di Tecla Terazzi
1. Introduzione
Il «Grande Male» (Metz Yeghérn), come gli stessi armeni definiscono quanto loro avvenuto durante la Grande Guerra tra la Cilicia, il deserto del nord della Siria e le regioni orientali dell’Impero Ottomano, è un evento fin troppo trascurato nell’istruzione storica ordinaria e appare confinato perlopiù a una erudizione tecnica universitaria o successiva. Quello che, giustamente, anche se con grande difficoltà, trova una sua legittimazione è il più recente genocidio ebraico. I motivi di questa lacuna sono molteplici. Scaturiscono inevitabilmente dalle stesse modalità con le quali è stato perpetrato il massacro della popolazione armena diffuso su un territorio vasto e non controllabile, dalla generale indifferenza delle potenze dell’Intesa e degli Stati Uniti d’America rispetto a quanto stava accadendo, dalla difficoltà della copertura mediatica in quel tragico frangente e dal fatto non secondario che con il trattato di Losanna del 1923 la questione armena sia stata lasciata volutamente irrisolta (Flores, 2015).
Oltre alle ragioni summenzionate, si aggiunge la difficoltà di denominare (Flores, 2015) quanto avvenuto, dato che la definizione di genocidio inteso come «rifiuto al diritto all’esistenza di un intero gruppo umano che sconvolge la coscienza dell’umanità» viene formulata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre del 1946, mentre la Convenzione sulla prevenzione e la condanna di tale crimine viene approvata nel 1950. Il “massacro” degli armeni rientrerebbe a pieno titolo nella definizione stabilita dall’ONU, ma la Convenzione entrata in vigore nel 1951 non viene applicata retroattivamente in questa fattispecie. Pertanto, un riconoscimento del “genocidio” armeno in quanto tale dovrebbe darsi almeno a livello storico e morale.
Ancora oggi, coerentemente alla posizione presa finora, la Turchia non riconosce la propria responsabilità nello “sterminio” della popolazione armena e, quale conseguenza, nella storiografia ufficiale turca si preferisce sostenere che le cosiddette marce della morte nel deserto tra l’Anatolia sud-orientale e la Siria settentrionale siano state un «trasferimento» dovuto all’instabilità delle province orientali per motivi bellici e che la morte degli armeni sia stata appunto causata dai disagi concomitanti, quali la fame, il freddo, le malattie, gli attacchi di vendetta e il brigantaggio (Uluhogian, 2009; Faroqhi, 2014).
Un’altra questione irrisolta è stabilire il numero di quanti siano morti effettivamente. Le cifre oscillano da poche centinaia di migliaia sino a più di un milione, ma risulta pressoché impossibile fare una valutazione sicura, poiché peraltro i censimenti generali più vicini all’epoca dello “sterminio” risalgono il primo al 1881-1893 e il secondo al 1905-1906 e non collimano con i dati forniti dai censimenti realizzati autonomamente dalle varie comunità religiose (Georgeon, 1999; Bryce, Toynbee, 1916; Ternon, 2003).
Il presente articolo, pertanto, vorrebbe proporre una disamina della situazione generale in cui versava l’Impero ottomano tra la fine del 1800 e l’inizio della Grande Guerra e nella quale sono ravvisabili gli antefatti di quello che viene generalmente riconosciuto come genocidio degli armeni.
2. Abdul-Hamid II: il «sultano rosso» e i massacri del 1894-1896
L’impero ottomano come viene ereditato da Abdul Hamid II nel 1876, in seguito alla destituzione del fratellastro Murad V, è uno stato scarsamente modernizzato, ancora basato sul settore economico primario (Faroqhi, 2014; Georgeon, 1999) e in crisi a causa della perdita dei territori balcanici che si rendono indipendenti o sono annessi all’impero austro-ungarico ora con il favore dell’Inghilterra ora con l’appoggio della Russia.

La felice epoca delle Tanzimât («riorganizzazione»), iniziata nel 1839 e che ha visto la realizzazione di una serie di riforme volte a migliorare la condizione dei sudditi ottomani, riorganizzare l’esercito e le finanze e rendere lo stato più laico, culmina e si conclude nel 1876 con la promulgazione di una Costituzione fortemente voluta dal movimento rivoluzionario di ispirazione mazziniana e liberale dei Giovani Turchi, guidato da Midhat Paşa, gran visir dal 1872. Tale Costituzione prevede, nei suoi punti fondamentali, «l’eguaglianza di tutti i sudditi ottomani e l’introduzione di un parlamento, con il solito accompagnamento di promesse di libertà individuale e di libertà di stampa, di riforma della giustizia e di un programma educativo» (La Storia, 12, L’età dell’imperialismo e la prima guerra mondiale, 2004) e rappresenta altresì una speranza di cambiamento per le minoranze etnico-religiose, che immaginavano di vedersi finalmente equiparate a livello giuridico e sociale rispetto alla maggioranza musulmana. Le minoranze degli ebrei, dei greci, degli armeni, dei caldei, dei siriani cattolici e dei siriani ortodossi sono organizzate come millet («nazione») e cioè come comunità aventi un valore giuridico e amministrativo sotto il comando dei rispettivi capi religiosi, i quali previo il riconoscimento del sultano riscuotono le tasse e hanno voce in capitolo per quanto concerne il diritto di famiglia e quello civile.
Tuttavia, appena un paio d’anni dopo essere divenuto sultano, Abdul Hamid scioglie il parlamento, sospende la Costituzione e manda in esilio lo stesso Midhat Paşa (La Storia, 12, L’età dell’imperialismo e la prima guerra mondiale, 2004; Georgeon, 1999). Una prima ragione di questa scelta assolutistica è il timore che la Sublime Porta, presso la quale a Istanbul si trova l’ufficio del gran visir, possa assumere un potere maggiore rispetto a quello del monarca, che presumibilmente sarebbe mano a mano stato messo da parte. Un secondo motivo è dato dalla preoccupazione crescente per la diffusione del nazionalismo anche tra le minoranze non musulmane e in particolare tra gli armeni, i quali nel 1878 inviano autonomamente una propria delegazione ai negoziati per i trattati di pace prima di Santo Stefano (villaggio ottomano successivamente divenuto un quartiere di Istanbul e rinominato Yeşilköy) e quindi di Berlino «con lo scopo di far ascoltare la loro richiesta di riforme e di autonomia …» (Georgeon, 1999; Flores, 2015; Bryce, Toymbee, 1916). In quell’anno si è conclusa la guerra russo-turca iniziata nel 1877 e il Trattato di Berlino ha sancito l’indipendenza di Romania, Serbia e Montenegro, l’autonomia amministrativa sotto controllo ottomano dei principati della Bulgaria e della Rumelia, l’accettazione della presenza di una guarnigione dell’impero austro-ungarico in Bosnia e la cessione delle province di Batumi, Kars e Ardahan tra l’Anatolia nord-orientale e il Caucaso all’Impero zarista. Così, nella speranza di non perdere ulteriori territori, Abdul Hamid orienta la sua gestione dell’impero in modo fortemente centralizzato.
La politica interna del sultano è repressiva e basata su un generico panislamismo, dal momento che egli si presenta anche come califfo, ovvero come capo spirituale supremo del mondo islamico. Nel 1880 viene creato un ministero di Polizia diretto da uomini di fiducia del monarca, che parallelamente istituisce una rete di spionaggio interno dipendente direttamente dal Palazzo. Si incoraggia la delazione e viene rafforzata la censura sulla stampa, specie quella proveniente dall’estero in modo da impedire la circolazione delle idee occidentali. Per quanto concerne l’istruzione, vengono istituite scuole primarie, medie e secondarie in tutte le province con «come compito quello di formare dei buoni musulmani e dei leali sudditi ottomani» (Flores, 2015; Faroqhi, 2014), così da porre un freno alla diffusione di libere scuole straniere o non confessionali. Le scuole fondate sotto l’egida dell’American Board of Commissioneers for Foreign Missions si trovano soprattutto nell’Anatolia orientale e alla vigilia della Grande Guerra arrivano a contare ben 4.385 allievi armeni contro 122 turchi. Quelle francesi, invece, sono rivolte perlopiù agli arabi cristiani della Siria e del Libano, ma anche in questo caso solo una scarsa percentuale è costituita da allievi musulmani (Georgeon, 1999). Riguardo il panislamismo, infine, questo è più che altro strumentale, dal momento che gli ulema (teologi e giureconsulti depositari della legge tradizionale islamica) sono ormai posti sotto il controllo del potere civile, e serve al sultano per assicurarsi le simpatie del mondo arabo, nei confronti del quale ha iniziato a manifestare i propri interessi la potenza inglese. Panislamismo comunque utile anche per attrarre gli altri musulmani non turchi, come i circassi, i tatari e i curdi delle province orientali, «favorendone l’ascesa dentro l’impero e nell’apparato militare e dirottando all’occorrenza la loro aggressività contro i cristiani» (Flores, 2015). Per quanto concerne la politica estera, Abdul Hamid tenta di mantenere lo statu quo successivo al Trattato di Berlino, poiché l’avanzamento industriale dell’impero e il miglioramento o la creazione di infrastrutture dipendono prevalentemente dall’investimento di capitali stranieri, così come la gestione del debito pubblico è in mano a un organismo misto-sovranazionale composto da sette membri dei quali cinque sono di nazionalità inglese, francese, italiana, austriaca e tedesca (Georgeon, 1999; Faroqhi, 2014).
La situazione dell’impero resta fragile e la crisi balcanica del 1875-1876 e la conseguente guerra russo-turca del 1877-1878 provocano un notevole cambiamento demografico: circa un milione e mezzo di musulmani si sono riversati in Anatolia dai Balcani, mentre altre migliaia provengono dalle province di Kars e Ardahan cedute all’impero zarista e continueranno a migrare dal Caucaso sino al 1914 per sfuggire alla politica repressiva russa. Il governo, perciò, crea nel 1878 una Commissione dei rifugiati, la quale decide di stabilire i nuovi immigrati lungo le linee ferroviarie che si stavano costruendo nella parte centro-orientale della penisola e nelle province arabe e soprattutto vicino al confine con la Russia. Questo trasferimento porta la popolazione armena nei vilayet orientali ad essere in minoranza e ad un aumento consistente degli attriti tra essi e i musulmani. Attriti che nascono per pretesti, come il rapimento di un giovane armeno da parte di un capo curdo a Muş nel 1889 e il rifiuto nell’estate del 1894 da parte di tre villaggi armeni di pagare le tasse una seconda volta (Flores, 2015), ma che affondano le radici in un quadro ben più complesso. Da una parte i turchi musulmani di recente immigrazione conservano la memoria delle persecuzioni subite nei territori balcanici da parte dei cristiani e della repressione russa nell’impero zarista e vedono il loro eventuale desiderio di vendetta acuito e giustificato dalla politica nazionalista del sultano. Dall’altra gli armeni si organizzano tra 1885 e 1890 in partiti di ispirazione socialista e populista, gestiscono proprietà fondiarie nelle regioni di Smirne e di Adana (in Cilicia), dominano assieme ai greci nel commercio estero e nelle attività bancarie e industriali e sono ben inseriti nella struttura amministrativa e politica dell’impero (Georgeon, 1999). La popolazione armena, insomma, nonostante sia costituita in maggioranza da contadini, dimostra di avere una borghesia intellettualmente ed economicamente dinamica e aperta alle nuove idee provenienti dall’Europa, dove di frequente i giovani più abbienti potevano continuare gli studi.
In un quadro simile, in cui le riforme a favore degli armeni previste dall’articolo 61 del Trattato di Berlino (il cui testo è «La Sublime Porta si impegna a realizzare senza ulteriori indugi i miglioramenti e le riforme richieste dai bisogni locali nelle province abitate dagli Armeni e a garantire la loro sicurezza contro i Circassi e i Curdi. Essa darà conto periodicamente delle misure prese a questo scopo alle Potenze, che ne sorveglieranno l’applicazione») (Flores, 2015) rimangono lettera morta, dove le minoranze cristiane erano costrette a pagare tasse ulteriori (Faroqhi, 2014; Uluhogian, 2009) e il sistema fiscale, oltre che esoso, è anche arbitrario dal momento che si era tenuti al versamento di balzelli illegali al funzionario che amministra il villaggio, gli armeni oltre a rifiutarsi hanno dato vita a rivolte fiscali a partire dagli anni Sessanta del secolo. Ribellioni esasperate e culminate nell’agosto 1896 nell’assalto alla Banca ottomana di Costantinopoli da parte di membri del loro partito Dashnak. La repressione prontamente organizzata dal governo tra il 1894 e il 1896 appare esagerata, dato che si avvale dell’uso di truppe regolari affiancate da milizie mercenarie curde a cavallo nei confronti di una popolazione pressoché inerme, come nel caso del villaggio da cui proveniva l’organizzatore dell’attentato alla Banca e che fu interamente raso al suolo (Uluhogian, 2009; Flores, 2015). Di fronte a un bilancio generale di «centinaia di villaggi completamente distrutti … duecentomila morti …» (Flores, 2015), che hanno valso ad Abdul Hamid il soprannome di sultano rosso per il sangue versato, la reazione europea, seppur di unanime condanna, è di non intervenire, dal momento che il problema armeno al momento è del tutto secondario come ben riassume l’asserzione del politico britannico Lord Salisbury secondo cui era impossibile inviare la flotta inglese sul monte Ararat (Flores, 2015; Georgeon, 1999).

3. Dalla rivoluzione dei Giovani Turchi ai primi scontri della Grande Guerra (1909-1915)
Tra il 1902, anno del «Primo congresso dei Giovani Turchi» a Parigi, e il 1908 le forze politiche contrarie all’assolutismo monarchico, nonostante le divisioni interne tra un’ala di orientamento maggiormente liberale e l’altra nazionalista, si riorganizzano. Esse con l’aiuto dell’esercito e sulla spinta delle giovani leve di ufficiali idealisti fanno sì che il sultano Abdul Hamid il 22 luglio 1908 nomini un gran visir, ripristini la Costituzione del 1876 e annunci prossime elezioni e la convocazione del parlamento. Si è trattato più che di una rivoluzione di una restaurazione, dal momento che i gran visir nominati successivamente sono uomini dell’antico regime e, purtroppo, le istanze della corrente liberale relative all’uguaglianza tra le varie credenze e a una politica di decentramento a favore delle minoranze non trovano alcuna attuazione.
I liberali, raggruppatisi in un partito autonomo prima nel 1908 e poi nel 1911, si trovano al governo solo per una manciata di giorni nell’aprile 1909 e dal giugno 1912 al gennaio 1913. Un periodo rivelatosi del tutto insufficiente per invertire la rotta che la Turchia ha preso dalla fine del secolo precedente in direzione di un nazionalismo sempre più esasperato. Causa di ciò sono la continua instabilità nei Balcani, che sfocia in due sanguinose guerre tra 1912 e 1913 e determina altre consistenti perdite di territori in Europa, e la conseguente e progressiva radicalizzazione sul territorio ottomano del Comitato di Unione e Progresso (C.U.P.). Questo partito, grazie all’opera del suo più importante ideologo, l’intellettuale Ziya Gökalp (Berkes, 1959; Cardini, 2018; Dumont, Georgeon, 1999; Flores, 2015; Ternon, 2003), diffonde la necessità di realizzare un’unica patria forte e libera dalle ingerenze straniere. Tale programma trova una fervente adesione da parte della piccola e media borghesia (impiegata nella burocrazia e nell’esercito) e tra i giovani: queste due compagini della società ottomana deluse dall’incapacità politica dell’impero non si riconoscono più in un Islam conservatore e sono interessate a ricostruire e affermare una propria identità turca a livello storico, culturale, linguistico ed etnico. La situazione politica, tuttavia, è instabile, poiché nessuno dei governi eletti riesce a rimanere in carica per più di pochi mesi, e viene aggravata prima da una rivolta di stampo reazionario avvenuta a Istanbul nell’aprile 1909 (Dumont, Georgeon, 1999; Flores, 2015) e, tre anni dopo, da un tentativo di colpo di stato attuato dal gruppo degli “Ufficiali liberatori” con lo scopo di arginare la crescente egemonia del C.U.P. Di conseguenza, nel gennaio 1913 gli unionisti realizzano un golpe passato alla storia come «attacco della Sublime Porta» (Dumont, Georgeon, 1999) e trasformano presto il loro governo in una dittatura approfittando dell’omicidio del gran visir allora in carica perpetrato da seguaci dell’avversario partito liberale (Flores, 2015). L’opposizione liberale viene così soppressa, dal momento che la maggior parte dei suoi capi è arrestata e mandata in esilio o condannata a morte, e l’esecutivo è gestito fino al 1918 da una trojka formata dai membri più in vista del C.U.P. Si tratta di Talat, Enver e Cemal Paşa, rispettivamente ministri degli Interni, della Guerra e della Marina, i quali sarebbero anche diretti responsabili del “genocidio” armeno.
In questo caos politico e sociale, gli armeni sono nuovamente vittime di massacri ad Adana nel 1909, mentre nella capitale imperversano la violenta manifestazione summenzionata. I morti sono circa venticinquemila e la loro uccisione sembra trovare una spiegazione nel fatto che gli armeni avevano sostenuto fortemente il ripristino della costituzione, con la quale avrebbero avuto la loro legittimazione sociale e politica (Bryce, Toynbee, 1916; Flores, 2015; Ternon, 2003). Nelle province orientali abitate da una consistente minoranza armena la situazione già di per sé rimasta critica dopo i massacri hamidiani del secolo precedente si aggrava allo scoppio della Prima guerra mondiale con l’avanzata russa. L’esercito ottomano guidato da Enver Paşa nell’inverno 1914 verso il Caucaso viene bloccato dalla neve e dal freddo ed è sconfitto a Sarikamis. Nel contempo, in un villaggio nei pressi della città di Van vicina al lago omonimo nel cuore dell’Anatolia orientale, l’obbligo da parte del governatore nei confronti della popolazione armena di formare un battaglione di lavoro di quattromila uomini, il rifiuto da parte degli abitanti e la loro controproposta di inviare un numero minore provocano l’attacco da parte dei soldati turchi e di milizie curde e circasse. Quanti sono riusciti a scappare si rifugiano a Van e lì organizzano la propria autodifesa (Bryce, Toynbee, 1916; Flores, 2015; Ternon. 2003).

Questo evento, sia pur marginale, interpretato dal governo turco (e tuttora dalla storiografia turca ufficiale, insieme ad alcuni autori americani) come l’inizio di una vera e propria ribellione (Flores, 2015; Faroqhi, 2014), insieme al timore che gli armeni ottomani potessero unirsi ai battaglioni armeni russi, determina l’arresto degli intellettuali armeni residenti a Istanbul nella notte del 24 aprile 1915 e la promulgazione il 27 maggio della “Legge Tehcir («sfollamento forzato»)” che sancisce la deportazione della popolazione armena. È l’inizio delle lunghe marce della morte, organizzate distretto per distretto con, così pare, la collaborazione dell’Organizzazione speciale, una milizia formata da Enver Paşa nell’agosto 1914 con mansioni spionistiche (Dumont, Georgeon, 1999; Flores, 2015) e del Direttorato per la sistemazione delle tribù e degli immigranti e del Dipartimento della Deportazione, «due emanazioni del Ministero dell’Interno» (Flores, 2015).
4. Conclusioni
Il cosiddetto genocidio armeno è tuttora un evento difficile da affrontare e raccontare e di cui mantenere la memoria. Questo articolo, pertanto, ha come finalità quella di incoraggiare e approfondire ulteriormente la ricerca su tale questione e soprattutto su quanto è avvenuto prima e in certo modo ha posto le basi politiche e sociali al suo verificarsi. Molti sono ancora i punti oscuri così come i documenti occultati dal governo turco dopo la fine della Grande guerra. Elementi entrambi di ostacolo a una narrazione storica corretta senza partigianerie politiche o di altro genere, come invece tuttora avviene.

Tecla Terazzi
Tecla Terazzi (Milano, 1992) è laureata triennale e magistrale in Lettere Classiche all’Università Statale di Milano. Nel tempo libero dal suo impegno come professoressa nei licei, si dedica all’approfondimento delle tematiche più varie e in particolare quelle di ambito storico, linguistico e in generale antichistico, dal momento che l’amore per i propri studi è sempre una valida direttrice nella sua vita.
Bibliografia
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Immagine di copertina: le truppe ottomane conducono uomini armeni alla fucilazione al di fuori della città di Kharput, 1915. Foto pubblicata dalla Croce Rossa Americana (fonte: Wikimedia, licenza CC0)
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