IL PALAZZO CADUTO NELL’OBLIO. LA MEMORIA DEL SOCIALISMO E L’UNGHERIA DI OGGI

di Davide Galluzzi

Budapest è sicuramente una delle mete turistiche più gettonate in Europa. In qualsiasi stagione dell’anno è possibile (o forse, vista la perdurante emergenza causata dal COVID-19, sarebbe meglio dire “era possibile”) incontrare turisti provenienti da tutto il mondo. Una delle zone meno battute dai viaggiatori è il XIII distretto, zona sì residenziale, ma anche ricca di storia e di palazzi che molto hanno da raccontare a chi avesse la gentilezza di interrogarli e stare ad ascoltare.

Uno di questi luoghi è indubbiamente un palazzo al numero 15 di Visegrádi utca. Questo edificio, infatti, ospitava la sede centrale del Partito comunista ungherese (MKP) nel periodo che va dal 1° dicembre 1918 al 21 marzo 1919, ossia durante i mesi che videro il trionfo rivoluzionario e la nascita della Repubblica dei Consigli, succeduta alla Repubblica nata in seguito al crollo dell’Impero austro-ungarico. La sovrapposizione tra il palazzo di Visegrádi utca 15 ed il comunismo era così totale che nel sentire comune il primo veniva usato come sinonimo del secondo (Acquilino-Pankovits, 2019). Questa considerazione ben spiega come e perché l’edificio fosse arricchito di bandiere e targhe commemorative negli anni della Repubblica Popolare d’Ungheria. Oggi, tuttavia, la memoria legata a questo palazzo sembra essere caduta nell’oblio. Le bandiere non esistono più, le targhe sono state rimosse ed il numero 15 di Visegrádi utca sembra essere un complesso architettonico come molti altri. Ancora una volta esso sembra essere simbolo non più del socialismo realizzato e trionfante, bensì della memoria di quel periodo storico nell’Ungheria di oggi.      Considerazione, questa, sulla quale è necessario spendere qualche parola.

  1. Tra Storia e politica: la nascita del campo anticomunista europeo
Il Gruppo di Visegrád all’interno dell’Unione Europea (fonte: Wikipedia)

Il collasso del socialismo nell’Europa orientale portò, sul piano meramente politico, a due conseguenze: da un lato la “normalizzazione” dei partiti comunisti che governarono i Paesi del blocco orientale e che, cambiato nome, accettarono la transizione verso la democrazia borghese; dall’altro l’avanzata delle destre anticomuniste intenzionate a “regolare i conti” con il passato e con i quadri e le organizzazioni del passato regime.

In questo contesto si situa una rinnovata attenzione verso la produzione storiografica ed una sorta di alleanza tra alcuni storici e potere politico. Le organizzazioni politiche di destra avevano e hanno alla base l’idea per cui la transizione da socialismo a capitalismo sia sostanzialmente una rivoluzione incompiuta, fermata dalla perdurante influenza degli ex partiti comunisti e dei loro vecchi dirigenti sulle odierne società centro-est europee (Dujisin, 2010 e Dujisin, 2020). Proprio a causa di questa convinzione e a causa degli eventi traumatici e divisivi del passato più o meno recente, le destre dell’Europa centro-orientale intervengono nel campo della memoria e della Storia, cercando di imporre una propria narrazione del passato. Questo processo, tuttavia, non avviene in modo diretto, i politici non si sostituiscono direttamente agli storici, bensì avviene in modo indiretto, attraverso l’azione di quelli che sono stati definiti come “anticommunist entrepreneurs”, ossia quegli attori che operano in una situazione di “[…] compromesso tra conoscenza accademica ed ideologia politica, tra pratica storiografica ed azione politica ed eventualmente tra istanze nazionali ed esigenze di europeizzazione […]” (Dujisin, 2020).

Il processo, quindi, è a doppio senso: da un lato rappresentanti politici traggono legittimazione dagli studi e dalle opere di alcuni storici, dall’altro alcuni studiosi legittimano la propria posizione accademica con questo rapporto con il potere politico.

Le azioni di questi attori sociali si condensano nella nascita e proliferazione di musei ed istituti di memoria che portano avanti un discorso pubblico sul passato recente e sulla sua memoria evitando però la discesa in campo diretta del potere politico il quale, tuttavia, crea e finanzia tali istituti e musei a discapito di altri (Dujisin, 2020).

Questa alleanza, questo campo anticomunista sorto a livello nazionale nei singoli Stati dell’ex blocco orientale, si è successivamente diffuso a livello europeo con l’integrazione dei Paesi ex socialisti all’interno dell’Unione europea, portando a collaborazioni tra gli istituti di memoria ed alla nascita di nuove organizzazione europee, giungendo infine all’intervento diretto del Parlamento europeo in campo storiografico, condensatosi nella risoluzione che equipara nazismo e comunismo (Dujisin, 2020).

  1. Il socialismo in Ungheria tra passato e presente: tre lieux de mémoire

Per meglio comprendere quanto detto sino ad ora e come il ricordo del periodo socialista venga interpretato nell’Ungheria di oggi non è forse inutile analizzare tre lieux de mémoire, tre luoghi in cui passato e presente, memoria e Storia si incontrano ed interagiscono tra loro, tre luoghi in cui è evidente il rapporto evidenziato nel paragrafo precedente tra narrazione del passato e Storia, tra ideologia politica (tanto del passato, quanto del presente) e produzione storiografica. Ci riferiamo in particolar modo al Pantheon del movimento dei lavoratori, al Memento Park ed al museo Terror Háza.

  • Il Pantheon

Il cimitero di Kerepesi è il luogo in cui riposano le personalità più importanti della Storia ungherese. Basti pensare che qui sono stati eretti i mausolei di Kossuth Lajos, di Deák Ferenc e del conte Batthyány Lajos. Questo immenso cimitero, inoltre, è stato scelto come luogo di inumazione dei soldati sovietici caduti durante la liberazione di Budapest nel corso della Seconda guerra mondiale. Non sorprenderà quindi sapere che Kerepesi fu il luogo scelto dal Partito socialista operaio ungherese (MSZMP) per la costruzione del Pantheon del movimento dei lavoratori, eretto nel 1959.

Il Pantheon del movimento dei lavoratori presso il cimitero di Kerepesi (fonte: Wikimedia)

L’anno scelto per l’inaugurazione non fu casuale per due motivi. Prima di tutto nel 1959 cadeva il quarantaquattresimo anniversario della nascita della Repubblica dei Consigli, primo esperimento socialista in Ungheria. In secondo luogo, l’inaugurazione del monumento avvenne tre anni dopo la repressione dei moti del 1956. La volontà di creare un Pantheon dedicato al movimento dei lavoratori e ai martiri del comunismo venne ventilata per la prima volta nel 1947, ma fu solo dieci anni dopo che il Comitato Centrale del Partito prese una decisione definitiva (Horvath, 2008).

In che modo, tuttavia, la scelta dell’anno 1959 influenza l’interpretazione del monumento? Proprio per l’intreccio tra anniversario della nascita della Repubblica sovietica ed eventi post-1956. Bisogna infatti ricordare come i moti ungheresi di quel fatidico anno vennero repressi dal governo di Kádár János, neosegretario del Partito e Presidente del Consiglio. Tre anni dopo gli eventi del 1956 si rendeva quindi necessario ridefinire il regime in opposizione agli anni del governo stalinista di Rákosi Mátyás. La decisione del Comitato Centrale fu quindi quella di dare vita ad un Pantheon che raccogliesse i resti dei martiri del socialismo e di personalità illustri quali, per esempio, Lukács György o veterani della Guerra civile spagnola. L’intenzione era quella di creare una sorta di continuità tra Repubblica dei Consigli, attività illegale del Partito comunista durante il regime dell’Ammiraglio Horthy prima e delle Croci Frecciate poi e ritorno del socialismo con la Repubblica Popolare (Horvath, 2008). Quella che ne conseguì fu una riscoperta a livello storiografico del periodo della Repubblica dei Consigli, scarsamente considerata durante il regime di Rákosi. Con il crollo del socialismo la Repubblica sovietica è caduta di nuovo nell’oblio e questo spiega lo stato di quasi abbandono del Pantheon.

La decisione di seppellire Kádár János poco lontano dal monumento, tuttavia, rende quella parte del cimitero un punto di riferimento per anziani e nostalgici della cosiddetta “era Kádár” e della Repubblica Popolare, rendendo il complesso monumentale un luogo di memoria ancora pregno di significato politico, anche se limitato all’azione individuale o collettiva di persone o organizzazioni che ancora si identificano in quel passato.

  • Memento Park
Monumento alla Repubblica dei Consigli (fonte: Archivio Scacchiere Storico)

Il collasso del socialismo del 1989 portò, tra le sue numerose conseguenze, alla rimozione di buona parte delle statue erette a Budapest durante gli anni della Repubblica Popolare. Ben presto nacque un vero e proprio dibattito sul destino da riservare ai monumenti, fino alla decisione di raccoglierli in un museo a cielo aperto di proprietà statale, ma gestito da un ente privato.

Il Memento Park, questo il nome scelto, presenta numerose caratteristiche interessanti per quanto riguarda la trasmissione della memoria del periodo socialista.

A livello architettonico il museo si caratterizza come un grande parco recintato al cui ingresso principale è posta una robusta porta d’acciaio perennemente chiusa. Su questa porta è incisa la poesia di Illyés Gyula “Una frase sulla tirannia”. Proprio questi due aspetti influenzano l’interpretazione di tutto il museo: la porta chiusa e la poesia spingono a leggere le statue contenute nel parco solo come espressione della tirannia comunista (Réti, 2017).

Busti di Lenin e Stalin all’interno del Monumento a Stalin demolito nel 1956 (fonte: Archivio Scacchiere Storico)

Un altro aspetto fondamentale è la totale mancanza di informazioni scritte all’interno del museo. Non vi sono descrizioni, non vi sono indicazioni o interpretazioni. La trasmissione della memoria, quindi, è volutamente orale ed accessibile solo tramite le visite guidate o i racconti di chi ha vissuto gli anni della Repubblica Popolare. Questo genera una sorta di sdoppiamento interpretativo: per i turisti stranieri il Memento Park è essenzialmente un luogo turistico nel quale fotografare statue di un Paese e di un sistema che ormai non esistono più, magari scimmiottando le pose delle figure ritratte nei monumenti sbeffeggiandone la memoria; per gli ungheresi, invece, è un luogo di trasmissione della memoria soprattutto individuale legata al ricordo delle statue e di quegli anni: una trasmissione, come abbiamo detto, essenzialmente orale, ma incarnata nella materialità dei monumenti (Réti, 2017).

Un terzo aspetto fondamentale per capire la natura del Memento Park è l’ironia che, secondo le intenzioni del suo architetto Eleőd Ákos avrebbe dovuto caratterizzare l’interpretazione del museo. La sua volontà, quindi, non era quella di proporre una vendetta sul passato, ma di ridere di quello che le statue avevano rappresentato, rendendole quindi una parodia di loro stesse (Horvath, 2008 e Réti, 2017).

  • Terror Háza
Terror Háza (fonte: Wikipedia)

La Terror Háza o, in italiano, Casa del Terrore venne inaugurata nel 2002. Il luogo scelto per questo museo non è casuale: esso, infatti, è situato al numero 60 di Andrássy út, ossia nell’edificio che fu il quartier generale delle Croci Frecciate dal 1940 al 1945 e che, dal 1945 al 1956, fu successivamente sede della polizia segreta della Repubblica Popolare.

La scelta dell’edificio è di per sé emblematica e mira a costruire un parallelo tra il regime fascista delle Croci Frecciate ed il regime comunista. Entrambi i regimi, inoltre, sono visti come frutto di un’imposizione esterna (Dujisin, 2010) e come simbolo dell’occupazione e della perdita d’indipendenza dell’Ungheria avvenuta, come ricorda la Costituzione ungherese, nel 1944 e riottenuta solo nel 1989 (NJT, 2019).

Fin dalla sua fondazione la Terror Háza è stata oggetto di numerose critiche, non solo per la volontà di tracciare un parallelo tra fascismo e comunismo o per la totale mancanza di riferimenti al regime di Horthy, ma anche per il modo in cui la memoria degli avvenimenti è trasmessa.

Il museo, infatti, è pieno zeppo di informazioni scritte e di documenti informativi che i visitatori possono portare con sé. Come sottolineato da Zsófia Réti, tuttavia, tali documenti restano per lo più ignorati ed il modo in cui il museo cerca di trasmettere la memoria del periodo socialista si basa essenzialmente su nuovi media che sollecitano le emozioni e l’interiorità (Réti, 2017). Una scelta, questa, volta a creare una sola ed unica interpretazione del passato in cui non sono ammesse ulteriori analisi: attraverso le emozioni e le rappresentazioni di avvenimenti si crea quindi un solo ed unico passato ritenuto di per sé valido.

Il museo, inoltre, presenta altri due aspetti. Da un lato abbiamo un evidente squilibrio nella ricostruzione storica degli eventi, basti pensare alla citata mancanza di riferimenti al regime di Horthy o al fatto che solo 3 sale su 19 sono dedicate al regime delle Croci Frecciate, fatto che ha spinto molti critici a ritenere il riferimento al nazismo utile solo a demonizzare, di rimbalzo, la memoria del periodo socialista (Réti, 2017); dall’altro lato abbiamo una sorta di interpretazione tragica della storia ungherese nel corso del XX secolo, con i mali del secolo causati da imposizioni straniere, quasi a sottolineare una sorta di vittimismo nazionale e di auto-assoluzione dagli orrori novecenteschi (Horvath, 2008).

  1. Conclusioni

Quanto riportato sino ad ora ed i riferimenti fatti ad alcuni luoghi simbolo della trasmissione della memoria del socialismo in Ungheria mostrano come quest’ultimo processo sia in realtà molto complesso e soggetto a numerose tendenze.

Da un lato, infatti, abbiamo la memoria nostalgica incarnata nel Pantheon del movimento dei lavoratori, dall’altro abbiamo le tendenze evidenziate dal Memento Park e, soprattutto, dalla Terror Háza. Tendenze, quest’ultime, a cui non è estraneo quel processo di interazione e legittimazione reciproca tra lavori di certi storici e potere politico.

Quello che emerge, quindi, è il quadro di una memoria contesa soggetta a più tensioni, non ultima quella di voler sradicare il passato per creare nuove interpretazioni, come evidenziato dalla continua eliminazione dei monumenti e da uno spregiudicato uso pubblico della Storia.

Un processo, questo, che rinfocola vecchie tensioni, che porta la contesa politica nel campo della memoria e che, troppo spesso, piega la Storia e la sua ricostruzione ad interessi di parte.

Davide Galluzzi – Scacchiere Storico

Davide Galluzzi è laureato in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Specializzato in Storia Moderna, i suoi interessi di ricerca includono la Rivoluzione francese, l’età napoleonica, la Storia culturale e l’uso pubblico della Storia.

Bibliografia

Acquilino P.-Pankovits J., Ungheria 1919. Gli insegnamenti di una sconfitta nel 100° anniversario della Repubblica dei Consigli, Milano, Pantarei, 2019; Dujisin Z., Towards a collective memory of socialism? Grounding the discursive production of Hungarian and Czech post-communist anti-communism, in Journal for Labour and Social Affairs in Eastern Europe, 2010, Vol. 13; Dujisin Z., A history of post-communist remembrance: from memory politics to the emergence of a field of anticommunism, 2020 (https://link.springer.com/content/pdf/10.1007/s11186-020-09401-5.pdf); Horvath Z.K., The Redristibution of the Memory of Socialism. Identity Formations of the “Survivors” in Hungary after 1989, in Past for the eyes. East European Representation of Communism in Cinema and Museums after 1989, Budapest, Central European University Press, 2008; Nemzeti Jogszabálytár, The Fundamental Law of Hungary (https://njt.hu/translated/doc/TheFundamentalLawofHungary_20190101_FIN.pdf); Réti Z., Past Traumas and Future Generations: Cultural Memory Transmission in Hungarian Sites of Memory, in The Hungarian Historical Review, Vol.6, No.2, Budapest, Hungarian Academy of Sciences, 2017.

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Pubblicato da Scacchiere Storico

Rivista di ricerca e divulgazione storica

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