di Beatrice Cattaneo
«I pomodori del mio orto portavano nel loro DNA un pizzico di quella storia» afferma Charles C. Mann in 1493, Pomodori tabacco e batteri, come Colombo ha creato il mondo in cui viviamo (2013), in riferimento alle sue ricerche riguardo le origini di questo famosissimo alimento. È sorprendente, e l’autore lo sottolinea spesso, come le cose che oggi riteniamo più scontate e a portata di mano – e che ci verrebbe da definire parte tradizionale della nostra dieta – in realtà abbiano una storia che le conduce molto lontano da noi, sia nel tempo che nello spazio. Grande fascino, in questo senso, riveste sicuramente il legame tra la storia e la biologia nello studio di flora e fauna, che ha condotto a degli studi di grandissimo interesse anche e soprattutto nell’ambito della storia dell’alimentazione.
- Un lungo viaggio: dall’America, alla Spagna, all’Italia

(fonte: https://peerj.com/articles/12790/#supp-1).
Il pomodoro sembra essere nato sulle alture lungo la costa del Sud America occidentale e cresce tuttora selvatico tra Cile settentrionale, Ecuador e Perù: nello specifico, pare che il pomodoro comune (Lycopersicum esculentum) sia originario proprio dell’ovest di quest’ultima regione (Brand, 1939); Hernán Cortés vi si imbatté durante la sua conquista del Messico, che ebbe luogo dal 1519 al 1521.
Sebbene sia abbastanza evidente la loro origine, non c’è tuttavia alcuna prova che i pomodori fossero in qualche modo mangiati all’interno dell’area del Sud America: le osservazioni riscontrabili nei testi di missionari e coloni, riguardo questo frutto, sono numerose, ma ciò principalmente perché rispetto ad altri cibi provenienti dalle Americhe – peperoni, fagioli, mais – erano meno diffusi e non costituivano un elemento preponderante della dieta degli Indios (Sentieri, Zazzu, 1992). È chiaro che il pomodoro subì una migrazione nell’America centrale perché i Maya svilupparono delle colture di questi frutti, adottati poi anche dagli Aztechi, che li coltivavano in Messico, per l’appunto dove Cortés li vide per la prima volta; fu proprio con il ritorno dell’”hidalgo-governatore” in Spagna che i pomodori approdarono nel vecchio continente (Gentilcore, 2010).
Arrivati sotto forma di semi, tramite missionari e coloni spagnoli, dalla Spagna giunsero con estrema facilità anche in Italia, assumendo un nome tuttavia molto differente: dall’indios tomatl all’italiano pomi d’oro.
- I pomi d’oro, un nome quasi mitico
Come per tanti altri prodotti, anche il pomodoro venne associato a dei nomi che lo avvicinavano ad alimenti conosciuti o che stimolassero una sorta di fascinazione (si pensi al mais chiamato “grano turco” oppure al francese “pomme de terre” per avvicinare la nuovissima patata alla già conosciutissima mela).
Seguendo questa logica, inizialmente venne dato a questo frutto esotico il nome italiano di pomodoro, tralasciando la variante azteca tomatl (ripresa e utilizzata, invece, dagli spagnoli nella forma tomate). In Italia, il termine “pomo” andava genericamente ad identificare quelli che erano i frutti morbidi, come ad esempio le mele e le piante a loro similari; “oro”, ovviamente, suggeriva l’importanza del colore, unico iniziale indicatore quando nulla si conosceva del pomodoro, nemmeno il fatto che una volta maturo diventasse rosso (Gentilcore, 2010).

Le iniziali incertezze e confusioni terminologiche sono facilmente riscontrabili in due trattati: quello di Gianfranco Angelita, I pomi d’oro (1607) – parola con la quale tuttavia l’autore si riferiva a fichi e meloni – e quello di Giovanni Battista Ferrari, Hesperides, sive de malorum aureororum cultura et usu (1646), in cui, invece, il termine “pomi d’oro” andava a identificare i limoni. A complicare la situazione c’era anche un altro fattore, che si legava alla mitologia greca e, nello specifico, affondava le sue radici nel mito delle Esperidi. Le leggendarie figlie della notte, infatti, erano chiamate a custodire un bellissimo giardino dove cresceva un albero i cui frutti erano delle mele dorate (Gentilcore, 2010).
Leggendo alcuni testi rinascimentali, perciò, è assolutamente facile una svista e pensare che con il termine pomi d’oro si intenda il frutto attuale, quando questa consisteva invece semplicemente in un’etichetta molto fluida.
- I pomodori in Italia – un’accoglienza poco entusiasta
L’abbinamento ancestrale tra pasta e pomodoro, che sembra risalire alle origini di una fantomatica italianità, è in realtà un mito totalmente ottocentesco: quando questo frutto arrivò nella penisola, infatti, faticò molto ad inserirsi – per varie ragioni – nella dieta locale.
Portati in Europa dagli spagnoli, i pomodori ebbero una vita iniziale molto complessa e faticarono a guadagnare successo, addirittura più delle patate, ritenute capaci di trasmettere la lebbra a causa del loro aspetto bitorzoluto; in un primo momento, come accadde per molti prodotti, l’arrivo del pomodoro fu visto infatti con estremo sospetto (Brand, 1939).
Le ragioni che portarono all’iniziale rifiuto nei confronti di questo ortaggio sono principalmente due: la catalogazione scientifica del frutto e lo stato della medicina del tempo. Per quanto riguarda la prima motivazione, la questione è facile da spiegare: il pomodoro venne classificato come appartenente alla famiglia delle solanacee, che annovera al suo interno la belladonna, il giusquiamo e la mandragora, tutte piante alle quali si attribuivano grandi poteri magici e allucinatori. Oltretutto, della stessa famiglia faceva parte la melanzana – proveniente dalla Persia e giunta in Italia nel XIV secolo, diffusasi poi sulla penisola a ritmi lentissimi – con la quale inizialmente il pomodoro venne spesso confuso (è oltretutto curioso che botanicamente sia melanzane che pomodori – come i cetrioli altre cucurbitacee – siano entrambi considerati frutti) (Gentilcore, 2010). Non è un caso, in effetti, che il medico senese Pietro Andrea Mattioli descrivesse il nuovo arrivato come «un’altra spetie di melanzana» (Sentieri, Zazzu, 1992).

(fonte: https://peerj.com/articles/12790/#supp-1).
La seconda ragione di un iniziale e netto rifiuto verso il pomodoro come alimento è dato proprio dalla medicina rinascimentale, che al tempo si legava a doppio filo con le teorie galeniche e umorali (Albala, 2002), secondo le quali frutta e verdura erano considerate generatrici di umori ostili e melanconici (Sentieri, Zazzu, 1992). Tuttavia – nonostante queste teorie andassero per la maggiore – già tra Cinquecento e Seicento non tutti gli intellettuali erano concordi; José De Acosta, ad esempio, fornendoci uno dei ritratti più importanti delle Indie occidentali del tempo, ci ha lasciato moltissime puntuali osservazioni anche sull’alimentazione, accennando anche al pomodoro ma, questa volta, in termini positivi «usano ancora tomates, che sono freschi et sani et è una sorte di grano grosso pieno di succo, et ne fanno salsa saporita et ve ne sono buoni da mangiare» (Sentieri, Zazzu, 1992).
4. Una lenta accettazione: tra botanica e medicina
L’ostilità nei confronti dei pomodori non si tradusse mai in un rifiuto netto, questo anche grazie alla facilità climatica di coltura del pomodoro su territorio italiano, che gli permise pian piano di entrare nella tradizione (Sentieri, Zazzu, 1992).
Come nel caso dello zucchero o del tabacco – ma in generale di tantissimi altri prodotti provenienti da lontano – anche il pomodoro venne accettato col tempo, passando attraverso diverse fasi: dallo studio scientifico medico-botanico, all’utilizzo come pianta ornamentale ed elemento distintivo-aristocratico, fino ai consumi popolari.
Nel 1544 Pietro Andrea Mattioli, uno dei medici più famosi dell’epoca – interessato nello specifico agli usi medicinali delle piante – aveva ipotizzato che i frutti provenienti dalle Americhe fossero commestibili. I suoi interessi botanici confluirono infatti in un commentario in cui Mattioli descriveva «l’arrivo di una spetie nuova in italia» riferendosi al pomodoro, annoverandone poi il colore rosso sangue o dorato e la possibilità di mangiarlo come una melanzana. Il suo testo è il primo documento a stampa nel quale compare, per la prima volta, il termine “pomi d’oro”. (Gentilcore, 2010).
Oltre alla già citata confusione del pomodoro con la melanzana, un’altra causa di iniziale difficoltà riguarda l’identificazione del frutto con il tomatillo, pianta di origine americana ma appartenente ad un genus diverso. Lo stesso Francisco Hernández, medico di corte di Filippo II – salpato per le Indie su suo ordine – realizzando una descrizione in sedici volumi della flora e della fauna di quei luoghi, pubblicata in Italia nel 1658, riportava accanto alla descrizione del tomatl un’illustrazione erronea raffigurante un tomatillo (Gentilcore, 2010). Il testo di Hernández è, ad ogni modo, illuminante, perché esemplifica perfettamente le iniziali perplessità nei confronti di questo frutto, causate dalle motivazioni precedentemente citate. Il medico, infatti, sembrava trovare il frutto particolarmente repellente, perché gli ricordava i genitali femminili, il che gli appariva «orribile, osceno, venereo e lascivo». Questo collegamento alla sessualità si rintraccia anche nell’iniziale idea che i pomodori fossero afrodisiaci, leggenda che fu probabilmente alle origini dei termini poma amoris, pomme d’amour e love apple per descrivere il frutto messicano. Il botanico veneto Pietro Antonio Michiel esprimeva inoltre ulteriori riserve verso i pericolosi pomodori, che a suo parere «son di dano e nocivi» e ancora «caggionan malle alli occhi et alla testa» (Gentilcore, 2010).
Non è strano, ad ogni modo, che le preoccupazioni iniziali riguardo la tossicità e la pericolosità di alcuni alimenti nuovi fossero molte. A queste, però, si sommavano la voglia di sperimentare e la ricerca – in quei prodotti provenienti da un terreno nuovo e vergine – della panacea universale. Ecco allora che gli studiosi si scambiavano semi, li osservavano per poi essiccarli e conservarli in grandi raccoglitori. Nel pomodoro, inizialmente, si cercò – come anche per il tabacco e lo zucchero – una cura per le ulcere oculari, per il mal di stomaco e il mal di testa e persino per i tumori dell’orecchio; questo frutto però non ebbe mai particolare presa come farmacopea (Gentilcore, 2010).
I manoscritti di Hernández – come già affermato – arrivarono in Italia, dove furono copiati da una delle prime accademie d’Europa: l’Accademia dei Lincei, fondata da Federico Cesi, aristocratico romano interessato a botanica e storia naturale, che commissionò la creazione dello splendido Erbario miniato, sulla base dei manoscritti del medico spagnolo. Al 1628, inoltre, risale il testo del medico padovano Giovanni Domenico Sala, che descrive nuovamente i pomodori come «cose strane e orribili» e «che poche persone imprudenti» erano disposte a mangiare; citazione che suggerisce che comunque – ignorando i consigli di medici e filosofi – qualcuno di pomodori si nutriva (Gentilcore, 2010).Assumere pomodoro, ad ogni modo, era considerato una stravaganza, una sorta di esperienza curiosa. Il sospetto con cui si osservava questo ortaggio può certo far sorridere, ma dobbiamo immedesimarci nella mente del tempo, in cui il timore era verso un reale rischio di avvelenamento, non conoscendo molto riguardo questi cibi (Gentilcore, 2010).
5. Il pomodoro come status symbol aristocratico
L’interesse nei confronti del pomodoro superò presto i confini delle discipline medico-scientifiche, coinvolgendo nella dilagante curiosità ricchi e aristocratici che nei loro giardini ornamentali mescolavano scienza e sapere, coltivando ben volentieri piante esotiche; mais, patate e tabacco erano colture curiose e sperimentali e, prima di approdare nei campi, passarono tutte da questa fase di colture ornamentali.
Se dovessimo trovare una data simbolica alla quale far risalire l’inizio della storia del pomodoro in Italia, questa sarebbe il 1548. Cosimo de Medici, Granduca di Toscana, si trovava a Pisa con la famiglia e il suo sottomaggiordomo presentò a corte un cesto inviato dalla famiglia fiorentina di Torre del Gallo che, apparentemente, conteneva dei semi di pomodoro (Gentilcore, 2010). Cosimo de Medici, probabilmente grazie al matrimonio con Eleonora di Toledo, entrò in contatto con moltissimi prodotti del Nuovo Mondo, poiché i due condividevano la medesima curiosità botanica e lei era solita farsi spedire prodotti dalla Spagna (inviatile spesso anche dal padre, Pedro di Toledo, viceré di Napoli). Con l’arrivo della moglie a Firenze, i legami tra Cosimo e la Spagna iniziarono a intravedersi anche nei fregi di Palazzo Vecchio – ristrutturato con il gusto del tempo – che iniziò a mostrare bassorilievi con ghirlande raffiguranti prodotti provenienti dalle Americhe. Cosimo finanziò anche il giardino botanico di Pisa e prese in affitto dei terreni a Firenze per crearvi dei giardini ornamentali o sperimentali, a volte corredati anche da serragli con animali provenienti dal Nuovo Mondo, tra i quali donnole e tacchini (Gentilcore, 2010).
A riprova del consumo distintivo del pomodoro vi sono le testimonianze secondo le quali – come accadeva per altri prodotti rari e particolari, ad esempio le spezie – i semi di pomodoro furono inizialmente oggetto di doni regali: nel 1528 infatti, il modenese Giacomo Castelvetro stilò un elenco di semi da inviare al duca Carlo di Svezia (futuro re) – con il quale condivideva l’interesse per il giardinaggio – suggerendo tra gli altri i semi di pomodoro (Gentilcore, 2010).
Nei cinquant’anni successivi all’apparizione dei pomodori in Europa, questi furono quindi coltivati nei giardini delle élites cittadine e campagnole e ritratti in opere d’arte. Il capo giardiniere dei giardini botanici di Aranjuez, presso Madrid – creati con il benestare di Filippo II – scriveva a proposito di questo frutto: «Dizen son buenos para salsa» (Gentilcore, 2010).

Il pomodoro però restò inizialmente una pianta da ammirare, più che da consumare. Questo fu proprio dovuto principalmente alla medicina rinascimentale, che non apprezzava particolarmente frutta e verdura, ritenute sostanze acquose e viscide, adatte a contadini e manovali più che agli aristocratici. Tuttavia le testimonianze che molti si disinteressassero a questi consigli – soprattutto tra cortigiani e principi, depositari di curiosità e piaceri distintivi – non mancano: il consumo delle verdure fu infatti sempre più in ascesa. Una testimonianza risiede sicuramente nell’usanza di alcune città italiane di nominare molte piazze come “piazza delle erbe”, concedendo sempre più riconoscimento a verdurieri e orticultori. Gli italiani, in particolare, svilupparono – rispetto ai nordeuropei – una passione prematura per le verdure: esiste infatti una miniatura che mette in ridicolo quest’abitudine, intitolata The celebrated mock italian song, che ironizza proprio sull’abitudine tutta italiana di nutrirsi di insalate (Gentilcore, 2010).
6. Più verdura per tutti
Durante il Seicento il consumo di verdura aumentò in tutta Europa e si iniziò anche a parlare per la prima volte di regimi dietetici vegetariani. Questo cambiamento giovò al consumo del pomodoro, che iniziò a diffondersi in Italia prevalentemente come condimento, o combinato a pietanze come prosciutto e melone oppure con zucchine, melanzane e peperoncini, trasportando sulla penisola moltissime ricette di origini iberiche. Tutti i piatti presenti nei ricettari italiani che prevedevano l’utilizzo del pomodoro, si acquisirono inizialmente proprio dagli spagnoli, in particolare a Napoli, a lungo governata da Madrid. In Lo scalco alla moderna di Antonio Latini – uomo dalla sopraffina arte culinaria attivo prima in Spagna e infine a Napoli – tutti i piatti da lui descritti contenenti pomodoro vengono infatti definiti “alla spagnola” (Capatti e Montanari, 2005).
Pian piano si iniziò a diffondere la voce per cui i pomodori fossero salutari – se consumati moderatamente – tanto che il loro utilizzo iniziò a diffondersi anche presso le istituzioni religiose. Sulla penisola furono probabilmente i sardi che, per primi, iniziarono a non temere questo frutto, chiamandolo alla spagnola tomatas (Gentilcore, 2010).
In generale, comunque, il pomodoro si diffuse prima nell’Italia meridionale e centrale e solo in seguito ebbe successo al nord. Furono i francesi a portare il pomodoro in queste regioni: il cuoco di Marie Louise d’Asburgo-Lorena – seconda moglie di Napoleone – usava moltissimo i pommes d’amour e Marie Louise pare l’avesse portato con sé a Parma, città di cui era duchessa insieme a Piacenza e Guastalla (Gentilcore, 2010).
I pomodori ebbero il loro maggiore successo, tuttavia, nell’Italia meridionale: fruttiferi, adeguati al clima, costavano poco ed erano grandi risorse nelle famiglie durante i mesi estivi. La coltivazione e il consumo dei pomodori aumentò nettamente nel corso dell’Ottocento, a causa del peggiorare della dieta del Mezzogiorno durante l’unificazione d’Italia. I poveri e i contadini mangiavano verdura e frutta considerata meno pregiata, quindi anche pomodori crudi e spesso acerbi o andati a male. I medici napoletani offrono a tal proposito preziose testimonianze di usi locali del pomodoro, grazie ai quali l’Italia sarebbe diventata poi famosa nel mondo: la pizza, condita con olio, formaggio, origano, pomodori e menta e, per chi poteva permetterselo, i famosi maccheroni di cui il pomodoro divenne condimento principale.
L’Ottocento fu il secolo che assistette alla fatidica unione tra pasta e pomodoro, con la nascita della salsa tricolore che univa l’Italia anche a livello gastronomico (Gentilcore, 2010).
Il pomodoro – che rappresenta oggi uno dei prodotti più tipicamente italiani e principe della cucina della penisola – è in verità un prodotto estremamente globale, che nella sua storia ha toccato tantissimi paesi con alterne fortune. Esempio della fluidità del concetto di tradizione, la vicenda dei nostri pommes d’amour dimostra come l’accettazione di un semplice alimento sia fortemente influenzata dagli elementi socioculturali con cui entra in contatto. Dietro la storia dell’alimentazione, insomma, si apre sempre un mondo di riflessioni e di spunti interessanti che permettono di intravedere uno scorcio dell’umanità del tempo.

Beatrice Cattaneo – Scacchiere Storico
Beatrice Cattaneo, laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi in Storia Moderna incentrata sul periodo napoleonico, si interessa di Rivoluzione Francese, Americana, di Atlantic History e di Storia Culturale.
Bibliografia
Albala K., Eating right in the Renaissance, Berkeley, University of California Press, 2002; Brand D., The Origin and Early Distribution of New World Cultivated Plants, in ”Agricultural History”, 13 (2), 109-117, Aprile 1939; Gentilcore D., La purpurea meraviglia, Storia del pomodoro in Italia, Milano, Garzanti, 2010; Mann C. C., 1493, Pomodori, tabacco e batteri. Come Colombo ha creato il mondo in cui viviamo, Milano, Mondadori, 2013; Capatti A., Montanari M., La cucina italiana, storia di una cultura, Bari, Laterza, 2005; Sentieri M., Zazzu G., I semi dell’Eldorado: l’alimentazione in Europa dopo la scoperta dell’America, Bari, Dedalo, 1992; Smith A.F., The tomato in America: early history, culture, and cookery, Illnois, University of Illinois Press, 2001; van Andel T, Vos RA, Michels E, Stefanaki A. 2022. Sixteenth-century tomatoes in Europe: who saw them, what they looked like, and where they came from.