PANEM ET CIRCENSES

di Rebecca Goldaniga

Quando si parla di ludi circenses, relativamente al mondo romano, la mente corre inevitabilmente alle spettacolari gare di carri al Circo Massimo. Nei secoli della repubblica, la popolarità delle corse crebbe nettamente in relazione all’aumento delle festività religiose: fra III e II secolo a.C., in collegamento alla crisi delle istituzioni repubblicane, il fenomeno delle gare equestri sarebbe gradualmente mutato in una forma di intrattenimento. La corsa equestre, da attività riservata ai nobili, divenne ars ludicra, un’arte disdicevole da cui i Romani benestanti dovevano tenersi lontani. Ora, perché i Romani più abbienti avrebbero dovuto finanziare una pratica che ritenevano indegna?

L’AURIGA E IL GLADIATORE

di Rebecca Goldaniga

Nel mondo romano, le corse di carri e le lotte fra gladiatori furono definite entrambe artes ludicrae, cioè pratiche disdicevoli riservate agli infames, relativamente alle quali i Romani facoltosi avevano l’obbligo di organizzare spettacoli, ma il paradossale divieto di partecipare. Dalla Tabula Heracleensis, datata alla fine del I secolo a.C., si apprende infatti che gli attori e le persone legate al mondo dello spettacolo non potevano accedere alle magistrature municipali ed entrare nell’ordine dei decurioni nelle città di diritto romano. Durante i principati di Augusto e Tiberio furono infatti presi provvedimenti contro i membri dell’aristocrazia tentati dal circo, dall’anfiteatro e dal teatro. Tiberio, in particolare, vietò a senatori e cavalieri il matrimonio con individui provenienti dal mondo delle arene e con i loro discendenti. Tuttavia, sebbene aurighi e gladiatori appartenessero in egual modo alla classe degli infames, fra gli uni e gli altri esistettero delle differenze sostanziali, che questo articolo si accinge a prendere brevemente in considerazione.