di Manuel Alfa
1. Una “maternità” complicata
Uno dei più grandi problemi che la storia della musica pone ancora oggi ai suoi studiosi è l’origine di quella che viene comunemente definita come “musica classica”. I teorici della musica, dal Medioevo di Guido d’Arezzo all’età Barocca, hanno sempre attribuito alla Grecia, culla della cultura e del sapere occidentale per eccellenza, il ruolo di madre di tutte le musiche.
Tuttavia, la questione non è di immediata comprensione. Nel caso della musica, la tradizione greca non giunge in soccorso agli storici. A causa della trasmissione orale della musica, infatti, oggi disponiamo di pochi testi musicali, per lo più successivi al III secolo a.C. e in cattivo stato di conservazione (Baroni, 1999). Al contrario, le testimonianze di un approccio pratico alla musica da parte dei greci appartengono ad ambiti diversi e indiretti; incrociandole, è possibile ottenere una visione pressoché chiara e dettagliata dell’uso strumentale e canoro.

Il ruolo della musica come elemento descrittivo di poesie e reperti archeologici non è peraltro insolito. Il termine μουσικός [musikòs] non ha lo stesso significato che oggi attribuiamo alla parola “musica”: non era solo «arte dei suoni», ma un vero e proprio insieme di «attività artistiche che comprendevano la musica, la poesia, la danza e in parte anche la ginnastica» (Baroni,1999). D’altro canto, il significato di musikòs, “arte delle Muse”, richiama le mitiche figlie di Zeus che si dedicano alle arti – principalmente del canto, della danza e della poesia – per allietare gli dèi e ricordare in eterno la gloria del padre, vittorioso nello scontro con i Titani (Cicconetti, Bendinelli, 1934).
Per l’accostamento rituale della musica ad altre arti e la loro pari importanza, dunque, non è illogico trovare esaltazioni del suo utilizzo, al punto che era addirittura la prassi dedicare la produzione musicale umana agli dèi dell’Olimpo.
2. Omero musico
Si è detto che la letteratura costituisce oggi una fonte primaria nello studio della musica greca, tanto che il più antico riferimento all’esistenza e all’esaltazione della musica e del canto epico arcaico non è altro che l’Iliade omerica. L’importanza dell’Iliade come testimonianza non è stata riconosciuta solo in tempi moderni: già Pseudo-Plutarco, autore del trattato De Musica (III secolo a.C.), parlava di Omero come colui che
«indica le circostanze […] per la pratica della musica, avendo scoperto che essa è l’esercizio più idoneo, sia per la sua intrinseca utilità che per il piacere che procura, allo stato di inattività: Achille guerriero e uomo d’azione non partecipava più ai rischi della guerra a causa della sua disputa contro Agamennone e perciò Omero riteneva conveniente allo spirito dell’eroe esercitarsi con la perfetta bellezza delle melodie» (Baroni, 1999).
Ciò detto, è naturale un breve riferimento al canto IX, vv. 185-191. Achille, offeso dal comportamento del re Agamennone, si allontana dalla battaglia per rifugiarsi nella sua tenda insieme al fidato compagno Patroclo.
Giunsero alle tende e alle navi dei Mirmidoni,
e lo trovarono intento a godere la cetra armoniosa,
bella, ben lavorata, e la traversa in alto era d’argento.
Predata da lui nel saccheggio, quando abbatté la città d’Eetione;
rallegrava con questa il suo cuore e cantava gesta d’eroi.
Patroclo, solo con lui, gli sedeva in silenzio davanti
in attesa dell’Eàcide, che terminasse il suo canto.
(Omero, Iliade, IX.185-191).
Per rallegrare il suo animo cupo, Achille si affida al canto e al suono della cetra armoniosa, utilizzando quindi la musica come una medicina. Questo accostamento non è casuale, ma richiama quella che la scuola pitagorica chiamava “musica delle sfere”. Secondo questa concezione, che verrà ripresa anche nel Medioevo e nel Rinascimento, il cosmo è governato dall’armonia, che pacifica i contrari, e dalla matematica; entrambi gli elementi trovano la propria rivelazione naturale nella musica, che li congiunge. Allo stesso modo, i pitagorici identificano il cosmo con l’anima e, dunque, se il cosmo è armonia anche l’anima lo deve essere, per associazione. In sintesi, la funzione della musica come catarsi (purificazione) dell’anima inquieta deriva dall’associazione dell’anima stessa al regno dell’armonia cosmica (Baroni,1999).
Dalla considerazione della musica come «medicina per l’anima» (Baroni,1999) deriva un’altra tipologia di canto, non di destinazione umana quanto più all’animo del divino. Per questo esempio è necessario spostarsi al canto I e accennare in breve la situazione iniziale. L’esercito acheo è in procinto di partire verso la città di Troia. Arriva all’accampamento Crise, sacerdote di Apollo, che implora il re affinché gli restituisca sua figlia Criseide, che Agamennone aveva ottenuto come bottino di guerra a Eetione. Al rifiuto del re, Crise si allontana e invoca l’aiuto del dio Apollo che, avendo promesso in precedenza di proteggere Criseide, si infuria e per nove giorni abbatte sull’esercito le frecce del suo arco d’argento: ecco che si diffondono pestilenze e morti (AA. VV., I miti greci, 2019). Il decimo giorno Achille raduna gli uomini e chiede ad Agamennone di accontentare il sacerdote per porre fine alle agonie dell’esercito. L’Atride – questo l’appellativo di Agamennone – acconsente di farlo solo se in cambio otterrà un dono di eguale portata, arrogandosi il diritto di prendere Briseide, la schiava di Achille – suscitandone l’ira che Omero chiede alla Musa di cantare nel verso 1.
Per calmare l’ira del dio Apollo, quindi, Agamennone incarica gli Achei di compiere un sacrificio animale e
Per tutto il giorno quelli col canto placavano il dio,
intonavano un bel peana, i figli degli Achei,
e celebravano il Saettatore; questi, ascoltando, godeva in cuor suo.
(Omero, Iliade, I.472-474).
Il peana intonato dagli Achei è un canto, accompagnato dalla lira, che l’uomo innalza in favore del dio infuriato – in particolare il dio Apollo, cui il peana è inizialmente dedicato; dunque, il concetto di “musica delle sfere”, che placa il caos del cosmo con la propria armonia, viene traslato anche nel momento in cui l’ira divina deve essere calmata.
Nella realtà della Grecia antica, però, la musica non era solo utile alla sicurezza e alla pacificazione dell’animo ma era una delle arti che accompagnavano i momenti di festa e, in particolare, il matrimonio.
Vi scolpì due belle città di uomini mortali.
Nella prima si celebravano nozze e banchetti,
portavano le spose dalle loro stanze alla rocca
con le torce accese, dappertutto echeggiava l’imeneo;
giovani danzatori volteggiavano, ed in mezzo a loro
suonavano flauti e cetre; le donne ammiravano
stando ciascuna sulla porta della sua casa.
(Omero, Iliade, XVIII.490-496).
Ancora una volta, Omero è testimone di usanze musicali greche. In questo tratto del canto XVIII, il poeta descrive il nuovo scudo di Achille, forgiato e donato da Efesto su richiesta di Teti, decorato di scene rappresentanti elementi del cosmo e di quotidianità umana. In una di esse, una città pacifica esalta la giustizia con la celebrazione di matrimoni, il rito che più di tutti è espressione di serenità e prosperità. Il corteo, che precedeva la celebrazione delle nozze unendo danza e musica al fine di augurare felicità ai nuovi sposi, prende il nome di imeneo, dalla personificazione divina che la tradizione antica identifica appunto come Imeneus, cui era legato un mito dai contorni incerti. Imeneo era infatti un giovane semidio morto in circostanze che differiscono da una fonte all’altra: secondo la tradizione più recente sarebbe morto per aver salvato alcune fanciulle dai pirati, spiegando la tendenza delle giovani spose a invocarne la protezione; secondo un’altra durante le proprie nozze o addirittura durante le nozze del padre, Dioniso, il che giustificherebbe il collegamento con il rito nuziale (Guerrini, 1961).

In ultimo, la musica si fa protagonista del momento del compianto funebre. In particolare, l’Iliade ne dà alcune indicazioni nell’ultimissimo canto, quando il corpo inerme di Ettore giunge alla sua casa accompagnato da un corteo piangente, il cui dolore è talmente acuto da indurre le donne a strapparsi i capelli.
Portato che l’ebbero nella reggia splendida, l’adagiarono poi
sul letto traforato, e fecero entrare gli aedi,
iniziatori del canto funebre, che intonarono allora
la nenia lamentosa, e le donne in risposta gemevano.
(Omero, Iliade, XXIV.719-722).
La prima parte del compianto funebre arcaico, cosiddetto “treno lirico” (Bignone, 1937), era costituito dall’intonazione del canto, professionistico ed elaborato, da parte di un cantore specializzato, in monodia. Il cuore della celebrazione, però, è nella seconda fase, che si distingue dalla precedente per la sua spontaneità (anche se parziale, poiché anch’essa seguiva semplici e basilari regole musicali): a turno, le parenti più vicine al defunto dedicavano un breve lamento personale, seguito dalla risposta di un coro femminile. Nel canto XXIV è Andromaca, moglie di Ettore, ad aprire il breve compianto
Marito mio, giovane hai perso la vita, mi lasci vedova
in casa; è così piccolo ancora il bambino
che abbiamo messo al mondo, io e tu sciagurati, e non credo
che giunga al fiore degli anni; sarà prima distrutta del tutto
la nostra città; perché sei morto tu, il custode vigile,
che la proteggevi, difendevi le spose fedeli e i bambini.
(Omero, Iliade, XXIV.725-730).
in cui il ruolo di eroe della città di Troia impersonato da Ettore viene esaltato e, dunque, il motivo di tristezza più accentuato. Ancor più nella continuazione del lamento, quando Andromaca esprime i propri timori per il destino del figlio Astianatte, inconsapevolmente preveggendo la sua sorte, descritta nell’Iliou persis.
e tu, figlio mio, verrai con me,
dove dovrai faticare in lavori non degni,
servendo un padrone crudele, o qualcuno degli Achei
ti getterà per il braccio giù da una torre, morte tremenda
(Omero, Iliade, XXIV.731-735)
3. Omeridi, aedi e rapsodi
Il canto XXIV visto precedentemente assume una certa rilevanza nella storia della musica occidentale perché risulta essere la prima testimonianza della professionalizzazione del ruolo del cantore arcaico. Mentre, però, agli aedi dell’Iliade – incaricati di intonare la monodia del compianto di Ettore – è dedicato un breve spazio, il termine ἀοιδός [aidos] diventa più ricorrente nell’Odissea, dimostrando come la figura dell’aedo non fosse solo legata alla celebrazione funebre, ma al contesto più ampio della corte. Difatti, sempre nell’Odissea, si possono isolare quattro momenti dove vengono presentati i canti aedici con annessi gli aedi: Femio alla corte di Odisseo; Demodoco alla corte di Alcinoo, re dei Feaci; alla corte di Agamennone; alla corte di Menelao.
Analizzando nel dettaglio i due termini citati pocanzi – Aedi e Rapsodi – si nota che la differenza è controversa e dibattuta fin dall’antichità. A riprova di ciò, uno scolio al primo verso della seconda Nemea di Pindaro afferma che
In antichità chiamavano omeridi i discendenti di Omero,
i quali cantavano la loro poesia. Successivamente anche
i rapsodi cantavano, i quali non riconoscevano l’eredità di Omero.
Famosi furono quelli intorno a Cineto, i quali dicono abbiano
composto molti versi e gli abbiano inseriti in Omero
fu Cineto il primo a recitare come rapsodo nella 69° olimpiade.
Gli Omeridi, dunque, possono essere considerati come una sorta di consorteria professionale ereditaria, all’interno della quale l’arte poetica veniva trasmessa per via familiare, mantenendo una sostanziale omogeneità culturale e tecnica. Questi poeti sembrano rappresentare una fase precedente rispetto alla figura, più tarda, del rapsodo. Una testimonianza significativa è offerta da Cineto, poeta di grande notorietà nell’antichità, al quale è attribuita la composizione di numerosi versi poi confluiti nei poemi omerici. La sua esistenza viene ritenuta storicamente plausibile, dal momento che l’Olimpiade da lui menzionata risulta effettivamente attestata.
Nel contesto della tradizione epica arcaica, la poesia era concepita come un bene ereditario (διάδοχης), trasmesso di generazione in generazione insieme alla tecnica del canto epico e al relativo patrimonio formulare. Secondo una testimonianza di Eliano, infatti, Omero avrebbe trasmesso i suoi canti alla figlia, a conferma di una trasmissione familiare dell’arte poetica.

I rapsodi, pur essendo principalmente esecutori, svolgevano anche un ruolo attivo di autori e compositori, contribuendo così alla continua evoluzione del corpus epico. In effetti, la tradizione epica si configura come un sistema aperto e dinamico, nel quale i confini tra composizione e performance risultano sfumati. Tale ambiguità emerge anche dall’uso antico e talvolta oscillante dei termini aedo e rapsodo: si pensi, ad esempio, al passo platonico in cui Femio viene definito rapsodo, anziché aedo, in relazione alla sua appartenenza al genere epico.
4. Conclusioni
La figura dell’aedo (ἀοιδός, “cantore”) nell’antica Grecia è oggetto di ampio dibattito tra gli studiosi. Tradizionalmente, l’aedo era considerato un poeta che componeva e recitava versi epici, spesso accompagnandosi con uno strumento musicale come la lira. Con il passare del tempo, emerse la figura del rapsodo (ῥαψῳδός), il cui ruolo era quello di recitare poemi epici già esistenti, spesso in contesti pubblici e cerimoniali (Pasquali, 1935).
L’etimologia del termine “rapsodo” deriva dal verbo greco ῥάπτω (rapto), che significa “cucire”. Ciò ha portato alcuni studiosi a interpretare il rapsodo come un “cucitore di canti”, ovvero colui che assemblava e recitava componimenti poetici preesistenti. Tuttavia, questa distinzione tra aedo e rapsodo non è sempre netta. Ad esempio, Esiodo, in un frammento, narra di aver partecipato a un agone rapsodico, suggerendo che anche i rapsodi potessero avere un ruolo creativo nella composizione poetica.
Inoltre, alcuni scolii antichi discutono l’etimologia del termine “aedo” e la sua relazione con i rapsodi. Secondo una tradizione, i rapsodi erano associati a Omero perché recitavano i poemi epici impugnando un bastone, simbolo di autorità. Altri sostengono che, poiché la poesia omerica non era originariamente un’opera unitaria, i rapsodi avessero il compito di unificare in una narrazione coerente i singoli canti tramandati oralmente.
Filocoro, storico ateniese del III secolo a.C., riferisce che il nome stesso dei rapsodi deriverebbe dalla loro funzione di “intrecciatori di canti”, ossia di coloro che ricomponevano in un insieme organico il patrimonio epico orale. Questo ruolo è ulteriormente evidenziato da Esiodo, che, nella “Teogonia”, descrive come le Muse gli abbiano insegnato l’arte del canto, sottolineando l’importanza della memoria e della trasmissione orale nella poesia epica.

Manuel Alfa – Scacchiere Storico
Manuel Alfa Laureato in Storia e, attualmente, studente in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Studia storia antica con particolare riguardo verso la storia romana di età repubblicana. Si interessa anche di letteratura latina e di divulgazione storica.
Bibliografia
AA.VV. I miti greci, Milano, BUR, 2019; Baroni M., E. Fubini, P. Petazzi, Storia della musica, Torino, Einaudi, 1999; Bignone E., “Peana” in Enciclopedia italiana, Istituto Treccani, 1935, <https://www.treccani.it/enciclopedia/peana_(Enciclopedia-Italiana)/>; Bignone E., “Treni lirici” in Enciclopedia Italiana, Istituto Treccani, 1937, <https://www.treccani.it/enciclopedia/treni-lirici_(Enciclopedia-Italiana)/>; Cicconetti G., G. Bendinelli, “Muse”, in Enciclopedia Italiana, Istituto Treccani, 1934, <https://www.treccani.it/enciclopedia/muse_(Enciclopedia-Italiana)/>; Esiodo, Teogonia, (a cura di) G. Arrighetti, Milano, BUR, 2024; Gentili B., Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Milano, Feltrinelli, 2011; Guerrini L., “Imeneo” in Enciclopedia dell’Arte Antica, Istituto Treccani, 1961, <https://www.treccani.it/enciclopedia/imeneo_(Enciclopedia-dell’-Arte-Antica)/>; Omero, Iliade, (a cura di) G. Cerri, Milano, BUR, 2019; Omero, Odissea, (a cura di) V. DI Benedetto, Milano, BUR, 2020; Pasquali G., “Rapsodi” in Enciclopedia italiana,
Istituto Treccani, 1935,<https://www.treccani.it/enciclopedia/rapsodi_(Enciclopedia-Italiana)/>.
Immagine di copertina: Francesco Hayez, Ulisse alla corte di Alcinoo, Olio su tela, 1816. Museo nazionale di Capodimonte, Napoli (Fonte: Wikimedia, licenza CC0)
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