di Michele Gatto
1. Un politico moderato in una guerra totale
La guerra del Peloponneso è stata un conflitto epocale, culmine della contrapposizione tra le due maggiori potenze della Grecia in età classica, Atene e Sparta. Cominciata nel 431 a.C., fu caratterizzata da alterne vicende e può essere suddivisa in varie fasi, vista la sua durata quasi trentennale: i primi dieci anni vengono definiti “guerra archidamica” dal nome del re di Sparta Archidamo, la cui strategia consisteva in periodiche devastazioni dell’Attica, dopo che gli Ateniesi, seguendo il piano ideato da Pericle, avevano abbandonato le campagne per rifugiarsi all’interno delle Lunghe Mura (Tucidide, II, 12-17; Kagan, 2006); ma nel 430 a.C., il sovraffollamento finì col favorire la diffusione di un’epidemia di peste, causando l’anno seguente la morte dello stesso Pericle (Tucidide, II, 47-53 e 65; Plutarco, Pericle, 37-38; Kagan, 2006; Hanson, 2008). Ciò nonostante, gli Ateniesi non rimasero certo a guardare. Questa fase, contraddistinta da vittorie e sconfitte su entrambi i lati, dopo aver messo a dura prova le risorse delle contendenti, si concluse con un accordo stipulato nel 421 a.C. recante il nome di un importante politico ateniese, la pace di Nicia.

Nicia, figlio di Nicerato, salì sulla ribalta politica ateniese dopo la morte di Pericle, nonostante lo avesse già affiancato come stratego. Apparteneva ad una famiglia facoltosa, seppur non aristocratica, e si arricchì grazie al commercio di schiavi; Tucidide ne elogia la virtù ed il rispetto delle tradizioni, mentre Plutarco ce ne lascia un ritratto meno positivo, definendolo in sostanza un pauroso, un superstizioso, un politico che speculava sulla sua ricchezza per ottenere consenso (Tucidide, VII, 86, 5; Plutarco, Nicia, 2-3; Westlake, 1941; Murray, 1961; Piccirilli, 1997; Kagan, 2006). Due ritratti abbastanza contrastanti, la cui incongruenza non sminuisce comunque l’importanza del personaggio e porta a riflettere sulle sue effettive qualità. Durante la prima fase della guerra, Nicia, essendo un moderato, entrò in contrapposizione con Cleone, il maggior sostenitore alla continuazione del conflitto: un episodio emblematico è il loro scontro nell’ambito della vicenda di Sfacteria nel 425 a.C., in cui Nicia, più incline a trovare un accordo con gli Spartani accerchiati, cedette il comando delle operazioni proprio a Cleone che lo aveva accusato in assemblea di agire in modo poco deciso; probabilmente Nicia comprese che la difficile situazione avrebbe potuto ritorcerglisi contro, mentre un fallimento di Cleone sarebbe potuto tornargli utile (Tucidide, IV, 27-28; Piccirilli, 1997, Kagan, 2006). Nicia ebbe comunque modo di rifarsi: nel 424 a.C. guidò la spedizione che portò gli Ateniesi a conquistare l’isola di Citera, convincendone i cittadini alla resa in cambio del pagamento di un tributo; dopo la tregua stipulata nel 423, condusse una spedizione in Tracia per sedare la ribellione delle città di Mende e Scione ed ottenne anche altre vittorie, dando in alcuni casi la priorità ai principi morali piuttosto che al suo prestigio. Come ammette lo stesso Plutarco, Nicia era un politico ed un comandante particolarmente cauto, tanto da non accettare mai incarichi militari troppo lunghi o troppo complicati (Plutarco, Nicia, 6, 2-7; Kagan, 2006). Dopo la morte dei principali fautori della guerra, Cleone ed il generale spartano Brasida, Nicia fu tra i maggiori sostenitori dell’intesa del 421 a.C.: una pace cinquantennale che tra le altre cose prevedeva la risoluzione pacifica delle dispute, restituzioni territoriali reciproche e l’impegno delle due potenze a rimanere neutrali (Tucidide, V, 16 e 18; Plutarco, Nicia, 9, 3-7; Kagan, 2006; Camponetti, 2008). Molti ad Atene elogiarono Nicia per il ritorno della pace, mentre i democratici radicali, ed in particolare Iperbolo, lo consideravano un traditore (Plutarco, Nicia, 9, 8-9; Piccirilli, 1997). Tuttavia, i buoni propositi furono presto accantonati e dopo pochi anni la guerra sarebbe ripresa con violenza: ad Atene si impose un nuovo leader radicale, Alcibiade, la cui capacità oratoria e di persuasione riuscì ad ostacolare la politica moderata di Nicia, anche se la rivalità non impedì ai due di stringere accordi, come nel caso dell’ostracismo di Iperbolo (Plutarco, Nicia, 11, 1-8; Kagan, 2006). Questa contrapposizione avrebbe avuto effetti decisivi su Atene rispetto al proseguimento della guerra.
2. La decisione della partenza per la Sicilia
La spedizione siciliana di Atene può essere vista come il classico “passo più lungo della gamba”, un fallimento dalle cause molteplici di cui già diversi autori antichi provarono a fornire una motivazione; ciò nonostante bisogna ricordare che il pretesto giunse proprio dalla Sicilia. A dire il vero, gli Ateniesi avevano già compiuto una spedizione sull’isola nel 427 a.C., quando arrivò loro una richiesta di aiuto da parte di Leontini, minacciata da Siracusa: l’intervento però, pur limitando Siracusa, non permise ad Atene di ottenere il controllo sulle vicende siciliane come ci si aspettava (anche grazie all’appello del siracusano Ermocrate all’unità delle poleis siceliote), perciò nel 424 la vicenda si concluse in sostanza con un nulla di fatto (Piccirilli, 2003; Kagan, 2006; De Vido, 2013).

Tra il 416 ed il 415 a.C. in Sicilia scoppiò un nuovo conflitto tra Selinunte, alleata di Siracusa, e le città di Leontini e Segesta: queste ultime si appellarono ad Atene facendo leva sull’eventualità che i Siracusani, una volta preso il controllo dell’isola, si sarebbero schierati con Sparta; inoltre, fecero intendere che si sarebbero sobbarcate il peso economico della spedizione (Tucidide, VI, 6, 2-3 e 8, 1-2; Kagan, 2006). Dopo il ritorno degli ambasciatori ateniesi da Segesta, si cominciò a discutere in assemblea sull’eventualità di una spedizione in Sicilia, ed il dibattito mise in evidenza due visioni completamente opposte: quella di Nicia e quella di Alcibiade. Quest’ultimo aveva ammaliato le folle paventando la possibilità di ottenere dalla spedizione grandi ricchezze, il controllo della Sicilia e dell’Italia, ed ancora, la possibilità di utilizzare l’isola come ponte per la conquista di Cartagine (Tucidide, VI, 15, 2; De Vido, 2013). Al contrario, Nicia cercò di richiamare alla prudenza, sostenendo come una simile spedizione fosse estremamente rischiosa, in quanto Atene stava già tenendo a bada i nemici che aveva in Grecia: se tutto si fosse concluso con un fallimento, le poleis siciliane si sarebbero alleate con Sparta; per compiere una simile impresa ribadì quindi la necessità di ingenti risorse militari ed economiche, confidando nello scoramento generale. Affermò poi che gli Ateniesi non avrebbero ricevuto un sostegno concreto dai Sicelioti e che se nemmeno Cartagine era riuscita a conquistare la Sicilia qualcosa voleva pur dire; infine, disse chiaramente che la spedizione era voluta da politici i quali puntavano a soddisfare le personali ambizioni di potere, non il bene della polis (Tucidide, VI, 10-14; Kagan, 2006; Harris, 2014). Alcibiade, chiamato in causa, oltre a difendere sé stesso e la sua linea politica, aveva controbattuto con argomenti come l’instabilità della Sicilia, l’impossibilità per Sparta di infliggere gravi danni ad Atene senza una flotta, e la necessità di correre in aiuto degli alleati per conservare intatto l’impero (Tucidide, VI, 16-18; Del Corno, 1975; Kagan, 2006).
L’assemblea, dopo aver già votato inizialmente in favore della spedizione, riconfermò la decisione e la scelta di affidare il comando ad Alcibiade, Nicia e ad un terzo stratego, Lamaco, il quale avrebbe dovuto mediare tra i due e garantire che tutto proseguisse senza intoppi. Alcibiade era riuscito quindi ad accendere l’entusiasmo degli Ateniesi giocando sul loro desiderio di conquista della Sicilia attraverso il pretesto di soccorrere gli alleati (Tucidide, VI, 6, 1; Kagan, 2006), tanto che, racconta Plutarco, in molti cominciarono a disegnarne la forma ed i porti nelle palestre, nelle botteghe e nelle strade, nonostante conoscessero l’isola piuttosto vagamente (Nicia, 12, 1; Tucidide, VI, 1, 1). Quasi nessuno considerava la rischiosità dello scontro con una polis anch’essa democratica e quindi più determinata nel combattere, il che avrebbe potuto rendere il compito maggiormente difficile ad Atene, come in effetti avvenne (Hanson, 2008).
3. Dall’impresa alla disfatta
Nicia si vide costretto ad accettare la decisione e l’incarico nonostante avesse pubblicamente espresso la sua contrarietà, forse anche perché aveva degli interessi personali a Siracusa (Tucidide, VI, 8, 4; Piccirilli, 1997). Una volta conclusi i preparativi, la flotta partì nella seconda metà di giugno del 415 a.C. nonostante praticamente alla vigilia fosse scoppiato lo scandalo della mutilazione delle erme (sculture su pilastri di Ermes) e della parodia dei misteri eleusini, con Alcibiade accusato di avervi partecipato; è ipotizzabile che lo stesso Nicia fosse almeno a conoscenza di questi fatti, visto il coinvolgimento dei fratelli Diogneto ed Eucrate, ma ne uscì pulito (Piccirilli, 1997; Kagan, 2006). In ogni caso, fu stabilito che Alcibiade sarebbe comunque partito per la spedizione e, nel caso fosse stato necessario, sarebbe dovuto tornare ad Atene per farsi giudicare (Tucidide, VI, 27-29).

La flotta mossasi dal Pireo aveva numeri imponenti (134 navi), ma probabilmente insufficienti per conquistare la Sicilia, seppur utili per una dimostrazione di forza (Tucidide, VI, 30-32 e 43; Jordan, 2000; Hanson, 2008). Avvicinatasi alle coste magnogreche, non poté contare sul supporto logistico di poleis come Taranto, Locri e Reggio; inoltre, gli Ateniesi scoprirono di essere stati ingannati riguardo il denaro dei Segestani. La situazione era complessa, aggravata da tre personalità incompatibili al comando: nonostante Nicia avesse ancora provato a limitare la spedizione ad una dimostrazione intimidatoria prima di tornare ad Atene, con l’appoggio di Lamaco fu accolta la proposta di Alcibiade di stipulare alleanze in Sicilia prima di attaccare Siracusa; dopodiché, si stabilirono a Catania (Kagan, 2006; Hanson, 2008). Le sorprese però erano tutt’altro che finite: nel frattempo sopraggiunse una nave da Atene per riportare in patria Alcibiade e processarlo; ma durante il viaggio, appena ne ebbe l’occasione, nei pressi di Turi (in Calabria), egli fuggì. Nicia tuttavia fu costretto a continuare la spedizione, sia per evitare l’accusa di codardia sia perché gli sforzi economici ed umani già compiuti impedivano ormai di tornare indietro (Tucidide, VI, 61, 4-7; Kagan, 2006).
Le fasi iniziali dell’attacco a Siracusa sembrarono essere favorevoli agli Ateniesi. Nel 415, vinsero una prima battaglia presso il fiume Anapo, ma Nicia, prudentemente, non affondò il colpo decisivo per la mancanza di cavalleria; Nicia fu criticato per la sua titubanza, ma restava il fatto che senza cavalleria non era possibile condurre un assedio, o meglio, non era possibile concluderlo in maniera positiva; al massimo, pesava su di lui l’omissione in assemblea della necessità di un reparto simile (Tucidide, VI, 66-70; Plutarco, Nicia, 16, 7-8; Kagan, 2006; Hanson, 2008). Se gli Ateniesi cercarono di stringere alleanze senza grossi risultati, al contrario Siracusa si riorganizzò militarmente sotto la guida di Ermocrate e riuscì ad ottenere non solo l’aiuto della madrepatria Corinto, ma anche di Sparta: qui Alcibiade, in cerca di rivalsa, dopo aver ottenuto asilo illustrò l’immenso piano di conquista ateniese e le sue conseguenze nefaste per i Lacedemoni. Sebbene essi nutrissero dei dubbi sul fatto che Nicia avesse simili obiettivi, credettero alle menzogne di Alcibiade e decisero di inviare Gilippo a Siracusa, al comando di quattro navi (Tucidide, VI, 90 e 93; Kagan, 2006).
La primavera del 414 a.C., gli Ateniesi, una volta reclutata cavalleria in patria e in Sicilia, iniziarono effettivamente l’assedio di Siracusa. Ottenuto il controllo delle Epipoli (alture antistanti la città), cominciarono la costruzione di mura di isolamento, ostacolata però da controfortificazioni siracusane. Siracusa, trovandosi in difficoltà e senza aiuti, pensò di arrendersi a Nicia, il quale tramite i suoi contatti promosse l’invio di un’ambasceria siracusana ad Atene per stipulare la pace ed un’alleanza, rifiutate dagli Ateniesi. Nicia poi commise l’errore di non neutralizzare il contingente di Gilippo, pensando di avere la situazione in mano, nonostante la morte di Lamaco (Piccirilli, 2000; Kagan, 2006). L’arrivo di altri rinforzi dal Peloponneso sovvertì infatti le sorti dell’assedio: i Siracusani impedirono alle truppe ateniesi il completamento delle mura e sebbene Nicia avesse ordinato la realizzazione di una nuova base (Plemmirio) all’ingresso del Porto grande, la stessa supremazia navale ateniese venne messa in discussione. Sempre più sofferente a causa di una malattia renale, lo stratego si era visto costretto a chiedere aiuto ad Atene, sperando in realtà gli fosse ordinato di ritirarsi: invece gli Ateniesi inviarono in Sicilia un nuovo contingente comandato da Demostene, il quale una volta arrivato non comprese immediatamente che gli Ateniesi erano passati da assedianti ad assediati: ordinò infatti un attacco notturno alle barriere erette dai Siracusani, conclusosi in maniera disastrosa (Plutarco, Nicia, 18, 1 e 19, 10; Zadorojnyi, 1998; Kagan, 2006; Hanson, 2008).

La situazione era disperata, non solo per le sconfitte subite, ma anche per le malattie. Il morale degli uomini toccava terra. Demostene propose la ritirata senza ottenere, sorprendentemente, l’appoggio di Nicia: questo sosteneva che Siracusa fosse in grave difficoltà, e suoi contatti interni paventavano la possibilità di una resa della polis; soprattutto però, temeva che gli uomini lo accusassero e gli attribuissero la colpa del fallimento una volta tornati ad Atene, provocando la sua condanna a morte (Tucidide, VII, 48, 3-4; Kagan, 2006). Quando le cose peggiorarono ulteriormente, Nicia approvò il ritiro in segreto dalla Sicilia, ma si rese protagonista di un episodio celebre: la sera del 27 agosto del 413 a.C. si verificò un’eclissi totale di luna, considerato un presagio funesto. Nicia quindi consultò un indovino, il cui responso fu di aspettare ventisette giorni prima di partire; se secondo le fonti, turbato dall’episodio, egli assecondò il vaticinio senza sfruttare l’occasione per accelerare i tempi, è invece probabile volesse temporeggiare per raggiungere un accordo (Tucidide, VII, 50, 3-4; Plutarco, Nicia, 23, 1 e 7-9; Piccirilli, 1997; Kagan, 2006). Quel che era peggio, la notizia trapelò ai Siracusani che sferrarono un’offensiva e attuarono un blocco navale all’ingresso del Porto grande. Gli Ateniesi, esortati da Nicia, cercarono di forzare il blocco invano: gli uomini imposero perciò una penosa ritirata via terra, continuamente esposti alle imboscate dei Siracusani mentre tentavano di raggiungere Catania. Nicia prese il comando della testa dell’esercito, mentre Demostene comandava il resto delle truppe, lente e disordinate. I Siracusani bersagliandole costantemente, le accerchiarono e costrinsero alla resa: i 6000 Ateniesi prigionieri dovettero versare tutti i loro averi, riempiendo di monete solamente quattro scudi. Anche all’unità di Nicia, una volta raggiunta, fu imposto di arrendersi: alla proposta dello stratego di riscattare sé stesso ed i suoi uomini assicurando da Atene un rimborso di tutte le spese militari, fu replicato un netto rifiuto a suon di frecce e giavellotti. Nel tentativo di aprirsi un varco, gli Ateniesi giunsero presso il fiume Assinaro, dove si consumò una vera e propria carneficina: Nicia, per salvare la vita dei soldati e la sua si arrese a Gilippo, confidando sul credito di cui godeva a Sparta (Tucidide, VII, 78-85, 1; Lateiner, 1985; Jordan, 2000; Kagan, 2006). In effetti il comandante spartano ed Ermocrate provarono a proteggere i due strateghi ateniesi, ma l’assemblea siracusana ne decretò la morte. Molto peggio andò al resto dei prigionieri: furono rinchiusi nelle latomie (cave di pietra) e marchiati con l’effige del cavallo, destinati a morire di fame e stenti; tuttavia, alcuni di essi in seguito riuscirono a riscattarsi dalla schiavitù grazie alla recitazione dei versi di Euripide (Tucidide, VII, 86-87; Plutarco, Nicia, 29; Piccirilli, 1990; Osek, 2017).
In questo modo, l’unico che non avrebbe mai voluto compiere una spedizione tanto grandiosa quanto “folle”, non per codardia ma per cautela, pagò con la vita. Platone in un suo dialogo fa affermare a Nicia che l’assenza di paura non corrisponde al coraggio, anzi, se coraggio e preveggenza appartengono a pochi, l’imprudenza appartiene a molti (Lachete, 197 a-c; Piccirilli, 2000). Nonostante tutte le responsabilità militari o le colpe che gli furono e possono essergli imputate (Pausania, I, 29, 12; Piccirilli, 1997), il modo più giusto di concludere ci sembra quello di utilizzare le parole di Tucidide: «Questi [Nicia], dunque, morì per un motivo siffatto o simile a questo, il meno meritevole tra i Greci miei contemporanei di giungere a questa fine infelice, per l’osservanza della virtù che esercitò in modo completo e consono alle comuni tradizioni (VII, 86, 5)».

Michele Gatto – Scacchiere Storico
Michele Gatto è uno studioso dell’antichità greca e romana, in particolare della Grecia in età classica e di Roma in età imperiale. È specializzato in numismatica antica. I suoi interessi arrivano a comprendere inoltre la storia bizantina.
Bibliografia
Camponetti G. 2008, Atene nel periodo della pace di Nicia. Politica e scelte programmatiche nell’edilizia e nella cultura figurativa, in “Annuario della Scuola Archeologica di Atene e delle missioni italiane in Oriente” 83, s. 3, n. 5, pp. 411-436; De Vido S. 2013, Le guerre di Sicilia, Roma; Del Corno D. 1975, Nicia e Alcibiade all’assemblea. La caratterizzazione individuale dei discorsi in Tucidide, in “Würzburger Jahrbücher für die Altertumswissenschaft” 1, pp. 45-58; Hanson V.D. 2008, Una guerra diversa da tutte le altre. Come Atene e Sparta combattevano nel Peloponneso, Milano; Harris E.M. 2014, Nicias’ illegal proposal in the debate about the sicilian expedition (Thuc. 6.14), in “Classical Philology” 109, pp. 66-72; Jordan B. 2000, The sicilian expedition was a Potemkin Fleet, in “The Classical Quarterly” 50, pp. 63-79; Kagan D. 2006, La guerra del Peloponneso. La storia del più grande conflitto della Grecia classica, Milano; Lateiner D. 1985, Nicias’ inadequate encouragement (Thucydides 7.69.2), in “Classical Philology” 80, pp. 201-213; Murray H.A. 1961, Two notes on the evaluation of Nicias in Thucydides, in “Bulletin of the Institute of Classical Studies” 8, pp. 33-46; Osek E. 2017, Taking revenge in the name of Hermes: Hermocrates of Syracuse and his anti-athenian politics, in Politics and performance in western Greece. Essays on the hellenic heritage of Sicily and southern Italy, Sioux City, pp. 81-96; Piccirilli L. 1990, Tucidide, Demostrato, i Siracusani e il marchio del “cavallo”, in “Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik” 81, pp. 27-32; Piccirilli L. 1997, Nicia fra astuzie, ricatti e corruzioni, in “Museum Helveticum” 54, pp. 1-8; Piccirilli L. 2000, La tradizione extratucididea relativa alla spedizione ateniese in Sicilia del 415-413, in Terze giornate di studi sull’area elima (Gibellina – Erice – Contessa Entellina, 23-26 ottobre 1997). Atti, 2, Pisa – Gibellina, pp. 823-848; Piccirilli L. 2003, Testimonianze sul disastro ateniese in Sicilia, in A. Corretti (a cura di), Quarte giornate internazionali di studi sull’area elima (Erice 1-4 dicembre 2000), Atti, 2, Pisa, pp. 1049-1058; Westlake H.D. 1941, Nicias in Thucydides, in “The Classical Quarterly” 35, pp. 58-65; Zadorojnyi A.V. 1998, Thucidides’ Nicias and Homer’s Agamemnon, in “The Classical Quarterly” 48, pp. 298-303.
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