LA RIVOLTA DEI REMENCES CATALANI, 1462-1486

Miniatura dallo Speculum Virginum

di Federica Fornasiero

Introduzione

Anni fa partecipai a una conferenza di modernisti in università, durante la quale uno dei relatori azzardò un’affermazione parecchio infelice. Quest’ultimo sosteneva che prima della Rivoluzione francese non vi fu alcun tentativo di sovvertire l’ancien régime, guadagnandosi una risposta alquanto piccata da uno dei medievisti presenti, il quale faceva notare, senza nascondere un certo biasimo, che solo a proposito della Francia non si poteva certo dimenticare la celeberrima jacquerie. Questo aneddoto rivela a mio avviso due importanti questioni: prima di tutto, il Medioevo risulta ancora essere macchiato da luoghi comuni e preconcetti anche in ambito accademico; secondariamente, quanto sia importante una visione d’insieme della Storia: il fatto che, prima della Révolution, le agitazioni contadine e urbane non abbiano sortito effetti così dirompenti non significa certo che i secoli ad essa precedenti siano stati estranei a sommosse e ribellioni.

Tornando a noi, durante il Medioevo ci sono stati tentativi più o meno riusciti di rivolta; esempi lampanti – quanto meno per il Basso Medioevo – sono sicuramente le conosciutissime jacquerie nella Francia del 1358, il tumulto dei Ciompi nel 1378 e l’insurrezione dei contadini inglesi nel 1381. In questo articolo, però, vorrei parlarvi di un’altra rivolta basso medievale, quella dei remences catalani, contadini in condizione servile il cui nome deriva dal diritto signorile di remensa (imposizione di un riscatto per comprare la libertà personale), che insorsero tra 1462 e 1486 (Freedman, 1996; Lluch Bramon, 2014; Maire-Vigueur, 1996; Zorzi, 2016; Barbero, 2019).

Tra XIV e XV secolo, infatti, tanto nelle campagne, quanto nelle città europee, il malcontento popolare esplose in moti, tumulti e rivolte; le insurrezioni avevano certamente caratteristiche proprie, sebbene palesassero una comune tendenza a non mettere in discussione l’autorità: si chiedeva, infatti, una maggiore partecipazione politica e la redistribuzione della ricchezza. Per parafrasare quanto spiegato da Andrea Zorzi, questi fenomeni non erano certo una novità; tuttavia, a partire da questo particolare periodo storico, essi palesarono un inedito slancio, dovuto principalmente a un generale inasprimento delle condizioni di vita a causa dell’avvicendarsi di carestie, epidemie e guerre che portarono a recessioni economiche e al calo della rendita fondiaria. Queste contingenze colpirono soprattutto i ceti subalterni, sempre più schiacciati dalle pressioni dei più ricchi, detentori delle terre e dei mezzi di produzione; le tasse aumentarono e vennero nuovamente imposti i diritti signorili, primi fra tutti quelli fiscali e le corvées, inasprendo sempre più le condizioni dei meno abbienti (Zorzi, 2016). 

  1. Accenni di storia della Catalogna medievale

1.1 La nascita della società feudale

Carta della Catalunya
Carta della Catalunya Vella (secoli XII-XV) (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Durante il IX secolo, l’area geografica ora conosciuta come Catalogna era essenzialmente una zona di frontiera tra regno carolingio e penisola iberica – la cosiddetta Marca Ispanica conosciuta anche come Catalunya Vella (Catalogna Vecchia) – i cui territori erano suddivisi in contee rette da conti nominati dal re, i quali affiancavano i vescovi nel rappresentare l’autorità sovrana. Tali officiali svolgevano funzioni amministrative e di controllo dell’ordine pubblico, alle quali si aggiungevano l’amministrazione della giustizia e la riscossione dei tributi. Conti, abati e vescovi formavano pertanto la classe dirigente catalana che, grazie ai privilegi ottenuti dalla corona, traeva profitti dall’esazione di censi e decime. Al tempo, le autorità laiche dipendevano dal marchese, il conte principale, mentre quelle ecclesiastiche dal vescovo di Narbona. Tuttavia, conti e marchesi, ma anche le varie autorità locali signorili, riuscirono gradualmente a consolidare il proprio potere sui territori amministrati, allontanandosi sempre più dall’autorità sovrana. Questo processo portò gradualmente alla frammentazione e alla regionalizzazione del potere, che divenne palese soprattutto alla morte di Carlo il Calvo nell’877. A questo punto, il conte Wilfredo il Villoso venne nominato governatore di una serie di territori, fino a che non riuscì a rendere il proprio potere ereditario e patrimoniale; inoltre, grazie anche alla politica matrimoniale, si diede particolare impulso alla colonizzazione delle aree circostanti, che gradualmente portò alla creazione della Catalunya Nova (Catalogna Nuova). Società ed economia però non cambiarono tanto velocemente quanto la compagine politica: infatti, la piccola proprietà terriera gestita da contadini liberi continuava a farla da padrone, mentre la schiavitù rurale era in declino, sebbene si facesse ancora ricorso ai servi (da notare che la parola mansus comparve nei documenti catalani a partire dal X secolo, momento in cui la società feudale catalana andava definendosi). Inoltre, il potere regio, che aveva già perso piglio nella Marca Ispanica, divenne così debole da non riuscire a scongiurare l’avanzata araba nella penisola iberica, tanto che le contee ispaniche divennero un’importante zona di confine tra mondo arabo e occidentale (Alcalà, 2010; Canal, 2018; Mallorquì, 2017a).

Durante l’XI secolo, si assistette a significativi mutamenti sociali dovuti principalmente al clima di insicurezza e violenza, all’aumento demografico, alla pressione araba e al rafforzamento dell’aristocrazia feudale, contemporaneamente all’indebolimento dei conti. Le signorie locali laiche ed ecclesiastiche iniziarono a sottomettere i contadini aumentando le pretese sulle rendite, che si fecero sempre più opprimenti, a usurpare terre e castelli infeudandoli, e a privatizzare la giustizia pubblica, in piena contrapposizione con l’autorità comitale e di fatto usurpando beni e diritti pubblici. I conti di Barcellona pertanto tentarono di ristabilire l’ordine, giungendo a un accordo con le signorie locali e unificando politicamente il territorio: accettando quanto ormai compiuto dai domini loci (l’usurpazione dei beni e la sottomissione dei contadini, nonché la privatizzazione della giustizia), si imponeva loro di riconoscere il conte come principale signore dei castelli. Si andò così a delineare una società infeudata, caratterizzata da vincoli orizzontali (tra persone della stessa estrazione sociale) e verticali (tra conti e aristocrazia feudale-cavalleresca), nella quale però iniziava a mutare la condizione dei contadini, sempre più asserviti ai vari signori feudali. Le novità sociali, politiche ed economiche spinsero altresì per un rinnovamento legislativo: durante il XII secolo, si passò dunque dalle leggi visigote agli Usi di Barcellona (Utsages de Barcelona), codice giuridico feudale basato sul diritto romano, in vigore fino al XV secolo. Gli Usi elencavano i malos usos e formalizzarono la divisione della società in homines nobiles e ignobiles: al primo gruppo appartenevano re, principi, prelati, magnati, castellani, conti e cavalieri, opportunamente inseriti in una gerarchia feudale, i quali traevano la maggior parte dei propri guadagni dai censi versati dai coloni; al secondo, invece, chiunque non fosse di nobile schiatta, indipendentemente dalla propria ricchezza, quindi mercanti, artigiani e infine contadini liberi o servi. Questi ultimi erano a loro volta suddivisi in due categorie: i rustici, ai quali era affidato un manso da lavorare (casa colonica, terreni e bestiame annessi), e coloro i quali erano detti bacallars, villani (Alcalà, 2010; Canal, 2018; Freedman, 1986; Mallorquì, 2017a; Mallorquì, 2017b).

1.2 La corona di Aragona

Nel 1162, morì Ramòn Berenguer IV, conte di Barcellona e principe di Aragona; l’eredità passò al figlio Alfonso II il Casto, il quale divenne il primo sovrano della corona d’Aragona. Il regno nacque pertanto dall’unione di due territori e popoli (anche di nuova colonizzazione) – aragonese e catalano (Catalunya Vella e Nova) – che mantennero terre, costumi, leggi e istituzioni propri: la corona d’Aragona fu così a capo di una struttura sociopolitica plurale e riuscì nel tempo a inglobare altri territori, inaugurando in questo modo una stagione di riorganizzazione amministrativa e fiscale (Canal, 2018; Mallorquì, 2017a; Mallorquì, 2017b).

Per quanto riguarda la società catalana, il XII e il XIII secolo furono estremamente vivaci: si assistette a un generale aumento demografico, dovuto principalmente allo sviluppo produttivo (si perfezionarono allevamento ovino, che forniva carni, pelli e latte, la coltura estensiva di cereali, vite, zafferano, lino e canapa, e i settori tessile e conciario), al conseguente miglioramento dell’alimentazione, all’incremento della fertilità, e infine all’annessione dei territori andalusi. La popolazione tese a concentrarsi nei maggiori centri abitati, Barcellona in primis; il mondo rurale, invece, ruotava intorno alla masseria, che poteva portare anche all’ereditarietà dei terreni in usufrutto. In questo periodo, nonostante l’esuberanza socioeconomica, si assistette a conflitti anche violenti tra signori feudali, proprietari delle terre e coloni, i quali furono soggetti a contratti sempre più vincolanti. Gli scontri vertevano essenzialmente su questioni relative alle imposte e alle enfiteusi (un contratto che prevedeva per il colono il versamento di un contributo periodico al proprietario terriero e l’obbligo di migliorare il fondo assegnatogli) (Treccani, n.d.). In area catalana, però, non mancavano anche i remences, i contadini-servi legati forzosamente alla terra e al suo proprietario; i domini imponevano loro una serie di obbligazioni e diritti (malos usos), tra cui il diritto di remensa, l’imposizione cioè di un riscatto al contadino che volesse lasciare il manso (Alcalà, 2010; Canal, 2018; Freedman, 1996; Freedman, 1986; Mallorquì, 2017b).

1.3 La crisi del XIV-XV secolo

Pagina del Llibre del Sindicat Remença
Llibre del Sindicat Remença, 1448 (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Tra XIV e XV secolo, l’area catalano-aragonese, e in generale l’Europa, assistette a una forte crisi socioeconomica e demografica. La popolazione iniziò a diradarsi a causa soprattutto di carestie, epidemie e guerre sempre più frequenti e ravvicinate. Soprattutto a partire dal 1333 (definito mal any primer, il primo anno negativo), la carestia diede una battuta d’arresto alla produzione agricola: il cibo era scarso, il costo della vita subì un’impennata, la speculazione aumentò, l’indice di mortalità salì. A seguire, la Peste Nera (1348) provò ulteriormente una popolazione già ridotta alla fame; a tutto ciò, si sommarono anche una serie di terremoti che scossero la regione. Al calo produttivo e demografico corrispose l’abbandono delle terre: oltre all’elevata mortalità, soprattutto infantile, la migrazione verso i centri urbani portò gradualmente allo spopolamento delle campagne. Se i contadini più poveri lasciavano la terra, quelli più ricchi, i grassos, e i proprietari terrieri ne approfittarono per accaparrarsi i mansi abbandonati a prezzi stracciati. I signori feudali, inoltre, strinsero ancor più le maglie del proprio potere sui sottoposti: lo sfruttamento dei coloni si accentuò, vennero imposte nuove e più dure condizioni e si intensificò il giogo dei malos usos. Questa durezza portò nuovamente a scontri e a tentativi di rivolta tra i remences, i servi che rimanevano sicuramente quelli più duramente colpiti. Durante il XV secolo, periodo di turbamenti politici, i remences iniziarono a costituirsi in sindacati tra il 1448-1449, mentre si dovette aspettare la sentenza provvisoria del 1455 per ottenere la sospensione temporanea dei malos usos (Canal, 2018; Freedman, 1996; Orti Gost, 2015).

1.4 La guerra civile e le guerre dei remences

Ferdinando e Isabella di Spagna
Miniatura raffigurante i re cattolici di Spagna. L’iscrizione in alto recita “Ferdinando e Isabella, re di Castiglia e Aragona” (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Il decennio 1462-1472 scosse il regno d’Aragona e Catalogna con due conflitti principali: il primo, nella parte montana a nord-est della regione tra bande di remences e signori locali (la prima guerra dei remences); il secondo, invece, coinvolse le fazioni cittadine. Questi furono inoltre gli anni in cui la corona era in piena crisi dinastica; per di più, Valencia e Aragona avevano ormai surclassato la travagliata Catalogna per prestigio e importanza. Inoltre, nel 1469, si celebrò il matrimonio tra Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, un successo sia sul piano diplomatico, sia su quello di alleanze sovranazionali, inaugurando così la stagione dei reali cattolici di Spagna, le cui nozze decretarono sicuramente l’unione dinastica delle due corone, ma non quella delle due anime iberiche, tanto che quella castigliana rimase predominante. Ferdinando si serviva di un luogotenente generale per governare i territori catalano-aragonesi (Alcalà, 2010; Canal, 2018).

La guerra civile stava annientando la Catalogna sia sul fronte politico-dinastico, sia su quello socioeconomico. Il nord-est, la cosiddetta Catalunya Vella, terreno di scontro della servitù rurale (che costituiva buona parte della popolazione contadina) (Freedman, 1996), rimase impoverito e distrutto: i signori premevano per l’annullamento della sentenza provvisoria del 1455, che aveva sospeso temporaneamente i malos usos; tali pressioni suscitarono la reazione dei ceti subalterni, che continuavano a soffrire le vessazioni e le confische da parte dei maggiorenti. Ferdinando dovette pertanto cercare di arginare la questione intavolando dei negoziati: i signori ottennero la revoca della sentenza del 1455; nel mentre, i remences incalzavano per assicurarsi l’eliminazione dei malos usos, riuscendo però a guadagnare solo il diritto di assemblea, una magra consolazione che portò alla rivolta di Mieras tra 1484 e 1485. Il re aprì nuovamente le trattative, che culminarono nella proclamazione della sentenza arbitrale di Guadalupe nel 1486. Quest’ultima sanciva l’abolizione dei malos usos, ma non scongiurò lo sfruttamento della condizione servile contadina, dato che permase l’obbligo di rimanere soggetti alla giurisdizione del castello di pertinenza e di coltivare i terreni; i contadini dovettero altresì saldare i canoni arretrati e pagare mezza lira per ogni mal uso abolito, mentre i castelli vennero restituiti ai signori, che percepirono anche un indennizzo. Venne infine imposta una tregua della durata di cento anni e si verbalizzarono i condannati per ribellione, una sentenza che poteva però essere condonata con il pagamento di 50.000 lire al regno (Canal, 2018; Freedman, 1996).

2. La condizione servile nell’Europa medievale

«All’epoca delle invasioni e nei primi tempi dei regni barbarici, vi erano ancora, in tutta Europa, molti schiavi, in numero maggiore, secondo ogni apparenza, che nei primi tempi dell’Impero» (Bloch, 1975)

Tra l’età tardoantica e gli albori del medioevo, gli schiavi erano merce «abbondante e a prezzo accessibile» (Bloch, 1975), tuttavia, durante l’Alto Medioevo e soprattutto a partire dal IX secolo, questa pratica iniziò a rarefarsi e a modificarsi. Si andò infatti a prediligere una nuova forma di sfruttamento della manodopera servile: il servo tenens doveva al padrone una frazione del suo tempo e della sua rendita, un canone, in cambio di un appezzamento da mantenere, un manso (Bloch, 1975; Freedman, 1986; Panero, 2022). Questo era il fulcro dell’economia curtense: i grandi latifondi ormai lottizzati in curtes si divisero così in pars dominica – alla diretta dipendenza del signore, che pretendeva si lavorasse il podere gratuitamente tramite corvées – e in pars massaricia, affidata a coloni che la lavoravano trattenendo i frutti della propria attività, cedendone una parte al signore. Tuttavia, questo sistema non era estraneo allo sfruttamento di manodopera schiavile: alcuni coloni non erano liberi, rimanevano privi di diritti giuridici e il loro lavoro consisteva principalmente in corvées, sebbene dovessero comunque pagare un canone al signore. Nell’Europa occidentale, questo modello andò a scemare tra X e XII secolo, quando gradualmente si impose la manodopera salariata; permaneva comunque lo status di servo non libero soggetto al pagamento di un censo al signore. Dall’altra parte, i signori territoriali esercitavano sui propri coloni e sugli abitanti liberi dei territori sotto la propria giurisdizione una serie di prerogative e diritti, soprattutto fiscali, giuridici, patrimoniali, di produzione; esigevano una serie di tributi e prestazioni, dalla manodopera a quelli militari, che talvolta erano argomento di liti e contese tra domini e sottoposti (Wickham, 2018).

2.1 La situazione catalana

Miniatura Speculum Virginum
Frammento tratto dallo Speculum Virginum ms., XIII-XIV secolo. Rheinisches Landesmuseum, No. 15326 (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Nonostante l’aristocrazia feudale avesse ottenuto una certa importanza e un rinvigorito potere sin dal IX secolo, emancipandosi dall’autorità comitale e reale, e sebbene i malos usos e i privilegi feudali fossero ormai diventati consuetudine tra il XII e il XIII secolo, è errato pensare che la condizione servile traesse origine nella fondazione del regno catalano-aragonese: essa venne imposta alla popolazione rurale libera tra XI e XIII secolo, quando divenne una pratica diffusa e consolidata, specialmente dopo la Peste Nera. Inizialmente, infatti, i contadini erano liberi di colonizzare i territori di nuova conquista, in cambio del pagamento di un canone (tasca), corrispondente all’undicesima parte della produzione. L’espansione territoriale ebbe una temporanea battuta d’arresto verso l’XI secolo, portando le signorie feudali a gradualmente inasprire la condizione dei coloni, pretendendo inoltre fino alla metà dei frutti dell’attività contadina e imponendo i malos usos (Freedman, 1996; Freedman, 1986; Freedman, 2013). Successivamente, la crisi socioeconomica, politica e demografica del XIV secolo, da una parte favorì l’aristocrazia terriera, che riuscì ad impossessarsi degli incolti e dei terreni abbandonati, imponendo sempre più i propri privilegi feudali ai contadini; dall’altra, il diradarsi della forza lavoro – dovuto sia al calo demografico, sia alle migrazioni verso i centri urbani – penalizzò i proprietari terrieri, che videro diminuire la possibilità di riscuotere censi e tributi. La reazione fu ancora l’inasprimento delle condizioni imposte ai propri fittavoli, i quali vennero sempre più vincolati al manso gestito, perdendo gradualmente la possibilità di emancipazione e divenendo di fatto servi (Alcalà, 2010; Freedman, 1996).

Le signorie rurali inoltre fecero leva sui cosiddetti malos usos. Come si poteva giustificare lo sfruttamento della popolazione rurale? L’origine delle prerogative signorili e la divisione cetuale della società venne fatta risalire all’epoca della conquista catalana da parte dei Carolingi, i quali avevano scongiurato l’avanzata araba nella Marca Ispanica anche grazie all’intervento della nobiltà locale, già impegnata nella lotta contro gli invasori. Chi si era battuto per la liberazione del proprio paese aveva dunque ottenuto il diritto di comandare sugli altri, loro sottoposti. Questo mito venne addirittura riportato in commentari giuridici del XIII secolo, proprio per dare fondamento a consuetudini e privilegi feudali, giustificando l’imposizione della condizione servile dei remences (Freedman, 1996). Per citare lo storico statunitense Paul Freedman «without denying that the servile population was ethnically Catalan, the myth of the peasants’ cowardly ancestors explained why they were treated as if they were a conquered and captive people. (…) Those who aided or even came before Charlemagne in fighting the enemy were to be privileged and exalted in the future history of Catalonia, while those who failed this moment of testing would be serfs, along with their descendants» (Freedman, 1996).

Relativamente alla situazione dei contadini catalani, bisogna inoltre considerare l’eterogeneità della società rurale, definitasi tra XI e XIII secolo. Infatti, sebbene non vi siano palesi differenze legislative tra Catalunya Vella a nord e Catalunya Nova a sud, i contadini delle contee più antiche e settentrionali tendevano ad essere maggiormente soggetti a una condizione servile rispetto a quelli dell’area meridionale, formalmente liberi. Questa differenziazione non pare però adattarsi alla condizione della popolazione dell’area montana dei Pirenei, dove l’allevamento del bestiame aveva plasmato relazioni differenti con i signori feudali. In aggiunta, lo sviluppo del mercato, la formalizzazione della tassazione statale e la recezione del diritto romano avevano introdotto novità socioeconomiche tra XIII e XIV secolo, come per esempio l’utilizzo sempre più frequente del contratto di enfiteusi, che definiva in maniera puntuale diritti e doveri dei coloni e la condizione di uomo libero e servo. Non mancarono certo scontri e confronti tra contadini e signori, i quali, specialmente dal XIII secolo, imposero sempre più la condizione servile (remença) e i malos usos. Queste obbligazioni permettevano al signore un controllo serrato del lavoro sui mansi, nonché garantirsi delle rendite con continuità, mantenendo integra la proprietà senza possibilità di riscatto da parte dei coloni (Alcalà, 2010; Freedman, 1996; Mallorquì, 2017b; Orti Gost, 2015).

  1. Le cause de las Guerras remensas
Targa compromesso di Amer
Targa a celebrazione dei 500 anni dalla firma del compromesso di Amer (fonte: Wikimedia, licenza CC BY-SA 3.0)

Come abbiamo precedentemente spiegato, le radici della rivolta dei remences sono da rintracciarsi nel XIV secolo, quando il giogo dei malos usos si intensificò. Come spiega Pere Ortis Gost, i protagonisti di questi scontri furono ovviamente i contadini, il re e i signori feudali: la monarchia e le signorie rurali avevano interessi differenti, tanto che la corona andò poi a supportare parte delle richieste dei remences per arginare lo strapotere dei domini loci, a partire dalla temporanea sospensione dei malos usos nel 1455 a opera di Alfonso il Magnanimo (Lluch Bramon, 2014; Orti Gost, 2015). Infatti, la corona era al tempo gravata da difficoltà economiche, esacerbate anche dal fallimento della banca Descaus-Olivella; era chiaro che mantenere i contadini in condizione servile scongiurava nuove entrate allo Stato: la particolare condizione giuridica dei remences, infatti, li svincolava dalla giurisdizione reale. La monarchia pertanto puntava alla redistribuzione della terra, in modo tale da poter esercitare la propria autorità su di essa, favorire una maggiore mobilità sociale e arginare l’arbitrio signorile. La strumentalizzazione delle istanze dei remences palesava la posizione della corona: i contadini rappresentavano il giusto oppositore politico ai domini loci (Alcalà, 2010; Canal, 2018; Lluch Bramon, 2014; Orti Gost, 2015).

Con l’inizio della guerra civile nel 1462, i remences – già organizzati in sindacati dal 1448-1449 – lottarono per affermare i propri diritti, supportando la monarchia contro le signorie rurali. Inizialmente, però, non riuscirono a ottenere quanto sperato; anzi, Ferdinando il Cattolico annullò la sentenza del 1455, concedendo nuovamente ai signori feudali l’imposizione dei malos usos, privilegio concesso in cambio di una cospicua donazione alle casse statali. Tra il 1484-1485 (seconda guerra remensa), i remences capitanati da Pere Joan Sala si ribellarono violentemente, danneggiando le proprietà signorili. La rivolta venne però repressa, i suoi capi giustiziati e i contadini vennero obbligati a indennizzare i domini che avevano subito danni durante i duri scontri. Nonostante le dure condizioni imposte ai ribelli e sebbene la corona avesse mantenuto invariato lo status quo vigente, i remences riuscirono infine ad ottenere la soppressione dei malos usos con la Sentenza arbitrale di Guadalupe del 1486 (Lluch Bramon, 2014; Orti Gost, 2015).

Sentenza di Guadalupe
Inizio della Sentència de Guadalupe del 1486, con cui Ferdinando d’Aragona decretò la fine delle guerre dei remences (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Conclusione

Il XIII secolo fu cruciale per la definizione della condizione servile dei contadini catalani, dei rapporti con le signorie rurali (soprattutto dell’area settentrionale del regno), e del fondamento giuridico delle pratiche feudali. Come si è detto, vi erano delle differenze tra nord e sud, montagna e pianura, tra Vella e Nova Catalunya, delineando una situazione poco omogenea e ambigua (Freedman, 1996). Durante questo periodo, andarono inoltre esplicitandosi le premesse alle guerre dei remences durante il XV secolo, il cui scopo non era stravolgere la gerarchia feudale o sovvertire l’autorità reale o signorile, né tanto meno smettere di lavorare la terra. I remences cercarono di ottenere migliori condizioni per sé e per i propri eredi, e soprattutto l’annullamento definitivo dei malos usos imposti ed esatti dai domini, un peso non soltanto fisico, ma anche e soprattutto simbolico: ormai radicati, questi ultimi rappresentavano l’oppressione dei signori feudali, poiché rivelavano la loro volontà di vincolare la forza lavoro alla terra, senza possibilità di riscatto, o quanto meno limitandola, assicurandosi pertanto un guadagno fisso, nonché il mantenimento costante dei propri possedimenti. Essere soggetti ai malos usos significava di fatto essere servi di un padrone, essere remences (Alcalà, 2010; Lluch Bramon, 2014).

I contadini diressero dunque le proprie istanze alla monarchia per rivendicare la propria libertà e diritti con l’annullamento delle imposizioni signorili, considerate ingiuste, minando di fatto lo status quo vigente (Alcalà, 2010; Lluch Bramon, 2014). Nonostante la lotta, anche violenta, per liberarsi dalla condizione servile, i remences non riuscirono ad ottenere tutto quanto sperato. In effetti, la Sentenza arbitrale di Guadalupe del 1486 pose fine all’arbitrio signorile abolendo i malos usos; tuttavia, non venne del tutto soppressa la servitù, che perdurò per tutto l’antico regime. Inoltre, la rivolta dei contadini venne duramente repressa e vennero imposte loro pesanti sanzioni. Una magra consolazione per i ceti subalterni, che tra XV e XVI si agitarono in tutta Europa.

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico

Federica Fornasiero è medievista di formazione, laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano e diplomata alla scuola APD dell’Archivio di Stato di Milano. Ad ora è dottoranda presso l’Università degli Studi di Bergamo, con un progetto sull’emigrazione italiana nel XIX secolo. I suoi interessi principali sono la storia sociale, economica e di genere, ma non disdegna anche la storia delle chiese e delle eresie medievali.

Bibliografia

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Immagine di copertina: particolare di miniatura contenuta nello Speculum Virginum, raffigurante una delle tre condizioni femminili, XIII secolo. Rheinisches Landesmuseum, Bonn (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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