PANEM ET CIRCENSES

L’evergetismo romano secondo Paul Veyne

di Rebecca Goldaniga

1. I ludi circenses

Quando si parla di ludi circenses, relativamente al mondo romano, la mente corre inevitabilmente alle spettacolari gare di carri al Circo Massimo. Tuttavia, prima di giungere a tali sviluppi i circenses passarono attraverso varie vicissitudini. Anzitutto durante l’età regia e proto repubblicana le corse di carri rimasero strettamente connesse all’ambito religioso e alle festività del calendario romano. Fino al 509 a.C. (anno dell’istituzione del consolato) le principali ricorrenze in cui si svolsero gare equestri furono i Consualia (21 agosto e 15 dicembre) e gli Equirria (27 febbraio e 14 marzo), giochi rispettivamente in onore di Nettuno e Marte (Meijer, 2009). Tuttavia, nei secoli della Repubblica, la popolarità delle corse crebbe nettamente in relazione all’aumento delle festività religiose: ludi Romani (366 a.C.), ludi Plebei (216 a.C.), ludi Apollinares (208 a.C.), ludi Megalenses (191 a.C.), ludi Cereales e Floralia, divennero le più importanti occasioni per recarsi al circo, non solo per i cives, ma anche per gli Italici e gli stranieri, specie in seguito alle conquiste in Oriente. Del resto, se alla vigilia della guerra annibalica Roma contava circa 125.000 abitanti, nel 133 a.C., al tempo della riforma di Tiberio Gracco, aveva già superato ampiamente i 300.000. Tale numero comprendeva per lo più indigenti affamati di grano a prezzo politico ma anche di divertimenti. È dunque fra III e II secolo a.C., in relazione alla crisi delle istituzioni repubblicane, che il fenomeno delle gare equestri sarebbe gradualmente mutato in una forma di intrattenimento. Secondo Meijer tale cambiamento sarebbe stato causato da un sempre maggiore impegno da parte dei nobili nelle conquiste oltremare che avrebbe fatto diminuire la popolarità delle corse fra i senatori e reso il reperimento di aurighi abili ed esperti particolarmente difficoltoso. Per ovviare al problema, i Romani avrebbero iniziato a reclutare i guidatori fra gli strati più indigenti della plebe, fra i liberti e gli schiavi. Oggi l’ipotesi secondo cui in età imperiale gli aurighi provenissero da diversi strati della popolazione è stata definitivamente scartata. Sulla base di 229 iscrizioni funebri e commemorative, Gerhard Horsmann è infatti riuscito a dimostrare che il reclutamento avveniva unicamente presso la categoria degli infames (coloro che per definizione barattavano l’onore con il guadagno economico) (Horsmann, 1998). La corsa equestre, da attività riservata ai nobili, divenne quindi ars ludicra, un’arte disdicevole da cui i Romani benestanti dovevano tenersi lontani. A partire dal III secolo a.C. tuttavia a ogni cittadino romano fu possibile candidarsi come auriga (o fornitore di esso) e richiedere una somma per i cavalli, il cocchio ed eventualmente il guidatore. In questo modo nacquero le scuderie, vere e proprie organizzazioni atte a ingaggiare e addestrare aurighi e cavalli. Così i magistrati, che dapprima avevano sdegnosamente abbandonato la partecipazione alle corse, presero a finanziarle con i grandi capitali provenienti dai bottini delle guerre d’espansione, rendendo il fenomeno estremamente popolare. 

Veduta del Circo Massimo a Roma, con i palazzi imperiali del Palatino sullo sfondo (fonte: Wikimedia)

2. L’evergetismo romano: un fattore sociale totale

Ora, perché i Romani più abbienti avrebbero dovuto finanziare una pratica che ritenevano indegna? Paul Veyne fornisce a tale quesito una risposta più che esauriente, analizzando accuratamente il peculiare fenomeno dell’evergetismo romano. Il termine fu coniato alla fine del XVII secolo da Andrè Boulanger e Henri Irenè Marrou e desunto da alcuni decreti ellenistici con cui le città onoravano coloro che compivano evergesìe, ovvero atti a favore della collettività. Tale concezione dell’evergetismo appare tuttavia riduttiva se applicata al mondo romano. Nella società romana un atto di evergetismo non era un semplice atto di filantropia, bensì, riprendendo le parole di Paul Veyne, «esattamente ciò che la collettività si aspettava dai più abbienti» (Veyne, 1984). Non si trattava dunque di una libera scelta, di una manifestazione spontanea di generosità, ma di una pratica che assumeva due forme prestabilite: elargizioni di grano e spettacoli (da qui l’espressione panem et circenses). L’evergetismo romano si configurava pertanto come l’adempimento di un obbligo morale (ma talvolta anche legale) da parte dell’élite. Di conseguenza, il finanziamento delle corse era concepito dai magistrati come un dovere pubblico proprio del loro ceto di appartenenza e non come una scelta individuale. Si tenga presente che nella società romana i rapporti fra le diverse classi sociali erano basati sulla dinamica del dono (munus), inteso non come atto morale ma rituale, funzionale a creare legami molto stretti tra patroni e clienti e a dare luogo a una rete di cittadini fatta di rapporti di amicizia e riverenza. Un tessuto sociale estremamente lontano da una qualsiasi comunità di lavoratori salariati e imprenditori. Ogni ordine della civitas godeva del diritto e del dovere di offrire determinati doni. Senatori, cavalieri e decurioni erano naturalmente tenuti a donare di più, non solo perché disponevano di maggiori agi economici ma soprattutto perché il loro status sociale imponeva la dimostrazione di una forte sensibilità nei confronti delle problematiche dei deboli. Un principio già presente nell’Etica Nicomachea di Aristotele (IV, 1, 30). Per queste ragioni, Paul Veyne definisce l’evergetismo romano «un fattore sociale totale», un costume saldamente connesso alla legge, alla socialità, alla politica, all’economia e alla religiosità del tempo. Per comprendere al meglio tale concetto si prenda atto di come i Romani, in età repubblicana, gestivano l’organizzazione delle corse.

Come già esposto, le gare di carri si svolgevano durante le feste religiose previste dal calendario (ludi), le quali prevedevano anche spettacoli teatrali. Tali manifestazioni erano presiedute da due categorie di magistrati: gli edili (specificatamente preposti all’allestimento dei ludi) e i pretori, che avevano il compito di fare le veci dei consoli, non sottoposti a questo genere di obblighi a causa degli impegni militari. Per permettere a pretori ed edili di adempiere ai propri doveri di editores, la Repubblica forniva ad essi una somma estratta dall’Erario, che però era del tutto insufficiente a organizzare spettacoli grandiosi. Così, se intendevano rendersi popolari, i magistrati dovevano aggiungervi del denaro personalmente. Fatto che, già nel II secolo a.C., rese i ludi un obbligo rovinoso. Tuttavia, edili e pretori paradossalmente continuarono ad accettarlo di buon grado. Secondo Veyne, la fornitura dei cavalli era assicurata dallo Stato, che sceglieva e pagava le scuderie a cui affidarsi. Lo stesso accadeva per le compagnie teatrali e gli impresari che possedevano attori e commedianti (Veyne, 1984). Dunque l’editor si sarebbe dovuto limitare, in verità, alla sola organizzazione logistica delle corse, proponendo una spesa al Senato (che poteva oscillare dai 200.000 ai 350.000 sesterzii). È a questo punto che sarebbe entrata in gioco la componente religiosa. Si ricordi che ufficialmente i ludi circenses non erano tanto considerati come offerte al popolo, ma soprattutto come offerte agli dei, le quali dovevano essere estremamente barocche e spettacolari, per assicurare alla civitas benevolenza e protezione, ma senza gravare troppo sulle casse dello Stato. Secondo Veyne i Romani risolsero il problema mediante due soluzioni: l’instaurazione e il contributo collettivo. La prima era una pratica che imponeva la ripetizione dei ludi, nel caso in cui le cerimonie non si fossero svolte secondo le regole o si fosse verificato un presagio nefasto, che suggeriva di ripetere tutto daccapo. In tal caso il magistrato in carica era costretto a riorganizzare i giochi a proprie spese (Liv., XXXVIII; Wissova, 1971). La seconda era semplicemente un finanziamento in cui prendevano parte Stato, magistrati e popolo, ognuno in base alle proprie possibilità economiche. Ciò accadeva soprattutto in situazioni di imminente pericolo, come ad esempio l’avanzata di Annibale in Italia che portò all’istituzione dei ludi Apollinares nel 212 a.C. (Liv., XXV, 12; Macr. Sat., I, 17, 25). È questo il periodo in cui, in accordo con l’idea di Veyne, fra gli editores si sarebbe affermata l’usanza, menzionata anche da Mommsen, di contribuire sempre in misura maggiore alla somma stanziata dallo Stato. Alla fine dell’età repubblicana i magistrati romani avrebbero dunque accettato un enorme onere fiscale per due motivi: la devozione religiosa e l’evergetismo stesso che con la corrente crisi istituzionale divenne un valido strumento per la carriera politica. Del resto, prima della fissazione del cursus honorum in età sillana, l’offerta di giochi grandiosi in qualità di edile poteva bastare ad ottenere un forte avanzamento di carriera. Inoltre, non era possibile accedere alla pretura o al consolato senza aver prima rivestito l’edilità. Per questo, i leader politici in lotta per il potere tentavano di superare i loro predecessori «con lo splendore dei propri doni al popolo» (Cic., Pro domo sua, XLIII, 110). L’espressione usata da Cicerone nell’orazione Pro domo sua, muneris prova che i membri dell’élite romana, a metà del I secolo a.C, avevano totalmente acquisito una mentalità e un linguaggio da evergeti. Cicerone non parla più di ludi, ma di munera. Non indica più una cerimonia pubblica, ma un dono da parte di un singolo editore. In questa particolare fase storica, il Senato, di norma, assegnava fondi per i ludi ai collegi e non ai singoli magistrati, ma naturalmente ognuno di essi poteva aggiungere alla somma di partenza un proprio contributo. Una spesa che il popolo conosceva bene e che veniva indicata persino negli annali (Veyne, 1984).

Mosaico del III secolo raffigurante un auriga con la sua quadriga, Museo Archeologico Nazionale di Spagna, Madrid (fonte: Wikimedia)

Tuttavia, a rendere particolarmente sontuose le edilità non era solo lo stanziamento di grandi capitali, ma soprattutto la presenza di novità. Molto amati erano gli editores che per primi istituivano nuove festività (come nel caso dei Floralia, dei Cerealia e dei giochi in onore di Silla) o che introducevano nuove forme di spettacolo. Indebitarsi o cadere in rovina per i giochi rimaneva dunque un fatto di cui andare fieri. Milone, amico di Cicerone, si vantava di aver perduto nell’organizzazione dei ludi ben tre eredità e una delle leggi della solidarietà fra senatori imponeva di aprire la propria borsa agli amici diventati edili (Cic., Pro Milone, XXXV, 95; Sen., De beneficiis, II, 21). Non v’è dunque da stupirsi del fatto che molti editores tentassero di estorcere denaro ai popoli sottomessi a Roma e che una tassa speciale imposta alla provincia d’Asia fosse specificatamente volta a reperire fondi per gli spettacoli (Cic., Ad Quintum frater, I, 1; IX, 26; Liv., XL, 44). L’oligarchia senatoria aveva poi un ulteriore motivo per accettare la rovinosa carica di edile: i ludi rappresentavano ciò che Veyne definisce «un muro di denaro per i candidati alle magistrature». Sbarravano quindi l’accesso alla vita politica a chiunque non disponesse di ingenti risorse economiche, creando una barriera sociale. Per tali motivi Veyne rifiuta l’idea secondo cui gli spettacoli romani sarebbero stati null’altro che una macchinazione delle classi dominanti contro il popolo, volta ad instupidirlo e ad allontanarlo dalla vita politica. 

3. Solo panem et circenses?

Quest’ultima del resto è una prospettiva tracciata dagli stessi Romani, in relazione al passaggio dalla Repubblica al Principato. È infatti Giovenale a coniare l’espressione panem et circenses affermando che «il popolo romano, il quale una volta distribuiva comandi, fasci e legioni, divenne più modesto, poiché i suoi voti ansiosi non reclamavano altro che pane e spettacoli» (Giov., Sat., X).  Veyne sostiene quindi ironicamente che in età imperiale «I Romani avrebbero ceduto (secondo tale assunto) la propria scheda elettorale per un biglietto del circo, come Esaù la sua primogenitura per un piatto di lenticchie», subendo così un «processo di spoliticizzazione» (Veyne, 1984). Ma per parlare di spoliticizzazione si dovrebbe presupporre che in età repubblicana tutto il popolo romano partecipasse appassionatamente alla vita politica. Questo a Roma non accadeva. L’interesse politico del popolo romano consisteva più nel desiderio che il governo facesse una buona politica, che nella volontà di prendervi parte. Pertanto, se anche è vero che assistendo ai giochi i cives distoglievano la loro attenzione da altre questioni, ciò non significa che quest’ultima fosse la causa primaria dell’organizzazione dei ludi. Al contrario, si trattò della loro conseguenza. Per questo Veyne ricorda come le arene furono necessarie alla stipulazione di un “contratto sociale”, i cui termini vennero tacitamente accettati con l’istituzione del principato. Il regime augusteo scacciò definitivamente le masse dalla politica del tempo, ma in cambio offrì loro pace e prosperità, pane e giochi. Il popolo romano non potrebbe quindi essere definito colpevole di aver accettato tale compromesso poiché, come una qualsiasi comunità di governati che subisca un atto politico, non ebbe alcuna scelta (Veyne, 1984). Tuttavia ciò non significa che si debba considerare la plebe di Roma come un semplice oggetto della politica che assisteva passivamente al corso degli eventi. Essa non si recava al circo poiché totalmente disinteressata alla vita pubblica, ma, al contrario, proprio perché quest’ultimo era l’unico mezzo rimastole per esprimere le proprie rimostranze. Circhi e teatri, in età imperiale, non cessarono di essere delle arene politiche ma cominciarono ad offrire alle masse una sorta di sopperimento alla mancanza di un organismo istituzionale, volto ad accogliere le loro istanze. Esemplificativa, a tal proposito, si rivela una vivace testimonianza di Plinio il Giovane, che elogia la ricostruzione del Circo Massimo attuata da Traiano: 

«Altrove l’immenso fianco del circo gareggia con la bellezza dei templi, degna sede del popolo vincitore del mondo, degna d’esser veduta non meno degli spettacoli ai quali in essa si assisterà, ammirabile come per le sue bellezze così perché uguale è il posto del principe e della plebe, tutto v’è uniforme e continuo, né più riservato a Cesare il palco per assistere agli spettacoli, che non siano a lui solo riservati gli spettacoli. Sarà lecito dunque ai tuoi cittadini di vederti a lor volta; sarà lecito vedere non la camera del principe, ma il principe stesso in pubblico, seduto in mezzo al popolo, a quel popolo al quale ha concesso altri cinquemila posti» (Plin. Iun., Panegyricus, LI, 2-5) (traduzione di E. Malcovati).

Ricostruzione del Circo Massimo tratta dallo Speculum Romanae Magnificentiae, 1553 (fonte: Wikimedia)

Si noti come Plinio definisca il Circo Massimo «la sede del popolo», quel luogo ricco di sfarzo e grandezza in cui il principe prendeva posto fra i plebei. Anche Tacito del resto conferma che la folla si sentiva a casa al circo e a teatro e che qualora vi fossero state delle agitazioni, è là che sarebbe accorsa per radunarsi e manifestare, esprimere la propria benevolenza o il proprio dissenso all’imperatore in persona (Tac., Hist., I, 72). Nel primo caso il popolo ricorreva a una consuetudine che nel mondo romano prendeva il nome di acclamatio. La plebe raccolta nel circo si alzava in piedi e applaudendo gridava auguri quali «Buona fortuna padre della patria», «Che gli dei ti proteggano», «Gioite tutti. Roma è al sicuro poiché l’imperatore la protegge». Formule prestabilite che determinavano l’intensità stessa delle acclamazioni e permettevano all’imperatore di testare il suo grado di popolarità. Ma gli umori del popolo potevano cambiare rapidamente. Lo conferma il gran numero di testimonianze di agitazioni e disordini avvenuti durante le corse. Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche narra che nel 41 d.C. Caligola fu contestato al Circo Massimo a causa di un aumento delle imposte. Dato che la situazione fu sul punto di degenerare in rivolta, l’imperatore ordinò che venissero subito uccisi sugli spalti coloro che con le urla e le minacce fomentavano la sedizione (Ios. Flav, XIX, 24-27). Una situazione analoga, secondo Cassio Dione, si sarebbe presentata durante il Principato di Commodo, quando il popolo intimò all’imperatore di disfarsi di Cleandro, il prefetto al pretorio che riteneva responsabile della corrente carestia (Dio. Cass., LXXIII, 16, 3-4). Tali vicende suggeriscono come l’equilibro sociale della Roma imperiale fosse estremamente fragile. Un’armonia che sarebbe rovinosamente crollata durante i secoli della tarda antichità, come nei celebri casi dell’eccidio di Tessalonica (390 d.C) e della rivolta di Nika (532 d.C.).

Rebecca Goldaniga – Scacchiere Storico

Rebecca Goldaniga è una studiosa dell’antichità romana. Si occupa soprattutto delle dinamiche sociali e culturali riguardanti il mondo latino. Ha un debole per gli imperatori “eccentrici” e per i gladiatori. A Netflix preferisce i kolossal peplum.

Bibliografia

Arena P. 2010, Feste e rituali a Roma: il principe incontra il popolo nel Circo Massimo, Bari, Edipuglia; Arena P. 2020, Gladiatori, carri e navi. Gli spettacoli nell’antica Roma, Roma, Carocci; Gregori G. 2011, Ludi e Munera: 25 anni di ricerche sugli spettacoli di età romana. Milano, LED; Horsmann G. 1998, Die Wagenlenker der römischen Kaiserzeit: untersuchungen zu ihrer sozialen Stellung, Stuttgart, Steiner; Lo Cascio E. 2016, Roma imperiale. Una metropoli antica, Milano, Carocci; Meijer F. 2009, Il mondo di Ben Hur. Lo spettacolo delle corse nell’antica Roma, Roma, Laterza; Veyne P. 1984, Il pane e il circo: sociologia storica e pluralismo politico, Bologna, il Mulino; Wissova G. 1971, Religion und kultus der Römer, München, Beck.

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Pubblicato da Scacchiere Storico

Rivista di ricerca e divulgazione storica

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