VERBA VOLANT, SCRIPTA MANENT. DAL PARTICOLARISMO ALL’UNIVERSALISMO GRAFICO ALTOMEDIEVALE: MEROVINGICA E CAROLINA

Carlo Magno a corte

di Federica Fornasiero

Introduzione

Partiamo dal presupposto che non si è sempre scritto nello stesso modo e molto probabilmente in futuro non si continuerà a scrivere come si è ormai abituati a fare. La storia della scrittura, il modo di scrivere e di apprendere, i supporti e gli strumenti scrittori, i segni grafici e di interpunzione, il sistema abbreviativo non sono sempre stati gli stessi nello spazio e nel tempo, nonostante sia ricostruibile una sorta di fil rouge, dato da ibridi, contaminazioni, derivazioni tra scritture nate e sviluppatasi in contesti storici, geografici, culturali e sociali differenti. Come spiega Battelli «pur di fronte alla grande varietà di tipi che troviamo nei manoscritti antichi e medievali, non si può né si deve parlare di “diverse scritture latine”, ma solo di forme diverse che derivano dalla scrittura latina dell’età romana. […] è possibile fissare, nel corso dell’evoluzione delle forme, certi momenti in cui la scrittura assume aspetto e forme caratteristiche, tanto da poter distinguere tipi definiti» (Battelli, 1949).

Prima di tutto, perché si scrive? Sin dall’alba dei tempi, l’uomo ha sentito la necessità fissare e tramandare la propria memoria, oppure storie e concetti, attraverso immagini per lo più scalfite o disegnate su pietra, foglie, cortecce o ossa, che restituissero la rappresentazione del mondo che lo circondava. Con il passare del tempo, la civiltà umana iniziò a organizzarsi in società via via sempre più complesse, che conseguentemente richiedevano non solo una diversa ricostruzione del pensiero e della memoria, ma anche l’organizzazione e la restituzione di passaggi o scambi di proprietà o beni, finchè non si giunse alla vera e propria capacità di documentarli permanentemente. Tra le prime testimonianze del passaggio dalla Preistoria alla Storia, e quindi dalla mera raffigurazione di immagini a un vero e proprio sistema scrittorio, vi sono certamente i geroglifici egiziani e gli ideogrammi cinesi; fu tuttavia con i sumeri che si ebbe «a partire dal 3200 a.C., […] la prima lingua scritta basata sull’utilizzo di caratteri cuneiformi sillabici, con i quali venne creato un codice in cui i simboli convenzionali non avevano alcuna correlazione grafica con quanto si voleva rappresentare» (Silvestro, 2022). Il passaggio dalla rappresentazione per immagini stilizzate a un vero e proprio alfabeto codificato segnò non solo un punto di svolta enorme nella storia della scrittura, ma diede anche forza alla produzione seriale di documenti di diversa natura, e quindi alla conseguente creazione di archivi (Silvestro, 2022).

La paleografia – dal greco paleo, antica, e grafia, scrittura – è la scienza che studia e analizza lo sviluppo e i diversi aspetti della scrittura “a mano”, degli strumenti e dei supporti scrittori nel tempo e nello spazio; esistono tante paleografie quanti sono gli alfabeti, pertanto per decifrare, comprendere ed esaminare le fonti prodotte in alfabeto latino (non necessariamente in lingua latina) nel corso del tempo, dobbiamo affidarci alla paleografia latina, che tratta dell’evoluzione grafica, della diffusione sociale e della funzione della scrittura dal VII secolo a.C al XVI secolo, fino quindi all’invenzione della stampa (Battelli, 1949; Petrucci, 1992). Il denominatore comune della scrittura in alfabeto latino è quella sviluppatasi nell’antica Roma e poi diffusa in tutto l’Impero. Vi sono delle sostanziali differenze tra scrittura maiuscola e minuscola; tra quella posata e corsiva; tra scrittura libraria e documentaria; tra scrittura normale, cioè derivante da un modello scolastico, e usuale, cioè quotidiana, personalizzata e personalizzabile, più spontanea, pratica e – sebbene derivante da un modello – sicuramente più aperta a sollecitazioni e contaminazioni. Quando la scrittura usuale differisce a tal punto dalla scrittura normale da creare un nuovo stile scrittorio condiviso all’interno di un gruppo più o meno eterogeneo di scriventi, allora si può parlare di un nuovo tipo scrittorio, che a sua volta può divenire modello scolastico. Quando una scrittura si formalizza in modello può essere definita tipizzata – quanto viene utilizzata da un determinato gruppo di scriventi, che seguono sì delle regole grafiche ma non dei veri e propri canoni, in un luogo e tempo limitato – o canonizzata – nel momento in cui il modello grafico coinvolge un ampio gruppo di scriventi su larga scala e per un periodo maggiormente dilatato nel tempo. Alcune scritture rappresentano inoltre ibridi, stadi intermedi tra un tipo scrittorio e il successivo, questo perché l’evoluzione della scrittura è ben lungi da essere rigida e lineare (Battelli, 1949; Cencetti, 1997; Cherubini-Pratesi, 2010).

Evoluzione alfabeto latino
Evoluzione dell’alfabeto latino dalla capitale all’antiqua (fonte: autore, Milliundjohnny; licenza, CC BY-SA 4.0)

1. Prima della carolina: i regni romano-barbarici e il particolarismo grafico

«Lo stanziamento dei barbari entro i confini dell’Impero d’Occidente promosse la formazione di una serie di regni nel corso del V secolo. […] Per i romani si trattò di elaborare nuove forme di convivenza con i barbari sotto l’autorità dei loro sovrani. Non a caso i regni vengono chiamati romano-barbarici proprio a sottolinearne la natura mista sul piano etnico e istituzionale. In essi si sperimentò l’incontro delle tradizioni e dei modelli di vita barbarici con le strutture sociali e politiche e i modelli ideologici e religiosi della romanità» (Zorzi, 2016).

Come abbiamo accennato, la scrittura cambia nel tempo, spesso al mutare della società. Prima della carolina, e quindi prima di ritrovare l’universalismo grafico, e dopo l’unità grafica romana, la scrittura o, meglio, le scritture tesero a “nazionalizzarsi”. Con la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 da parte di Odoacre e con la conseguente caduta dell’Impero Romano d’Occidente, si andò via via perdendo quell’unità politica, amministrativa, culturale che aveva caratterizzato il mondo latino. Sia ben inteso, quella che è conosciuta come “caduta” di un impero e inizio di una nuova era, al tempo rappresentò più che altro una sorta di passaggio tra un tipo di amministrazione, centrale e centralizzata, a un altro, di carattere per così dire “nazionale”. Infatti, tra la fine del II secolo e l’inizio del III, l’espansione imperiale romana giunse a una battuta d’arresto, dando così inizio a una fase di difesa dei confini. Le popolazioni barbare, che saranno poi gli “invasori”, erano già da tempo in contatto con la romanità, spesso anche in qualità di foederati. Il limes era infatti estremamente permeabile e quelle che poi verranno definite come “invasioni barbariche” non furono altro che migrazioni più o meno importanti di popolazioni cosiddette barbare che andarono in seguito insediandosi e infiltrandosi nei territori romanizzati, per poi stanziarvisi definitivamente. Gradualmente, tra il V e il VI secolo, le popolazioni germanico-barbariche – che pur sempre riconoscevano l’autorità dell’imperatore d’Oriente, alla quale si sottomisero – si impossessarono dei territori romani, sia sovrapponendosi al precedente impianto amministrativo e culturale, sia adeguandosi ad esso; dalla frammentazione dell’Impero nacquero così i regni romano-barbarici, segnando l’inizio – dal punto di vista della scrittura – della cosiddetta età del particolarismo grafico. Le popolazioni barbariche si mischiarono a quelle locali di tradizione latina: da questo incontro-scontro entrambi i popoli si influenzarono vicendevolmente a livello politico, amministrativo, ideologico, sociale, culturale e religioso (Battelli, 1949; Cencetti, 1997; Cherubini-Pratesi, 2010; Petrucci, 1992; Benigno et alles, 2014; Zorzi, 2016; Pirenne, 2018).

Carta dei regni romano-barbarici
I regni romano-germanici nel 476 d.C. Allgemeiner Historischer Handatlas, di G. Droysens, pubblicato da R. Andrée nel 1886 (fonte: Wikimedia; licenza CC BY-SA 3.0)

1.1 I franchi e i merovingi

«Di tutte le genti germaniche che, provenendo da est, a partire dal III secolo oltrepassarono il confine con il mondo romanizzato segnato dal fiume Reno, lo sciame di tribù che avrebbero preso il nome di franchi fu l’unico la cui patria divenne presto stabile» (Benigno et alles, 2014).

Battesimo di Clodoveo
Battesimo di Clodoveo, Maestro Saint Gilles (1500 circa), National Gallery of Art (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

L’area che ai fini di quest’articolo ci interessa approfondire è quella franca, dapprima sotto la dinastia dei Merovingi, poi sotto l’egida dei re carolingi. Se in altri regni romano-barbarici non sempre si riuscì a raggiungere una piena e immediata integrazione tra popolazione locale romana o romanizzata e “invasori”, non fu così in Gallia. I franchi non erano una «popolazione etnicamente definita» (Zorzi, 2016), bensì un insieme di tribù, che progressivamente abbandonarono la vita nomade per stabilirsi e mischiarsi tra le popolazioni gallo-romane; una volta subentrati all’Impero, il contatto con la romanità non solo influenzò la loro identità, ma permise una più semplice commistione con il potere locale. La fondazione di un regno vero e proprio – grazie all’espansione territoriale ai danni dei turingi, alamanni e burgundi, nonché alla politica di alleanze matrimoniali con altri capi germanici – il superamento del pluralismo tribale e il consolidamento della dinastia merovingica furono opera di Clodoveo tra il 481 e il 511, primo re barbarico a convertirsi direttamente dal paganesimo al cristianesimo ricevendo il battesimo da san Remigio, allora metropolita di Reims, evitando il passaggio dall’arianesimo: mossa vincente, che gli garantì l’appoggio e il controllo del clero e dei vescovi. Nel 510, Clodoveo fece redigere la raccolta delle leggi, usi e costumi dei franchi salii, il Pactus Legis Salicae, con la quale intendeva favorire l’integrazione delle diverse tribù che componevano la popolazione dei franchi, e l’amministrazione del regno e della giustizia. Successivamente, durante il VII secolo, il regno dei franchi riuscì a raggiungere una piena commistione tra elemento germanico e romano; tuttavia, in questo periodo, la figura del re si indebolì, tanto che i maestri di palazzo (ufficiali che coordinavano consiglieri, cancellieri e amministratori regi) riuscirono ad arrogarsi buona parte dell’amministrazione del regno, anche attraverso la distribuzione di terre del patrimonio regio per consolidare fedeltà e clientele militari. Tra di essi, la famiglia più importante e influente fu quella dei Pipinidi, che – assicurandosi l’ereditarietà della prestigiosa e autorevole carica di maestro di palazzo – riuscì a deporre Childerico. Nel 751, Pipino il Breve divenne pertanto re per acclamazione dei maggiorenti del regno anche con l’appoggio di papa Stefano II, che successivamente consacrò suo figlio Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero (Zorzi, 2016, Cencetti, 1978; Benigno et alles, 2014; Pirenne, 2018).

Carta del regno dei Franchi
Il regno dei Franchi da Clodoveo I a Carlo Magno (fonte: autore, Sémhur; licenza, CC BY-SA 3.0)

1.2 Il particolarismo grafico e le scritture di area franca

«Il disfacimento del mondo romano è un processo che s’iniziò assai prima e si concluse assai dopo il 476, termine convenzionale per il principio del Medioevo. I sudditi romani dei dominatori barbarici conservarono ancora abbastanza a lungo […] la vita e la civiltà dei loro padri, divenuta anche ormai la civiltà della loro Chiesa. Perciò la latinità, nel campo paleografico come in quello comprensivo della cultura, sopravvive alla perdita del centro comune, e una sorta di comunità grafica fra i regni nati dallo smembramento dell’Impero si conserva almeno sino alla metà del secolo VI. Continuano così la loro vita da una parte le scritture canonizzate, con le loro regole fisse; dall’altra la minuscola antica e la minuscola corsiva, usate per le occorrenze quotidiane. Tuttavia, questa comunanza […] ha in sé ormai i germi di una differenziazione, o, forse meglio, di uno svolgimento geografico ramificato» (Cencetti, 1978).

In età romana si raggiunse una certa unità grafica, pur con la compresenza di scritture diverse utilizzate in ambiti specifici – come per esempio la capitale, la minuscola corsiva oppure l’onciale – contemporaneamente imparate attraverso un solido sistema scolastico in tutti i territori soggetti a Roma, nonché impiegate e comprese dalla maggior parte degli alfabetizzati: tali scritture erano «parte di un unico sistema grafico e di un’unica tradizione scolastica» (Petrucci, 1992). La scrittura, soprattutto in età dioclezianea e per i successivi due secoli fino ad almeno a Giustiniano, accomunò popolazioni differenti e raggiunse una vasta diffusione sociale sia in ambito librario, sia in quello documentario, dando origini a tipizzazioni e canonizzazioni. Questa omogeneità scrittoria andò incrinandosi fino a interrompersi a partire dal VI secolo in tutto il territorio del disgregato Impero d’Occidente, dando vita a quel periodo ribattezzato da Giorgio Cencetti come “particolarismo grafico” (Cencetti, 1997), termine «con cui s’intende quel segmento di storia della scrittura latina che dal VI secolo arriva grosso modo alla prima metà del IX, caratterizzato dalla molteplice frammentazione del panorama fino ad allora unitario» (Cherubini-Pratesi, 2010; Cencetti, 1978).

Furono tre i fattori principali che contribuirono all’origine di tale fenomeno sia a livello geografico, sia a livello socioculturale. Prima di tutto, l’indebolimento e poi il crollo del sistema scolastico pubblico municipale a livello inferiore e superiore portò alla diminuzione degli alfabetizzati e conseguentemente alla riduzione dell’uso sociale della scrittura. L’Impero non fu più in grado di pagare gli stipendi statali agli insegnanti, causando il graduale disfacimento di un sistema ben consolidato, coerente e univoco, nonché assicurato a un’ampia fascia di popolazione, che garantiva una diffusa omogeneità scrittoria. La capacità di scrivere rimase ristretta a poche categorie: gli ecclesiastici e gli scriventi di professione (giudici, notai, funzionari). Le strutture scolastiche laiche romane vennero via via sostituite dall’insegnamento organizzato in ambito ecclesiastico, dalle scuole cattedrali nelle sedi vescovili, a quelle monastiche ad ancora le scuole rurali; sebbene il clero permise di non perdere totalmente un sistema di insegnamento più o meno elementare, sicuramente quest’ultimo non ebbe il medesimo impatto socioculturale dell’apparato scolastico romano. Si pensa invece che giudici, notai e cancellieri potessero professionalizzarsi presso le principali corti, oppure “in bottega”, ovvero durante il percorso di apprendistato e apprendimento presso il proprio maestro e predecessore. I cancellieri si fecero professionisti della scrittura pubblica, emanazione della volontà di un’autorità, quando i sovrani dei regni romano-barbarici dovettero organizzare la propria struttura giuridico-amministrativa. Giudici e notai invece continuarono a essere depositari della scrittura privata di tradizione romana, sebbene a partire dal V secolo circa dovettero interfacciarsi con le neonate leggi barbariche. Le popolazioni barbare tramandavano usi e costumi oralmente e non avevano tradizione di diritto pubblico; una volta stanziatisi nei diversi territori dell’Impero, però, si sentì la necessità di stilare delle proprie raccolte giuridiche: i latini continuavano a vivere secondo il diritto romano; i “barbari” secondo le proprie leggi. Le nuove compilazioni furono redatte in latino e vennero influenzate sia dal diritto romano, sia dal diritto canonico. In questo periodo, vi fu inoltre la tendenza a scindere la capacità di scrittura da quella di lettura, soprattutto in ambito pubblico, e andò diradandosi, fino a scomparire, l’uso della scrittura affissa, accessibile a tutti. L’analfabetismo dilagò tra i laici, soprattutto nelle campagne e tra i ceti meno abbienti; i più ricchi invece, per far fronte alle proprie lacune, presero l’abitudine di ingaggiare dei mercenarii litterati, ovvero coloro ai quali – su compenso – veniva affidata la lettura dei testi. Va inoltre aggiunto che si impose non solo la tendenza a separare competenze di lettura e scrittura, ma anche i due diversi filoni scrittori: le scuole, infatti, insegnavano le scritture professionalizzanti di settori specifici, appunto o librarie o documentarie. Tendenzialmente, chi si occupava di trascrivere e/o leggere codici e manoscritti librari non era in grado di leggere e comprendere testi cancellereschi o notarili; di contro, i professionisti di ambito documentario non erano capaci di interfacciarsi con la scrittura libraria (Cencetti, 1978; Cencetti, 1997; Cherubini-Pratesi, 2010; Petrucci, 1992).

In secondo luogo, avvenne un sostanziale cambiamento che coinvolse la produzione di codici e manoscritti: dal VI secolo, gli scriptoria ecclesiastico-monastici si imposero sulle officine laiche, che, a differenza dei primi, mantenevano rapporti con la società. Questa tendenza alla chiusura si esplicitò anche e soprattutto in un certo isolamento dei due filoni della cultura scrittoria, quello librario e quello documentario, che divennero sempre più prerogativa di una ristretta cerchia, una sorta di élite, di alfabetizzati, rispettivamente ecclesiastici e uomini di legge. Inoltre, la scrittura, ma anche il confezionamento librario, perse di eleganza, propendendo per un impoverimento estetico, a causa sia della scomparsa delle scuole di grafia, sia del mutamento subito dagli scriptoria tra il VI e il VII secolo. Questi ultimi cambiarono di funzione, passando da veri e propri centri in cui un maestro stabiliva un modello – un indirizzo pienamente riconoscibile e codificato da seguire tanto in ambito scrittorio, quanto in ambito estetico – a poli in cui sicuramente si perseguiva l’azione di copiatura dei testi, ma in maniera più autonoma e personalizzata, finendo così per elaborare nuove forme scrittorie chiuse e isolate. Cambiò soprattutto la committenza, che diventò quasi unicamente clericale: domanda e offerta divennero pertanto interne al circuito ecclesiastico, e il manoscritto cessò di essere il prodotto ricercato dalla colta classe senatoria romana. Cambiarono anche i contenuti, ora prevalentemente di carattere religioso. Ne derivò un certo impoverimento artigianale, dato che la mera richiesta nelle scuole cattedrali o nei monasteri fece sì che gli standard qualitativi calassero; il manufatto finale doveva prima di tutto essere funzionale ed economico, a discapito tanto della realizzazione estetica, quanto della materia scrittoria (che spesso veniva reimpiegata). Per quanto riguarda la scrittura, inizialmente gli amanuensi – monaci scrittori di professione – continuarono a utilizzare la minuscola corsiva, adattandola però alle esigenze librarie di maggiore leggibilità, insieme alle scritture capitali, onciali e semionciali. Successivamente, queste ultime vennero man mano sostituite dalle minuscole librarie pur sempre basate sulle scritture precedenti, ma che tendevano a una certa differenziazione e particolarizzazione regionale (Battelli, 1949; Cencetti, 1978; Cencetti, 1997; Cherubini-Pratesi, 2010; Petrucci, 1992; Piazzoni, n.d.; Zorzi, 2016).

Infine, la sostituzione a livello politico e amministrativo dell’Impero con i regni romano-barbarici causò un sostanziale isolamento delle diverse tradizioni socioculturali – e quindi anche scrittorie – nelle diverse aree europee un tempo accomunate da Roma. La frammentazione grafica si esplicitò con quelle che vengono definite “scritture nazionali”, originatesi dalla cosiddetta corsiva nuova romana o in certi casi da onciale e semionciale. In ambito documentario pubblico-cancelleresco, poi anche privato-notarile, si svilupparono le diverse scritture cosiddette di cancelleria, come ad esempio la visigotica nella penisola iberica, o la merovingica in area franca (anche se entrambe le denominazioni sono utilizzate anche per le scritture librarie di queste regioni). A livello librario, permase l’utilizzo delle antiche scritture romane librarie canonizzate, come onciale e semionciale, imbastardite però con elementi tipici della corsiva, come per esempio la beneventana nell’Italia meridionale o le insulari in Irlanda e Inghilterra. Queste scritture furono tendenzialmente più posate, dato l’uso per le quali erano pensate, ovvero la lettura (Cencetti, 1978; Petrucci, 1992; Zorzi, 2016). Tirando le fila del discorso, durante l’Alto Medioevo, più specificatamente tra il VI e il IX secolo, «il panorama grafico […] è assai complesso e frammentario: “accanto alle scritture canonizzate o in via di canonizzazione (onciale e semionciale) e alla scrittura di uso quotidiano (corsiva nuova) si vengono a porre alcune manifestazioni di quelle stesse scritture canonizzate […], nonché la categoria multiforme delle scritture altomedievali; dove il centro scrittorio assurge a dignità di scuola, si assiste all’elaborazione di scritture tipizzate, che in determinati casi, favorite da circostanze diverse, possono anche conseguire un vero e proprio canone, come avviene nella Penisola iberica per la visigotica, nell’Italia meridionale per la beneventana e, seppure in modo diverso, nelle Isole britanniche per le insulari. Ma dove il canone non è dominante, dove l’attività dei centri scrittori è limitata a scritture atipiche o tutt’al più tipizzate, si assiste tra la fine del VIII e la prima metà del IX secolo alla prime manifestazioni di un ritorno all’unità grafica, all’affermazione di quella precarolina, non ancora totalmente uniforme, da cui scaturirà il canone della nuova scrittura minuscola, la carolina”» (Cencetti, 1997; Petrucci, 1992).

1.3 La merovingica

«Nei territori corrispondenti per grandi linee al regno merovingico, fondato da re Clodoveo (481-511) nella parte settentrionale dell’antica provincia romana della Gallia Transalpina, si formò tra VI e VII secolo, sulla base della corsiva romana nelle sue manifestazioni usuali e di cancelleria, una scrittura dalle tipiche forme allungate e compresse lateralmente […] utilizzata per uso documentario ma, occasionalmente, anche per copia dei testi letterari: la “merovingica”» (Cherubini-Pratesi, 2010).

Scrittura merovingica
Esempio di scrittura merovingica documentaria da un diploma del re Childeberto III del 695 (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Insieme all’Italia, la Gallia rimase una delle zone maggiormente romanizzate. Questa caratteristica perdurò con l’arrivo e il definitivo stanziamento dei franchi, che furono il popolo che meglio si identificò e fece proprio l’assetto amministrativo, politico, statale dell’antico stato romano, ereditandone anche gli aspetti socioculturali e scrittori. Tra V e VI secolo, la Franchia iniziò a divenire una sorta di baluardo politico e culturale in Europa anche in ambito grafico. Con il consolidamento del potere da parte dei re merovingi, andarono a formalizzarsi anche le cancellerie, sia quella sovrana, sia quelle delle amministrazioni periferiche. Tra VII e VIII secolo, la scrittura cancelleresca di area franca, conosciuta come merovingica, si canonizzò anche in relazione al contesto politico-culturale: si trattava di una corsiva, mutuata da quella romana utilizzata negli uffici provinciali, estremamente artificiosa, compressa, allungata, sinuosa, dapprima utilizzata nel palatium, poi anche dalle curiae provinciali e in ambito notarile. Venne utilizzata sia dalla cancelleria dei sovrani merovingi, sia di quelli carolingi fino almeno all’VIII secolo, mentre con il IX – regno di Ludovico il Pio (814-840), figlio ed erede di Carlo Magno – iniziò ad aprirsi a contaminazioni precaroline, fino poi a cedere il passo alla nuova scrittura, la carolina, nata in ambito librario e poi utilizzata anche in ambito documentario. Al contrario, la merovingica si forma dapprima in ambito documentario per poi influenzare quello librario, nel quale è possibile riconoscere delle particolari tipizzazioni relative a diversi centri scrittori d’oltralpe, affiancate all’utilizzo di onciale e semionciale, oppure capitale (soprattutto per rubriche e incipit). Nel corso del tempo, la merovingica venne man mano esportata anche in Borgogna, Germania Meridionale, Svizzera, fino a lambire l’Italia Settentrionale. Dato che la scrittura dei manoscritti doveva essere maggiormente leggibile, la merovingica libraria risulta essere “semplificata”, pulita dai vezzi tipicamente cancellereschi (detti per l’appunto impronta cancelleresca): i monaci, infatti, la resero più posata adattandola all’uso librario. Le tipizzazioni più importanti furono sicuramente quelle adoperate, a partire dal VII-VIII secolo, nei centri di fondazione irlandese di Corbie e Luxeuil, ma anche di Laon. Le fonti più antiche in merovingica cancelleresca risalgono al regno di Clotario (613-629) e sono due diplomi regi su papiro (quindi estremamente delicati) sopravvissuti alla temperie rivoluzionaria. In totale, i diplomi papiracei merovingi tuttora conservati sono trentotto e risalgono al periodo compreso tra il 625 e il 717-722 (Battelli, 1949; Bishoff, 1992; Cencetti, 1978; Cencetti, 1997; Cherubini-Pratesi, 2010; Petrucci, 1992; Piazzoni, n.d.).

2. La rinascita culturale altomedievale e i carolingi

«Carlo si presentava come il sovrano cristiano, difensore della Chiesa di Roma: la dignità imperiale, di re di più regni e popoli, costituiva una sorta di omaggio alla persona che aveva unificato e con la forza convertito al cattolicesimo l’Europa» (Zorzi, 2016).

Moneta d'argento di Carlo Magno
Diritto di un denario d’argento raffigurante Carlo Magno con l’iscrizione KAROLVS IMP AVG (Karolus Imperator Augustus), coniato a Francoforte sul Meno tra l’812 e l’814. Dipartimento delle monete, medaglie e antichità, Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Nel 768, Pipino il Breve morì lasciando, secondo la tradizione germanica, il regno ai figli, dapprima a Carlomanno, che morì nel 771, e poi a Carlo Magno: dalla decadenza dei sovrani merovingi nacque la nuova dinastia dei carolingi. Carlo Magno fu sicuramente un sovrano – e poi imperatore – importante, tanto da guadagnarsi successivamente l’appellativo di “padre d’Europa”. Alla morte del padre e del fratello, Carlo ereditò un regno segnato da grattacapi su più fronti: ribellioni in Aquitania, Provenza e Borgogna; la guerra estenuante con i sassoni oltre il Reno; l’espansione verso il Danubio e nella Penisola iberica; la conquista dell’Italia longobarda. La prima si risolse sedando le rivolte e imponendo dei conti in qualità di ufficiali regi, assicurando così il legame con il re; la seconda – iniziata nel 772 e protrattasi fino all’804 – si concluse con l’evangelizzazione forzata e la sottomissione dei sassoni, che vennero assimilati ai franchi; la terza da una parte assicurò i territori degli avari e la Baviera, dall’altra Pamplona, Navarra e Catalogna, che tra 801 e 803 costituirono la Marca Hispanica; la quarta, nel 774, garantì al regno i territori longobardi d’oltralpe, anche con l’appoggio del papato. A questo punto, Carlo Magno, grazie alle sue conquiste, beneficiava di quanto si potesse ottenere dall’imponente costruzione politica che era riuscito a consolidare con le sue vittorie: dai territori sottomessi con le loro ricchezze, alla forza delle clientele armate dell’aristocrazia – arricchitasi appunto grazie ai bottini racimolati durante le diverse campagne militari – nonché dall’appoggio del papa a una nuova organizzazione sociale. Tutto questo garantì al sovrano la dignità imperiale; il giorno di Natale dell’800, Carlo venne incoronato imperatore da papa Leone III, un evento che ufficializzò il rapporto tra dinastia carolingia e papato. Il vescovo di Roma legittimava l’autorità imperiale, mentre il sovrano corrispondeva alla Chiesa la difesa della fede e il protrarsi dell’opera di evangelizzazione. L’alleanza papato-corona, inoltre, da una parte rafforzò il ruolo del pontefice, divenuto autorità suprema e guida della cristianità dalla quale ormai dipendeva l’ufficializzazione del titolo imperiale; dall’altra ammetteva le mire universalistiche carolingie e assurse l’impero franco a erede diretto di quello romano, appunto il Sacro Romano Impero. Questo vasto insieme di territori necessitava di una nuova, efficace organizzazione amministrativa, ispirata alle tre componenti del neonato impero: quella romana a livello territoriale, quella barbarica per definire i rapporti tra sovrano e sudditi, quella cristiana come valore cardine dell’autorità imperiale. Il regno venne pertanto suddiviso in comitati, il cui fulcro erano le città, e in marche, le terre di confine, entrambe affidate a famiglie aristocratiche fedeli al sovrano, che gestivano – in nome e per conto del re e coadiuvate da ufficiali minori – le maggiori funzioni pubbliche: fiscalità, giustizia, guerra, ordine e beni pubblici. Molte di queste famiglie riuscirono a instaurare e a mantenere un certo potere e autonomia locale, principalmente grazie alla disponibilità terriera e alla schiera di clientele armate che riuscirono ad assicurarsi. Di contro, Carlo conservò la tradizione franca della corte itinerante, che permetteva di potersi spostare costantemente per mantenere il dominio sotto controllo, sebbene avesse stabilito il proprio palatium ad Aquisgrana, sede della cancelleria, della corte e della cappella palatina, nonché centro nevralgico della rinascita culturale carolingia. Il controllo regio si esplicitò altresì grazie alla fitta rete di vincoli di fedeltà e rapporti vassallatico-beneficiari, tanto a livello orizzontale tra pari, quanto a livello verticale, cioè, inseriti in una gerarchia di potere, tra conti, marchesi, vescovi, ufficiali e missi dominici. Questi ultimi, ovvero gli inviati del signore, viaggiavano in coppia, un laico e un ecclesiastico (talvolta i vescovi erano essi stessi missi della propria diocesi), e avevano sostanzialmente due mansioni principali: vigilare sull’operato degli ufficiali regi e diffondere le leggi sovrane – i capitolari – nei territori dell’Impero. A livello economico e fiscale, l’intraprendenza di Carlo non si fece attendere: le entrate fisse erano garantite dalle rendite del fisco regio e dalle dotazioni di terre, alle quali si sommavano le entrate indirette, quali l’esazione di dazi, pedaggi, gabelle, pene pecuniarie. Venne altresì reintrodotto un sistema monetario a base argentea, adeguato alle esigenze dell’economia locale curtense, il quale contribuì a riavviare traffici e commercio su scala regionale. Nel 779, venne inoltre introdotta la decima, un’imposta pari alla decima parte del proprio reddito, che i sudditi erano obbligati a versare alla Chiesa, per provvedere al suo sostentamento e in cambio dell’azione che svolgeva a favore della comunità dei fedeli (Benigno et alles, 2014; Zorzi, 2016).

Una volta stabilizzati i confini dell’Impero, predisposta la rete di controllo e di amministrazione pubblica, Carlo si occupò anche di organizzare la propria cancelleria, affidata – a differenza di quanto erano soliti fare i merovingi, che erano sovrani alfabetizzati – al clero, che si occupava di stilare i capitolari imperiali, gli atti pubblici e la corrispondenza ufficiale. Era la cancelleria a scrivere per il sovrano, che non sapeva – e a questo punto non ne aveva bisogno – né leggere, né scrivere, tanto è vero che la sottoscrizione regia consisteva in un monogramma predisposto dai cancellieri nell’escatocollo dell’atto, a cui il sovrano poteva aggiungere un segno di proprio pugno, spesso di colore diverso rispetto all’inchiostro del testo e del monogramma stesso. L’imperatore inoltre sostenne importanti riforme a livello socioculturale, che furono alla base della cosiddetta “rinascita culturale carolingia”. Prima di tutto, Carlo Magno assicurò ai propri funzionari un’adeguata istruzione scolastica attraverso la fitta rete di scuole vescovili, scriptoria e biblioteche monasteriali, che non solo permettevano di garantire l’opera di copiatura dei testi, ma era anche propedeutica all’azione di evangelizzazione delle masse. Secondariamente, il palatium di Aquisgrana divenne un importante centro di cultura, spesso frequentata dall’intellighenzia, specialmente ecclesiastica, alla quale venne affidato il compito di recuperare, copiare e rielaborare gli autori antichi, nonché le opere di retorica e grammatica, assicurandosi inoltre che i valori cristiani – tramandati dai testi sacri e da quelli dei Padri della Chiesa – diventassero i cardini del regno. Non si sa quale sia stato il ruolo di Carlo Magno nello sviluppo della nuova canonizzazione grafica, dato che a questa altezza cronologica la sua cancelleria era ancora solita scrivere in merovingica; tuttavia, la carolina superò ben presto il particolarismo grafico, diffondendosi a macchia d’olio prima in Franchia, poi in tutto l’Impero, passando dall’ambito librario a quello documentario; il fatto di utilizzare la medesima scrittura nei due diversi ambiti scrittori fu una novità (Benigno et alles, 2014; Zorzi, 2016).

Monogramma di Carlo Magno
Sottoscrizione e monogramma di Carlo Magno, merovingica (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Prima della sua morte, nell’806 Carlo Magno provvide – come da tradizione barbarica – a suddividere l’Impero tra i suoi figli: tuttavia fu solo Ludovico – unico superstite – a ereditare il Sacro Romano Impero nell’814 alla morte di Carlo. Una volta subentrato al padre, il Pio si diede a un ricambio del personale di corte, al rafforzamento dell’autorità vescovile, all’esasperazione dei valori cristiano-imperiali; nell’824, fu inoltre artefice della Constitutio romana, che vincolò la consacrazione del pontefice al giuramento di fedeltà all’imperatore, e nell’817 impose ed estese la regola benedettina a tutti i monasteri, mentre alle donne vennero preclusi l’amministrazione dei beni della Chiesa e ogni contatto con il mondo esterno al proprio convento. Fu inoltre con Ludovico il Pio che la carolina iniziò progressivamente a insinuarsi nella cancelleria regia, passando dall’ambito librario a quello documentario. Già prima della sua morte nell’840, l’Impero – la cui successione patrimoniale era stata già stabilita nell’817 – cadde definitivamente nel caos, al quale venne posta fine con il trattato di Verdun, sottoscritto dai figli di Ludovico il Pio tre anni dopo la sua morte. L’impero di Carlo e Ludovico venne così smembrato tra Ludovico detto il Germanico, che ereditò i territori a est del Reno, Carlo il Calvo, che ottenne i territori occidentali, e Lotario, che si aggiudicò la parte centrale del regno, stretta tra i possedimenti dei fratelli, e l’Italia (Benigno et alles, 2014; Zorzi, 2016; Pirenne, 2018).

3. Le origini della scrittura carolina e l’universalismo grafico

«La fase del particolarismo grafico iniziata nel secolo VI […] pur prolungandosi in molte regione d’Europa sino all’XI e al XII secolo […] trovò nella prima età carolingia i germi del suo superamento: negli ultimi decenni del secolo VIII fece la sua comparsa, in forme definite ma non ancora canonizzate, la nuova scrittura comune che nel corso di circa tre secoli e mezzo s’impose in tutta l’Europa allora di lingua latina dando origine a una nuova unità grafica da allora mai più veramente spezzata: la minuscola carolina» (Cherubini-Pratesi, 2010).

Minuscola carolina su manoscritto
Testimonianza di scrittura minuscola carolina (dal Libro di Giobbe), 765 circa. Abbazia regia di Corbie (Francia) (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Carlo Magno prima e Ludovico il Pio dopo diedero forte impulso alla produzione manoscritta, alla quale corrispose, tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del successivo, una progressiva e crescente omologazione grafica. Quest’ultima divenne un’esigenza di prim’ordine dal momento in cui era necessario dover organizzare gli scriptoria al fine di ottemperare alla crescente domanda di manoscritti, che a loro volta necessitavano di sempre più pergamena, innescando un circolo virtuoso dal quale ne beneficiarono l’allevamento, l’artigianato e il commercio. Gli accresciuti scambi economici e culturali permisero una maggiore circolazione libraria tra scriptoria, biblioteche monastiche, scuola palatina e scuole cattedrali del Sacro Romano Impero. Inoltre, l’attività amanuense di copia degli originali classici latini e tardoantichi – tendenzialmente scritti in onciale, semionciale e capitale e purtroppo ad oggi perduti – ma anche la produzione di opere letterarie altomedievali riprese a pieno regime, prediligendo una maggiore cura a livello ortografico e formale, nonché estetico: la scrittura si fece sempre più ordinata, chiara, leggibile e calligrafica, portando progressivamente al canone carolino. Sebbene non sia possibile ricostruire quale sia stato il ruolo dell’imperatore nella nascita della nuova, comune scrittura, è possibile affermare che Carlo Magno promosse un importante rinnovo socioculturale, conosciuto come “rinascita carolingia”, predisponendo un programma culturale basato sulla riforma liturgica e scolastica in continuità con quanto già predisposto dal padre. Con il capitolare Admonitio generalis del 789, Carlo programmò la riforma ecclesiastica, istituendo sia scuole vescovili e monasteriali, che potessero istruire uniformemente il clero sin dalla giovane età e aumentassero la massa di alfabetizzati, sia nuovi scriptoria per l’attività amanuense di codici e manoscritti librari e liturgici, decretando che questi ultimi dovessero essere «senza errori e scritti con ogni attenzione in modo che fossero corretti e chiari, e perciò affidati per essere copiati e corretti a uomini adulti e non a giovani inesperti. Quelle prescrizioni vennero ribadite da Carlo Magno nell’805 e dal suo successore Ludovico il Pio nell’816» (Cencetti, 1997; Cherubini-Pratesi, 2010; Petrucci, 1992; Piazzoni, n.d.). Per di più, «nella produzione libraria del periodo carolingio tornò, com’era nell’epoca tardo-antica, un ordinato sistema gerarchico di scritture diverse nello stesso manoscritto, con l’uso di scritture distintive per titoli, capitoli, finali» (Piazzoni, n.d.).

La scrittura carolina divenne man mano unica espressione scritta dell’ideale universalistico carolingio di cultura. La sua origine risulta tuttora materia di dibattito storico-paleografico, principalmente perché non è ancora chiaro quale sia stato l’intervento esplicito di Carlo Magno, al quale ne venne in passato attribuita l’invenzione, né quali siano state le premesse culturali e grafiche dello sviluppo del nuovo tipo scrittorio e neppure dove per la prima volta sia stato utilizzato o da quale scrittura precedente tragga e deduca le forme caratteristiche (Battelli, 1949; Bishoff, 1992; Cencetti, 1978; Cencetti, 1997; Cherubini-Pratesi, 2010; Petrucci, 1992; Piazzoni, n.d.).

La carolina si presenta come una scrittura minuscola equilibrata, rotondeggiante, regolare ed elegante. Sia in ambito librario, in cui si origina, sia in quello documentario, nel quale poi prese il sopravvento durante il XII secolo, risulta facilmente leggibile e realizzabile, non solo perché si trattò di una scrittura posata, ma anche perché si iniziò a separare più o meno correttamente lettere e parole, riducendo l’uso di legature, nessi e abbreviazioni. Per queste sue caratteristiche, la carolina si impose e progressivamente soppiantò la maggior parte delle scritture nate durante il periodo del particolarismo grafico, prevalendo come unico canone grafico in tutto il Sacro Romano Impero. L’omologazione scrittoria fu graduale, dipanandosi su due fasi principali: dapprima, la carolina libraria si diffuse nei territori propriamente franchi, affiancando le scritture minuscole precaroline e le tipizzazioni merovingiche; a partire dalla prima metà del IX secolo, però, la carolina iniziò a soppiantare le scritture precedenti in tutto l’Impero, fino alla Marca Hispanica, alla Langobardia, ma anche fuori dall’impero, giungendo nelle isole britanniche nel X secolo. Nei territori soggetti al pontefice e nell’Italia meridionale però faticò a imporsi sulle scritture canonizzate, che sopravvissero fino almeno al XII secolo. La carolina venne ampiamente utilizzata fino alla fine del XII secolo, momento in cui iniziò a cedere il passo alla gotica. In ambito documentario, invece, si insinuò in ritardo rispetto a quanto accaduto in campo librario, più precisamente intorno al X secolo nel regno franco-germanico, e nel XI nel resto dell’Impero, fino ad arrivare con la conquista normanna in Inghilterra e in Sicilia, e successivamente anche nei territori pontifici e nell’Italia Meridionale. Nel XII secolo, inoltre, risultò essere pienamente assimilata, tanto da essere riconosciuta ormai come scrittura usuale, e largamente impiegata da notai e cancellieri; questi ultimi solevano redigere i propri documenti con una particolare scrittura, denominata minuscola diplomatica, a base carolina (Bishoff, 1992; Cencetti, 1978; Cencetti, 1997; Cherubini-Pratesi, 2010; Piazzoni, n.d.).

Conclusione: dalla carolina ai giorni nostri

Cosa rimane oggi delle antiche scritture? Con l’avvento della stampa non si è assolutamente smesso di scrivere a mano, anzi, anche se – come si è esordito – la scrittura nel tempo cambia. Se nessuno più scrive in merovingica, la carolina ebbe il suo seguito e qualche tentativo di ripresa delle sue forme posate, eleganti e armoniose. Le scritture che nacquero e si svilupparono tra fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, infatti, avevano come base la carolina, detta “sistema antico” da Emanuele Casamassima. Gli umanisti italiani vi si ispirano per creare l’umanistica e successivamente la cosiddetta antiqua, una scrittura che riprende l’eleganza della carolina in contrapposizione con le forme imbarbarite della gotica, che aveva perso quella particolare leggibilità. Passò, inoltre, ai caratteri mobili della stampa, detti romani. Tuttora, il nostro alfabeto stampatello minuscolo – per esempio, quello del classico times new roman – non è che un erede di quello carolino (Piazzoni, n.d.).

Evoluzione minuscola
Evoluzione della minuscola (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico

Federica Fornasiero è medievista di formazione, laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano e diplomata alla scuola APD dell’Archivio di Stato di Milano. Ad ora è dottoranda presso l’Università degli Studi di Bergamo, con un progetto sull’emigrazione italiana nel XIX secolo. I suoi interessi principali sono la storia sociale, economica e di genere, ma non disdegna anche la storia delle chiese e delle eresie medievali.

Bibliografia

Alcune premesse importanti, in A. M. Piazzoni, Paleografia latina. Dall’antichità al Rinascimento, Vatican Library, all’url https://spotlight.vatlib.it/it/latin-paleography/feature/1-alcune-premesse-importanti (consultato il 08/01/2024); G. Battelli, Lezioni di Paleografia, Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica 1949; B. Bishoff, Paleografia latina. Antichità e Medioevo, edizione italiana a cura di G. P. Mantovani, S. Zamponi, Antenore 1992; G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Patron 1997; G. Cencetti, Paleografia latina, Jouvence 1978; P. Cherubini, A. Pratesi, Paleografia latina. L’avventura grafica del mondo occidentale, Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica 2010; S. I. Fernando – J. De Lasala, Compendio di storia della scrittura latina. Paleografia latina, Pontificia Università Gregoriana 2010, all’url https://www.unigre.it/sito/PUG_HG_03O820150936/uv_sv/755/CompendioStoriaScritturaLatina.pdf (consultato il 08/01/2024); La Carolina, in A. M. Piazzoni, Paleografia latina. Dall’antichità al Rinascimento, Vatican Library, all’url https://spotlight.vatlib.it/it/latin-paleography/feature/15-la-carolina (consultato il 08/01/2024); Manuale di archivistica, a cura di N. Silvestro, V edizione, Simone 2022; Storia medievale, a cura di F. Benigno, C. Donzelli, C. Fumian, S. Lupo, E. I. Mineo, Donzelli 2014; La Merovingica e le scritture librarie di area franca, in A. M. Piazzoni, Paleografia latina. Dall’antichità al Rinascimento, Vatican Library, all’url https://spotlight.vatlib.it/it/latin-paleography/feature/11-la-merovingica-e-le-scritture-librarie-di-area-franca (consultato il 08/01/2024); Particolarismo grafico altomedievale, in A. M. Piazzoni, Paleografia latina. Dall’antichità al Rinascimento, Vatican Library, all’url https://spotlight.vatlib.it/it/latin-paleography/feature/9-particolarismo-grafico-altomedievale (consultato il 08/01/2024); A. Petrucci, Breve storia della scrittura latina, Bagatto 1992; H. Pirenne, Maometto e Carlomagno, Laterza 2018; A. Zorzi, Manuale di storia medievale, UTET 2016.

Immagine di copertina: Carlo Magno a corte, miniatura tratta dallo Spieghel Historiael di Jacob van Maerlant, KB, KA XX, fol. 208r. Koninklijke Bibliotheek (Royal Library), L’Aia (fonte: Wikimedia, licenza CC0)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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