune erano limitazioni notevoli, che potevano anche portare alla chiusura e al rifiuto da parte dei paesi ospitanti o la mancata opportunità di creare una rete di solidarietà con i propri connazionali con i quali si faticava a comunicare (Salvatore, 2017; Vedovelli, 2020). «In altre parole, la gran parte degli italiani espatriati è stata costretta a compiere un “language shifting primario” dal dialetto all’italiano, determinato da ragioni strumentali, ma funzionale sia alla comunicazione intraetnica sia alla propria affermazione sociale e professionale nel Paese di arrivo. L’elemento lingua è stato pertanto per gli emigrati una conquista e un’immissione secondaria nel proprio bagaglio identitario» (Salvatore, 2017). 

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico

Federica Fornasiero è medievista di formazione, laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano e diplomata alla scuola APD dell’Archivio di Stato di Milano. Ad ora è dottoranda presso l’Università degli Studi di Bergamo, con un progetto sull’emigrazione italiana nel XIX secolo. I suoi interessi principali sono la storia sociale, economica e di genere, ma non disdegna anche la storia delle chiese e delle eresie medievali.

Bibliografia

Carbone A., Da Moline G., Carte d’archivio. Storia della popolazione italiana tra il XV e XX secolo, Carucci 2016; Colucci M., Gallo S., L’emigrazione italiana. Storia e documenti, Morcelliana 2023; Colucci M., Sanfilippo M., Guida allo studio dell’emigrazione italiana, ASEI, Sette Città 2010, all’URL https://www.asei.eu/it/2010/05/guida-allo-studio-dellemigrazione-italiana/ (consultato il 26/11/2024); Evoluzione demografica dell’Italia (1861-2018), Istat, Roma 2018, all’URL https://www.istat.it/it/files/2019/01/evoluzione-demografica-1861-2018-testo.pdf (consultato il 04/11/2024); Falleni E., Guerrini S., L’emigrazione italiana come espansione della nazione italiana. L’esempio della migrazione friulana in Argentina alla fine del XIX secolo, in Altrove – Rivista di storia ed intercultura on line, n. 5/2011, Fondazione Paolo Cresci per la storia dell’emigrazione italiana 2011, all’URL https://www.fondazionepaolocresci.it/altrove/n-5-gennaio-giugno-2011/ (consultato il 04/11/2024); Fauri F., Storia economica delle migrazioni italiane, Mulino 2015; Favero L., Le liste di sbarco degli immigrati in Argentina, in Altreitalie, n. 7/1992, all’URL https://www.altreitalie.it/Pubblicazioni/Rivista/Numeri_Arretrati/N_7/Saggi/Le_Liste_Di_Sbarco_Degli_Immigrati_In_Argentina.kl (consultato il 01/11/2024); Gli italiani all’estero: collettività storiche e nuove mobilità, a cura del Centro Studi e Ricerche IDOS, Affari Sociali Internazionali, Anno VIII, n. 1-4/2020 Edizioni IDOS, Roma 2020, all’URL https://www.dossierimmigrazione.it/prodotto/gli-italiani-all-estero/ (consultato il 01/11/2024); Martini S., Cecchet F., Emigrazione, speranza di andate e ritorni, Autorità portuale di Genova, 2005, all’URL https://www.palazzosangiorgio.org/pdf/EMIGRAZIONE_Speranze%20di%20andate%20e%20ritorni.pdf (consultato il 01/11/2024); Pugliese E., Vitiello M., Storia sociale dell’emigrazione italiana. Dall’Unità a oggi, Mulino 2024; Salvatore E., Emigrazione e lingua italiana. Studi linguistici, Pacini 2017; Sori E., L’emigrazione italiana dall’Unità alla Seconda guerra mondiale, Mulino 1979; Sori E., La politica emigratoria italiana (1860-1973), in Popolazione e storia, SIDeS, Vol 4, n. 1/2003, pp. 139-171, all’URL https://popolazioneestoria.it/article/view/170 (consultato il 01/11/2024); Storia linguistica dell’emigrazione italiana nel mondo, a cura di Vedovelli M., Carocci 2021.

Immagine di copertina: Gli emigranti, Raffaello Gambogi, 1894. Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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