di Davide Galluzzi
Parlare di stregoneria e caccia alle streghe nell’Ungheria d’Età Moderna significa parlare di un fenomeno estremamente complesso. Non bisogna infatti dimenticare come, per buona parte del periodo considerato, il Regno non fosse diviso solo politicamente, con maggior parte del territorio sotto dominazione ottomana, ma anche religiosamente, con una forte presenza calvinista in diverse regioni ungheresi.
Questa divisione della cristianità ebbe un ruolo fondamentale nelle peculiarità della caccia alle streghe ungherese grazie allo sviluppo, come vedremo, di una assai più cauta demonologia calvinista. La complessità di questo fenomeno, tuttavia, non consiste solo nell’aspetto religioso, ma anche nel fatto che l’analisi della stregoneria, in Ungheria come altrove, comporta l’analisi di numerosi aspetti delle società d’Età Moderna e impone un approccio multidisciplinare che non si limiti alla mera ricostruzione degli eventi o al solo aspetto religioso.
Cercheremo quindi di analizzare il tema di questo articolo partendo sì dallo sviluppo della menzionata demonologia calvinista, ma muovendoci poi verso l’analisi di fenomeni o di figure chiave della società ungherese per concludere infine con qualche caso di studio.
- La demonologia calvinista ungherese e il patto con il diavolo
Abbiamo accennato, nell’introduzione a questo articolo, alla nascita e sviluppo di una demonologia calvinista che ebbe un peso fondamentale nel determinare le peculiarità della caccia alle streghe in diverse regioni dell’Ungheria in Età Moderna. Quello che potrebbe stupire, a una prima e non attenta occhiata, è il poco spazio che il tema della stregoneria sembrerebbe ricoprire in questa particolare trattatistica.
La demonologia protestante era, infatti, completamente diversa da quella cattolica. Secondo i calvinisti magiari, l’attività di Satana era limitata e dipendente dalla volontà di Dio. Di conseguenza, essendo le streghe agenti del demonio, la loro attività non era discussa nel dettaglio: Satana faceva loro credere di poter fare del male, ma questa, come molte altre, non era che una mera illusione. La centralità della Divina Provvidenza aveva, inoltre, un altro, fondamentale risvolto, ossia l’opinione dei calvinisti secondo la quale qualsiasi tipo di magia, anche quella bianca o popolare, fosse opera del demonio e, quindi, da perseguitare: chi la esercitava, infatti, non si affidava completamente a Dio e, di conseguenza, era sedotto da Satana (Sz. Kristóf, 2019).
Il processo di costruzione e sistematizzazione di questa demonologia, tuttavia, fu lento e assai tortuoso. Potremmo fissarne l’inizio nel 1561, quando Péter Melius, uno dei padri del calvinismo magiaro e primo vescovo riformato di Debrecen dal 1558 al 1572, pubblicò la Confessio Ecclesiae Debrecinensis, scritta insieme a György Ceglédi e Gergely Szegedi. Il pensiero di Melius esprime quanto detto poco sopra: il potere del diavolo e delle streghe sarebbe limitato e tutte le pratiche magiche, attribuibili a Satana, sono da condannarsi (Sz. Kristóf, 2019).

Queste posizioni contribuirono a generare nel vescovo un atteggiamento assai più cauto e scettico nei confronti della stregoneria: affermando la limitatezza dei poteri del demonio e insistendo sulla sua natura puramente spirituale, Melius metteva in discussione la possibilità che Satana potesse apparire in forma umana o animale durante i Sabba e avesse rapporti fisici con le streghe. Inoltre, secondo il pastore, queste ultime non colpivano con i loro malefici gli uomini pii, bensì gli empi che si erano allontanati dalla Fede: l’azione delle streghe era perciò la punizione inflitta da Dio attraverso Satana e questi suoi particolari servitori (Sz. Kristóf, 2019).
Non è un caso, quindi, che durante i più di dieci anni di ministero di Péter Melius, Debrecen non vide processi per stregoneria: non significa che i magistrati fossero definitivamente persuasi dalle idee del pastore, ma che non volessero agire contro di lui. Corollario fondamentale del pensiero elaborato dal vescovo, infatti, era che le streghe non andassero punite con la pena capitale, ma dovessero fare penitenza e riavvicinarsi a Dio (Sz. Kristóf, 2019).
I successori di Melius avevano idee assai più radicali e, non a caso, solo tre anni dopo la sua morte la città di Debrecen vide il primo processo per stregoneria e, nel 1575, venne emessa la prima condanna a morte. Sembrerebbe fondamentale, a tal riguardo, la predicazione di Tamás Félegyház, proprio da Melius inviato a Kolozsvar per difendere la fede calvinista dall’espansione dell’Antitrinitarismo, il quale tornò dalla città con la convinzione che chi esercitava la magia fosse meritevole della pena di morte (Sz. Kristóf, 2019).
La prima metà del XVII secolo vide il maggior numero di roghi accendersi nella città ungherese e il ritorno prepotente dell’idea del Sabba e del patto con il diavolo, anche se la svolta più importante in questo torno di anni fu dovuta all’opera di Alexis János Kecskeméti, secondo il quale anche le levatrici e i guaritori popolari violavano la Divina Provvidenza cercando di curare i malati ricorrendo anche a rimedi magici: la malattia, secondo Kecskeméti, era inviata da Dio e a Lui solo spettava toglierla. Conseguenza principale di questo pensiero fu un forte aumento di levatrici e guaritori accusati e processati per stregoneria: su diciannove imputati tra il 1620 e il 1640 ben sei appartenevano a tali categorie (Sz. Kristóf, 2019).
Il XVII secolo portò anche a un altro cambiamento fondamentale per la demonologia calvinista. L’assedio di Heidelberg del 1622, infatti, spinse sempre più aspiranti pastori ungheresi a recarsi a studiare in Inghilterra o nelle Province Unite, determinando così un’influenza sempre maggiore del Puritanesimo sulla vita religiosa di Debrecen e delle altre regioni riformate. Esponente di spicco di questa nuova tendenza fu Mátyás Nógrádi, il quale ebbe anche un ruolo fondamentale nel Concilio di Margita del gennaio 1681, durante il quale le Chiese calviniste d’Ungheria decisero che non solo le streghe, ma anche chi si rivolgeva loro, dovessero venire espulse dalla comunità dei fedeli. Pur ribadendo l’opinione tradizionale della limitatezza dei poteri di Satana, il Concilio concluse che le streghe e gli “specialisti della magia”, ossia quelle figure che esercitavano magia bianca o popolare come i guaritori, dovessero essere lapidati o arsi al rogo per aver voltato le spalle a Dio (Sz. Kristóf, 2019).
L’influenza di Nógrádi emerge prepotentemente dalle decisioni conciliari. Il pastore, infatti, nella sua opera di predicazione aveva analizzato il patto con il diavolo, attraverso il quale le streghe abbandonavano Dio e abbracciavano Satana, dividendolo in due categorie: il patto esplicito, per esempio quello siglato con il sangue, e il patto implicito, ossia quello stipulato dai guaritori e da altri “specialisti” della magia. Secondo Nógrádi, quindi, la punizione doveva essere radicale: chi esercitava la magia doveva essere condannato a una morte non solo fisica, ma anche spirituale, ossia la dannazione dell’anima, essendo nemico della Chiesa e, quindi, della società civile (Sz. Kristóf, 2019).

Un altro aspetto interessante dell’interpretazione calvinista della stregoneria era la “catena” di peccati e crimini che si generava in seguito al primo peccato commesso, tramite il quale si perdeva la Misericordia di Dio e si finiva, inevitabilmente, a commettere ulteriori atti peccaminosi. Non è da escludere che tale visione avesse una ricaduta sulle accuse di stregoneria lanciate contro persone ritenute di malaffare o che avessero commesso altri crimini, in special modo quelli ritenuti più vicini e collegati alla stregoneria come, per esempio, la trasgressione sessuale, il furto o la blasfemia. È interessante, infatti, notare come, secondo alcuni storici, la natura di tali trasgressioni fosse collegata al significato profondo della stregoneria, il cui maleficio poteva venire visto come appropriazione di qualcosa, fosse essa la potenza sessuale maschile, la salute fisica o i beni materiali, tracciando così un parallelo con i crimini associati all’esercizio della magia (Sz. Kristóf, 2017).
Abbiamo più volte fatto cenno, nel corso di questa disamina, a un elemento che era comune tanto alla demonologia protestante quanto a quella cattolica, ossia il patto con il diavolo. Importanti cenni al riguardo si trovano nel trattato giuridico Praxis criminalis, scritto da Benedict Carpzov nel 1635 ed entrato a far parte del corpus juris ungherese sul finire del XVII secolo. Secondo Carpzov, il patto con il diavolo era qualcosa di concreto e poteva avere forma orale o scritta, anche se l’autore nulla diceva su questa seconda forma in quanto le informazioni al riguardo si sarebbero dovute ottenere dalle streghe durante la confessione (Sz. Kristóf, 2008).
Proprio le confessioni sopravvissute costituiscono, a tal riguardo, una fonte estremamente preziosa. Per semplificare, potremmo quasi tracciare una sorta di parallelo e ritenere il patto demoniaco una bizzarra forma di transazione economica, un vero e proprio scambio tra Satana e le streghe. Non sorprenderà quindi la presupposta esistenza delle due menzionate forme di patto, in linea con la legge ungherese dell’epoca che riteneva valida la stipula di un contratto litterali documento vel humano testimonio, ossia tramite documento scritto o in forma orale supportata dalla presenza di testimoni (Sz. Kristóf, 2008). Questa seconda forma, ossia quella orale, era usata prevalentemente da quegli strati medio-bassi della società che, forse non a caso, avevano un ruolo importante come accusatori o accusati durante i processi per stregoneria: non sembrerà inusuale, di conseguenza, che la familiarità con tali forme contrattuali potrebbe essere emersa durante la ricostruzione del patto demoniaco fatta durante gli interrogatori e le confessioni. Vale la pena, quindi, spendere qualche parola al riguardo.
Il patto orale con il demonio era fortemente impregnato di quello che potremmo definire “simbolismo del corpo”, ossia di un utilizzo del corpo, soprattutto della mano, volto a legittimare “legalmente” la validità di questo bizzarro tipo di contratto. Tale simbolismo poteva andare dalla banale stretta di mano, con la quale numerose streghe affermavano di aver suggellato l’accordo e che veniva usata da quei religiosi che, come Melius, sostenevano l’impossibilità del patto in quanto il diavolo, di natura spirituale, non possedeva corpo né mano, a un uso del sangue (Sz. Kristóf, 2008).
Quest’ultimo aspetto non deve essere sottovalutato e nasconde risvolti interessanti. La stipula attraverso il sangue prevedeva un taglio al dito della mano dell’aspirante strega per spillare qualche goccia del prezioso fluido, finalizzando così il contratto. È importante notare come questo taglio non venisse effettuato volontariamente dalla strega, ma avvenisse dietro forzatura di una “collega” o del demonio stesso. Aspetto apparentemente insignificante, questo particolare nascondeva invece un forte significato che affondava le proprie radici nella legge dell’epoca secondo la quale chi mostrava per primo il sangue versato in un duello o in un conflitto poteva far valere assai più facilmente le proprie ragioni in tribunale, indipendentemente dal ruolo avuto nell’inizio di tale duello o rissa. Con questo dettaglio, quindi, la strega poteva presentarsi come vittima della violenza di Satana durante la confessione e non come libera partecipante del Sabba: semplicemente non aveva potuto mostrare immediatamente la ferita perché le riunioni demoniache si svolgevano lontano da casa (Sz. Kristóf, 2008).
Non solo, secondo le confessioni ottenute vi erano altre gestualità o terminologie appartenenti al mondo legale che venivano utilizzate durante la stipula del patto. Sembrerebbe quindi legittimo affermare che, durante gli interrogatori e le confessioni ottenute, le persone accusate di stregoneria facessero uso delle proprie conoscenze sociali, attingendo informazioni legate alla vita quotidiana o alle pratiche legali per costruire l’immagine del patto diabolico, suggerendo così la necessità di un approccio multidisciplinare per la corretta ricostruzione e interpretazione di questi aspetti (Sz. Kristóf, 2008).
- Streghe, guaritori e professionisti della magia: le accuse di stregoneria nell’Ungheria d’Età Moderna
Quanto abbiamo visto fino a ora ebbe ricadute fondamentali sulla persecuzione della stregoneria: le Chiese calviniste e non solo, infatti, premevano per l’eliminazione di questa arte diabolica e, secondo le leggi dell’epoca, le autorità civili erano impegnate nella repressione della stregoneria. I principali sospettati da parte delle autorità erano quelle figure, estremamente importanti per le società dell’epoca, che si riteneva avessero connessioni con il mondo magico o che esercitassero la magia bianca come, per esempio, i guaritori popolari o le levatrici (Sz. Kristóf, 2017).

Le accuse di stregoneria, è bene ricordarlo, evidenziavano sovente un acutizzarsi delle tensioni sociali, lasciando intravvedere alle loro spalle conflitti quotidiani di vicinato, rapporti di coabitazione e lotte tra i “nuovi ricchi” e i ceti impoveriti o marginalizzati (Sz. Kristóf, 2017 e Klaniczay, 2017). In numerosi casi, le vittime affermavano di essere stati colpiti dal maleficio della strega dopo averla in qualche modo offesa, per esempio rifiutandosi di adempiere a una richiesta, negando il proprio aiuto o venendo meno a un patto precedentemente stipulato. Sostanzialmente questi casi mostravano un nesso tra violazione di una norma sociale, spesso legata a momenti fondamentali della vita come battesimi o matrimoni, e relativa punizione, lasciando trasparire da queste accuse una forma regolata di coesistenza civile. Vi era comunque un altrettanto vasto numero di accuse che mostravano una serie di problemi sociali legati in misura minore a rapporti di parentela e, in misura assai maggiore, a rapporti di vicinato o relazioni professionali (Sz. Kristóf, 2017).
Potrebbe ora sorgere spontanea la domanda: chi erano le persone accusate di stregoneria? In gran parte erano, come già accennato, guaritori popolari, levatrici e ostetriche, sui quali torneremo a breve, o altri “professionisti” della magia. Questi ultimi erano individui che si riteneva fossero impiegati in attività comprendenti l’uso della magia come, per esempio, rabdomanti, sensitivi ai quali ci si rivolgeva per ritrovare oggetti perduti o persone scomparse, indovini o persone che si pensava fossero esperte in magie d’amore (Kis-Halas, 2017).
Vale ora la pena spendere qualche parola circa i più volte menzionati guaritori popolari. Non dobbiamo, anzitutto, dimenticare come il mondo medico in Età Moderna non fosse gerarchico, bensì plurale, lasciando prosperare, accanto a quello ufficiale, un mondo costituito di guaritori, medici itineranti e ciarlatani cui i pazienti potevano rivolgersi per trovare sollievo ai propri mali (Kis-Halas 2017). Questa galassia non ufficiale svolgeva quindi un ruolo che potremmo definire positivo nelle società dell’epoca, avendo parte fondamentale nel processo di identificazione del presunto maleficio, causa del male, e sua eliminazione, necessaria alla buona guarigione del paziente. Proprio questa dinamica poteva rivelarsi pericolosa poiché si pensava che, tramite tale processo, i guaritori interferissero con la sfera sovrannaturale (Kis-Halas 2017 e Klaniczay 2017).

Come abbiamo già visto, si riteneva che la malattia fosse inflitta da Dio come castigo o la si reputava il risultato della malvagità umana, ossia di quelle streghe considerate, grazie all’influenza calvinista, alleate di Satana che punivano il peccatore per volere di Dio. Pur avendo un ruolo positivo, i guaritori cercavano di trattare il maleficio come pratica umana, proponendo un processo di identificazione e guarigione, opponendosi quindi al volere di Dio (Kis-Halas, 2017). Per procedere con l’identificazione del maleficio e della strega che lo aveva lanciato, il guaritore popolare poteva operare in due modi: il primo prevedeva di obbligare la strega a palesarsi attraverso l’ordalia del sale o il danneggiamento di un bene di proprietà della sospettata, ritenendo che la strega sentisse tale danno sul proprio corpo; il secondo contemplava il ferimento di un animale, solitamente un gatto, che si reputava essere l’alter ego della servitrice del demonio (Kis-Halas, 2017). Una volta diagnosticato il maleficio come causa dei problemi patiti dal paziente, iniziava poi il processo di guarigione che altro non era se non una lotta contro la strega, unendo elementi di medicina popolare, quali pozioni o bendaggi, ad aspetti sovrannaturali, generando così facilmente il sospetto dei tribunali in tempo di crisi (Kis-Halas 2017 e Klaniczay 2017).
Anche altri fattori contribuivano al clima di sospetto che circondava queste figure professionali. Oltre a quanto menzionato poco sopra e ad altri poteri soprannaturali che si pensava collegassero queste figure al mondo della sessualità e della fertilità e al ciclo della vita e della morte, vi erano anche conflitti sociali e professionali a mettere a rischio questa galassia di medicina popolare (Kis-Halas 2017 e Klaniczay 2017). Non dobbiamo infatti dimenticare come spesso fossero proprio i guaritori a lanciare accuse contro altri colleghi per eliminare la concorrenza. Un ruolo importante in tal senso era dato dal fatto che un cliente poteva visitare più di uno “specialista”, cambiandolo frequentemente qualora ritenesse insufficienti le azioni del precedente. Il nuovo “professionista” poteva quindi facilmente colpire il collega affermando che il maleficio che funestava il paziente fosse stato lanciato proprio dal guaritore precedente. Era questa, però, un’arma a doppio taglio perché generava l’idea che guaritori e streghe appartenessero alla stessa famiglia, lasciando quindi a una questione di interpretazione la positività o meno del loro ruolo nella società dell’epoca, cosa che poteva rivelarsi assai pericolosa in tempi di caccia alle streghe (Sz. Kristóf, 2017 e Klaniczay, 2017).
Vi era poi un altro conflitto sociale che poteva portare alla più volte menzionata accusa, ossia i rapporti con gli esponenti della medicina ufficiale. I barbieri, per esempio, esercitavano la loro professione legalmente, secondo le norme stabilite dalla gilda: venivano riconosciuti come professionisti in grado di diagnosticare, eventualmente, i problemi nati dal maleficio, ma non li si riteneva in grado di interferire con la sfera soprannaturale. Di qui la tendenza a rivolgersi loro come ultima spiaggia, preferendo l’intervento dei guaritori popolari (Sz. Kristóf, 2017 e Kis-Halas, 2017).
Da ultimo, poteva attirare sospetti proprio, e curiosamente, il successo nella cura: secondo una linea di pensiero comune, infatti, il maleficio poteva essere tolto solo da chi lo aveva lanciato. Non sorprenderà, quindi, che talvolta i guaritori rifiutassero di aiutare i pazienti, timorosi di venire accusati di stregoneria (Sz. Kristóf, 2017 e Kis-Halas, 2017).
- Casi di studio: Debrecen, Kolozsvár e Szeged
È necessario ora riportare qualche caso di persecuzione che mostri in concreto quanto illustrato sino a ora. In particolare, abbiamo deciso di concentrare l’attenzione sulla città di Debrecen, centro principale della Contea di Bihar e del calvinismo magiaro, su Kolozsvár, l’odierna Cluj-Napoca, e sulla città di Szeged, dove avvenne la più grande caccia alle streghe nella storia d’Ungheria.

Nella Contea di Bihar si sono svolti, tra 1575 e 1766, 217 processi per stregoneria contro 303 accusati. Di questi, solo il 32% si è concluso con una condanna capitale. La cosa non deve stupire: la regione, come accennato, era il nucleo principale del calvinismo ungherese che, come abbiamo visto, era assai più scettico verso le accuse di stregoneria e il presunto patto con il diavolo. In linea con la tradizione calvinista, inoltre, parte degli accusati, ossia il 27,06%, era accusata di aver compiuto anche altri crimini quali adulterio, fornicazione, furto e aborto (Sz. Kristóf, 2017).
Un ottimo esempio di quanto detto è dato dalle accuse lanciate contro la moglie del macellaio Márton Rácz, trasferitasi da Sámson a Debrecen insieme al marito nei primi anni del XVIII secolo. La coppia si era stabilita in una zona della città il cui vicinato era composto da persone anziane, da malati o da individui sull’orlo della bancarotta. Ben presto la signora Rácz, di bell’aspetto e le cui fortune economiche sembravano prosperare grazie alla fiorente attività del marito, venne accusata di condurre una vita licenziosa e di aver lanciato malefici che causarono le sfortune del vicinato, divenendo così capro espiatorio di una serie di tensioni sociali: la Rácz venne bandita dalla città e la sua casa venne distrutta nel 1725 (Sz. Kristóf, 2017).
I processi di Debrecen sono utili per comprendere anche un altro aspetto tra quelli citati, ossia il conflitto tra medici ufficiali e guaritori popolari. Questa città fu, infatti, tra le prime in Ungheria a vedere la nascita di una gilda delle professioni chirurgiche nel 1583. Fino alla progressiva istituzionalizzazione delle professioni mediche, avvenuta tra XVI e XVIII secolo e culminata con l’apertura della prima Facoltà di Medicina a Nagyszombat tra 1769 e 1772, la situazione non era tra le più rosee: basti pensare che per una città di più di diecimila abitanti, solo trenta persone, apprendisti compresi, era abilitata alla professione chirurgica, mentre solo nove erano i barbieri autorizzati e una sola farmacia era operativa in città fino al 1772 (Sz. Kristóf, 2017). Non stupirà, quindi, l’utilizzo, da parte di queste categorie, di accuse contro i guaritori popolari per eliminare la concorrenza, soprattutto nel corso del XVIII secolo, quando la gilda dei barbieri venne sottomessa al controllo di un medico nel tentativo di separare nettamente i professionisti ufficiali dalla galassia popolare (Sz. Kristóf, 2017).
L’altro aspetto legato ai processi contro i guaritori, ossia le accuse mosse da altri colleghi sempre ai fini di eliminare la concorrenza, emerge da alcuni processi di Kolozsvár, avvenuti tra il 1565 e il 1616 e che videro imputate trenta persone (ventinove donne e un uomo), quattordici delle quali vennero arse al rogo. In particolare, i processi avvenuti tra 1565 e 1593 videro tra i protagonisti Klára Bóci e avvennero in un’epoca di forti tensioni religiose causate dall’arrivo della Riforma e dallo sviluppo dell’Antitrinitarismo in Transilvania. La Bóci venne probabilmente indagata perché un’altra guaritrice, Prisca Kőmives, fece il suo nome durante il processo che la condusse al rogo, mentre a sua volta Klára Bóci lanciò accuse contro un’altra collega, Gertrúd di Hídelve (Klaniczay, 2017).
I processi di Szeged, avvenuti nel 1728, furono, come già anticipato, il picco della caccia alle streghe in Ungheria e vale la pena spendere qualche riga al riguardo in conclusione a questa disamina.
Per meglio comprendere quanto avvenne, dobbiamo prima ricordare il contesto nel quale si trovava la città di Szeged nella prima metà del XVIII secolo. Tra i più fiorenti centri dell’Ungheria medievale, questa città vide fermare il proprio sviluppo in seguito alla conquista ottomana, quando i più ricchi la abbandonarono per rifugiarsi in quella stretta fascia parte di Regno ancora indipendente. I nuovi dominatori iniziarono ben presto un’opera di cambiamento della conformazione geografico-spaziale della città, espellendo gli ungheresi dalla Palánk, ossia la parte centrale della città circondata da una palizzata, e sostituendoli con ottomani e serbi (Petrovics, s.d.).

La riconquista asburgica della città nel 1686 non portò a cambiamenti per la popolazione ungherese. Rimasta terra di frontiera fino al 1718, quanto il Trattato di Passarovitz ne sancì il definitivo ritorno alla Corona di Santo Stefano, Szeged non tornò a essere libera città reale, ma venne amministrata direttamente da Vienna e agli ottomani si sostituirono gli amministratori e i militari tedeschi, entrambi residenti nella Palánk insieme ai mercanti serbi. Il mancato sostegno alla causa autonomista magiara e la diversità religiosa dei serbi contribuirono in maniera determinante all’approfondirsi di varie tensioni sociali (Petrovics, s.d.).
La svolta avvenne nel 1719, quando Carlo III, tramite una Carta emessa il 21 maggio, riconosceva nuovamente lo status di libera città a Szeged, decretando la costituzione di una magistratura composta da uno iudex e da dodici iurati cives, mentre al consiglio cittadino veniva garantito il diritto di comminare condanne a morte. La tensione sociale, tuttavia, non diminuì, ma anzi crebbe a causa di altri fattori quali carestie, pestilenze, esondazioni del fiume Tisza e forti siccità che funestarono la città tra 1709 e 1712. Infine, nel 1728 vi fu una lotta di potere che vide la presenza in città di due giudici, uno dei quali, György Podhradszky, nominato con il favore di Vienna e inviso alla popolazione ungherese (Petrovics, s.d. e Klaniczay, 2017). A tutto questo si aggiunse la predicazione di un clero esaltato, secondo la quale la siccità era punizione di Dio per aver abbandonato la Fede cristiana. Ben presto iniziarono a circolare voci su gruppi di persone che sputavano l’ostia dopo aver partecipato alla Messa e sempre più cittadini si convinsero che la siccità fosse opera di streghe in combutta con Satana.

Questa situazione si concretizzò in un grande processo che vide imputate e condannate decine di persone, accusate di aver rubato la pioggia per venderla agli Ottomani. Tale processo si svolse in due parti: l’ordalia dell’acqua e la tortura. Durante la prima parte, tre donne, gettare nel Tisza con mani e piedi legati, morirono affogate, dimostrando così la propria innocenza; nella seconda parte un vasto uso della tortura, divenuto sempre più frequente dopo l’introduzione della già menzionata Praxis Criminalis, causò la morte di altre tre persone, anche se del fatto venne accusato Dániel Rózsa, presunto capitano delle streghe. Il 23 luglio 1728, infine, sette donne e sei uomini vennero arsi al rogo in quella che oggi è nota come Boszorkánysziget, ossia l’isola delle streghe, mentre altre due donne vennero giustiziate nella primavera del 1729 e altre ventotto persone furono processate, ma non conosciamo, a oggi, il loro destino. (Petrovics, s.d. e Klaniczay, 2017).
I processi di Szeged furono un’esplosione di violenza che, oltre a portare alle estreme conseguenze le tensioni sociali menzionate, servirono anche a disarmare le pretese di László Nádasdy, vescovo di Csanád, sul seggio episcopale di Szeged, mostrando la capacità di questa città, ottenuta con il sangue di almeno diciannove persone, di liberarsi dall’eresia (Petrovics, s.d.).
- Conclusioni
Poche sono le fonti sopravvissute che documentino la caccia alle streghe in epoca medievale, mentre, come abbiamo visto, sono numerosi i documenti che ci permettono di ricostruire questo fenomeno durante l’Età Moderna. Siamo infatti a conoscenza di almeno 1700 processi svoltisi durante questo travagliato torno di tempo, la cui documentazione sopravvissuta, unita a un approccio interdisciplinare, permette di comprendere non solo l’aspetto religioso della persecuzione delle streghe, ma anche il contesto economico, sociale e professionale, spesso teso e conflittuale, che poteva sfociare in accuse e processi.

Come abbiamo visto, la caccia alle streghe non era in declino agli inizi del XVIII secolo, ma fu anzi nel 1728 che il panico ebbe il suo apice, causato dai processi di Szeged e dalle loro conseguenze. Di più: dei 1700 processi menzionati, più di due terzi avvennero tra il 1690 e il 1760 (Klaniczay, 1987). La conclusione di questo fenomeno avvenne per volontà di Maria Teresa che, nel 1755, condannò una lunga serie di superstizioni tra le quali la caccia alle streghe, imponendo che tutti i processi in corso venissero a una corte d’appello per una revisione, giungendo poi nel 1766 alla proibizione definitiva dei processi per stregoneria.
Determinante, in tal senso, fu l’azione libellistica illuminata di Gerard van Swieten che iniziò una lotta senza quartiere alle superstizioni legate alle streghe e ai vampiri. Fu infatti, curiosamente, la necessità di disinnescare il panico causato nella credenza ai vampiri a determinare, a catena, la fine dei processi per stregoneria nel Regno d’Ungheria (Klaniczay, 1987).

Davide Galluzzi – Scacchiere Storico
Davide Galluzzi è laureato in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Specializzato in Storia Moderna, i suoi interessi di ricerca includono la Rivoluzione francese, l’età napoleonica, la Storia culturale e l’uso pubblico della Storia.
Bibliografia
Kis-Halas J., Divinatio Diabolica and Superstitious Medicine: Healers, Seers and Diviners in the Changing Discourse of Witchcraft in Early Modern Nagybánya, in Witchcraft and Demonology in Hungary and Transylvania, Palgrave Historical Studies in Witchcraft and Magic, 2017; Klaniczay G., Healers in Hungarian Witch Trials, in Witchcraft and Demonology in Hungary and Transylvania, Palgrave Historical Studies in Witchcraft and Magic, 2017; Klaniczay G., Decline of Witches and Rise of Vampires in 18th Century Habsburg Monarchy, Ethnologia Europaea XVII, 1987; Petrovics I., A Witch-Hunt in Szeged in the Early Eighteenth Century, s.d.; Sz. Kristóf I., The Social Background of Witchcraft Accusations in Early Modern Debrecen and Bihar County, in Witchcraft and Demonology in Hungary and Transylvania, Palgrave Historical Studies in Witchcraft and Magic, 2017; Sz. Kristóf I., “Charming Sorcerers” or “Soldiers of Satan”? Witchcraft and Magic in the Eyes of Protestant/Calvinist Preachers in Early Modern Hungary, Religions, 2019; Sz. Kristóf I., How to make a (legal) pact with the Devil? Legal customs and literacy in Witch confessions in Early Modern Hungary, in Demons, Spirits, Witches, vol. 3: Witchcraft Mythologies and Persecutions, CEU Press, Budapest, 2008
Immagine di copertina: illustrazione tratta da Die Wickiana (1975), ripresa da un’incisione di Johann Jacob Wick del 1555 raffigurante un rogo di streghe a Norimberga (fonte: Wikimedia, licenza CC0)
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