OMNIUM DAEMONUM TEMPLUM

Intellettuali e cristiani all’anfiteatro

di Rebecca Goldaniga

1. Introduzione

In età imperiale, all’interno delle arene non avvenivano soltanto spettacoli gladiatorii. Sulla base di un programma di svolgimento giornaliero, essi si ponevano dopo le cacce di belve esotiche (venationes) e dopo le esecuzioni capitali. Queste ultime potevano assumere diverse forme, quali la vivicombustione, la crocifissione e la damnatio ad bestias (l’esposizione agli animali), la più diffusa all’interno delle arene e riportata dai mosaici e dal vasellame decorato. Come presso altre civiltà del mondo antico (e non solo) la spettacolarizzazione della pena capitale aveva una specifica funzione. Essa si poneva come un forte deterrente contro la criminalità e i propositi di ribellione (Arena, 2020), assumendo così una valenza “educativa”. I damnati ottenevano infatti il nome di noxii (criminali, delinquenti, rei) e allo stesso modo degli schiavi erano considerati proprietà del fisco imperiale e venduti agli editores, a patto che fossero realmente giustiziati (e non adibiti ad usi personali) (Arena, 2020). Aulo Gellio narra un curioso aneddoto in riferimento a questo tipo di pena. Racconta che un dannato fuggitivo, Androclus, condannato sotto il principato augusteo, non fu sbranato dal leone al quale fu esposto. Pare che l’animale avesse serbato memoria del fatto che Androclus gli aveva estratto una spina dalla zampa (Gell., V, 14, 5-30; Ael., VH, VII, 48). 

2. L’arena secondo gli intellettuali latini: Cicerone e Seneca

Busto di Cicerone, Musei Capitolini, Roma (fonte: Archivio Scacchiere Storico)

Risulta dunque chiaro che tutto quanto veniva mostrato ed esibito all’anfiteatro aveva un preciso fine politico, volto in primo luogo al mantenimento di un ordine sociale e anche culturale. Invero, al messaggio di natura coercitiva, l’arena ne legava uno di carattere pedagogico, specificatamente rivolto ai giovani maschi: la perseveranza nell’allenamento dei gladiatori, la loro disciplina, la dignità con cui essi accettavano la morte, avrebbero dovuto fare degli adolescenti (e spesso dei bambini) presenti agli spettacoli degli uomini virili e bellicosi, in una parola “romani”. Perciò, il divieto imposto ai cittadini benestanti di prendere parte alle artes ludicrae non impedì affatto ai giochi anfiteatrali di esercitare una forte attrazione anche sui Romani più abbienti e colti. La lotta armata (che avvenisse fra gladiatori o contro animali feroci) alimentava pratiche e valori altissimi per il costume romano, ed i gladiatori (sebbene fossero infames) divennero spesso exempla virtutis (esempi di virtù, o meglio di virtus) agli occhi di una larga parte dell’elite dirigente. A confermare ciò sono le riflessioni di autori come Cicerone e Seneca:  

«Pensa ai colpi che prendono i gladiatori, che sono gente rovinata dai debiti o barbari. Quelli che sono stati addestrati bene preferiscono mille volte esporsi al colpo, piuttosto che evitarlo a prezzo di vergogna. Quante sono le volte in cui si vede che sopra ogni altra cosa essi vogliono la soddisfazione del loro padrone o del popolo! Quando non si reggono più in piedi dalle ferite, mandano a chiedere al padrone qual è la sua volontà: se è rimasto contento, loro sono pronti a lasciarsi finire. C’è mai stato un gladiatore, anche fra i meno bravi, che si sia lasciato sfuggire un gemito in quei momenti, che abbia mutato l’espressione del volto? Uno che si sia comportato da vigliacco, non dico davanti all’avversario, ma quando già era stato atterrato? Uno che, caduto a terra, abbia ritirato il collo quando gli era stato ordinato di offrirsi al colpo di grazia? Eccola l’importanza dell’esercizio, della preparazione, dell’abitudine» (Cic., Tusc., II, 17, 41; trad. di Adolfo di Virginio).

«Come dice Cicerone, ci sono insopportabili i gladiatori se a tutti i costi vogliono salva la vita: li applaudiamo (invece) se mostrano di disprezzarla. Sappi che anche a noi accade la stessa cosa: spesso il timore della morte ci fa morire. E la sorte stessa che ama scherzare dice: “A che scopo dovrei risparmiarti ed essere meschino e vigliacco? Tanto più sarai ferito e trafitto quanto non saprai porgere il collo. Invece, vivrai più a lungo e morirai in maniera più rapida perché aspetti la spada con coraggio, senza sottrarre il collo e senza mettere le mani avanti”. Chi avrà paura della morte non farà mai nulla da uomo vivo; ma chi saprà che la sua morte è stata stabilita fin dal momento in cui è stato concepito, vivrà secondo questa regola e con forza d’animo si darà da fare perché nessuna delle cose che gli capitano giunga improvvisa. Infatti, guardando a tutto ciò che può avvenire come qualcosa che veramente accadrà, smorzerà l’impeto di tutti i mali, che non portano niente di nuovo a chi si prepara e li aspetta» (Sen., Tranq., XI, 1-6; trad. di C. Lazzarini).

In Cicerone il gladiatore è un virtuoso. Un uomo che accetta con ammirevole dignità il proprio destino, sottoponendosi all’auctoritas del padrone. Per Seneca, il quale si ispira direttamente alle parole del celebre oratore, colui che lotta con la certezza della propria morte è simile al saggio stoico. La vita di un gladiatore è paradossalmente ritenuta più degna della vita di un libero, in quanto vissuta con una consapevolezza che a quest’ultimo potrebbe mancare. Si tratta di testimonianze particolarmente illuminanti, poiché fornite da due uomini che certamente non amavano recarsi all’anfiteatro. Cicerone, uomo politico dalle idee reazionarie e vicino alla fazione ottimate, considerava gli spettacoli un divertissment da popolino (si veda, a tal proposito, l’epistola relativa all’inaugurazione del teatro di Pompeo). Seneca, nella sua veste impeccabile di filosofo stoico, al servizio di un despota illuminato, non poteva certo dirsi un appassionato di munera. Eppure, la figura del gladiatore affascinò anche quest’ultimo. Pur condannandone all’unisono la condizione sociale, entrambi si videro in qualche modo costretti a tesserne le lodi.  Questo poiché il mondo anfiteatrale, pur essendo “infame”, continuava ad incarnare e ad esibire i valori più alti del mos maiorum (virtus, gravitas, pietas, fides, dignitas, auctoritas…). 

3. L’arena secondo i cristiani. Tertulliano e Agostino d’Ippona

Ma al di là di questa componente culturale, non bisogna dimenticare che presso i luoghi dello spettacolo romano era comunque in atto un valente meccanismo psicologico, fondato su  di un voyeurismo morboso che combinava attrazione e repulsione. Ciò è dimostrato con efficacia non tanto delle testimonianze dei membri dell’élite romana, ma soprattutto da quelle provenienti dal mondo cristiano:

«Così come il gladiatore, legato al suo giuramento, mette la sua vita nelle mani del maestro, allo stesso modo il saggio deve affidare la sua vita al maestro divino» (Tert., De spect., XXII; trad. di G. Mazzoni, Cantagalli, 1934).

Si noti come all’interno di queste brevi righe, il gladiatore diventi un nobile soldato che con il suo giuramento fa un atto di devotio, se non addirittura un martire che affida la sua vita a Dio. Un paragone che stride terribilmente con l’intero contesto letterario in cui appare inserito, quello del De spectaculis di Tertulliano. L’autore cristiano infatti, verosimilmente attorno al 197 d.C., scrisse questo trattato con il fine preciso di condannare l’usanza dei munera e di rendere i cristiani consapevoli delle motivazioni che proibivano loro di assistere agli spettacoli pagani. Prima fra tutte la convinzione che questi ultimi costituissero una grave forma di idolatria (Tert., De spect., VII). Le statue degli dei olimpici portate in corteo durante la pompa (la cerimonia di apertura dei giochi), secondo Tertulliano, avrebbero celebrato divinità ontologicamente inconsistenti sotto le cui spoglie si sarebbero celati i demoni (Tert., De spect., X, 10.). Se per Cicerone e Seneca l’arena era dunque il luogo proprio delle masse ignoranti e plebee, per i cristiani essa diventava omnium daemonum templum (letteralmente “il tempio di tutti i demoni”). Un luogo maledetto e infestato da spiriti malvagi che potevano produrre un contagio (inquinamentum), simile ad una possessione, inducendo gli spettatori al peccato (Tert., De spect., VIII; XII, 6-7). Si osservi, a tal proposito, la seguente dichiarazione:

«Accadrà che colui che non potrà senza profonda impressione guardare un cadavere di persona, defunta per morte naturale, quello stesso, invece, in pieno anfiteatro, fisserà i suoi occhi, tranquilli e impassibili su quei corpi straziati, quasi fatti a pezzi, che nuotano nel loro stesso sangue. Si può dare il caso che uno si rechi ad assistere ad uno spettacolo, riconoscendo giusta la pena che viene inflitta ad un omicida; ma avverrà nello stesso modo che costui costringa il gladiatore, che pur non vorrebbe, a furia di sferzate e di battiture, alla forma di omicidio che egli stesso ha prima condannato. E chi richiede che sia lasciato in pasto a una belva quegli che ha più volte dato crudelmente la morte, il medesimo potrà poi arrivare a chiedere che le insegne di un ben meritato riposo siano concesse a quello stesso gladiatore ardito e crudele, qualora riesca vincitore dalla lotta e può essere anche che si abbia senso di compassione verso colui, alla vita del quale da lontano si imprecò e di cui si desiderò la morte: e ciò non fu, noi non lo potremmo attribuire ad altro senso, che a maggior fierezza e crudeltà» (trad. di G. Mazzoni, Cantagalli, 1934).

Tertulliano pone qui l’accento sul coinvolgimento psichico ed emozionale dato dall’anfiteatro, presso il quale anche l’uomo più pudico e morigerato avrebbe perduto ogni inibizione, partecipando alla saevitia e alla feritas messe in scena durante i combattimenti. Del resto, un altro motivo di biasimo nei confronti dei ludi, all’interno del De spectaculis, è l’impossibilità da parte dello spettatore di partecipare alla sofferenza dei condannati a morte. Per i cristiani non era possibile gioire del supplizio inflitto ad un altro, ma il dolore di quest’ultimo doveva essere condiviso a prescindere dalla sua condizione. È lo stesso Tertulliano a confermare senza mezzi termini che «chi è un uomo dabbene non può mai provar soddisfazione del supplizio d’un altro: è più conforme ad un’anima buona e non colpevole il provare senso di rammarico e dolore per il fatto che una creatura uguale a lui si sia resa così macchiata da colpa, da rendersi meritevole di una pena sì grave e crudele. Chi poi purtroppo mi può assicurare e garantire che coloro che sono destinati ad esser vittime delle belve o che sono condannati a qualunque altro supplizio, non siano innocenti?»  (Tert., De spect., XIX; trad. di G. Mazzoni, Cantagalli, 1934).

Agostino d’Ippona nel suo studio, Chiesa di Ognissanti, Firenze. Affresco di Sandro Botticelli, 1480 (fonte: Wikipedia)

In tal caso egli arriva finanche a gettare un’ombra sulla giustizia romana, che appare rea di punire e condannare superficialmente, quasi per puro sadismo. Tuttavia, tornando all’asserzione iniziale, che sembra quasi voler assolvere i gladiatori dalle loro colpe ed escluderli dalla dura requisitoria del De spectaulis, ben si comprende come l’impatto psicologico dei ludi riuscì a scalfire, seppur in modo molto lieve, anche la mente dello stesso Tertulliano. Tale rapporto ambiguo e tormentato con il mondo degli spettacoli, ancor più rivelante rispetto a quello instaurato dagli stessi filosofi e intellettuali romani, emerse maggiormente nel periodo fra IV e V secolo d.C. (Arena, 2020), come si evince dagli scritti di Agostino di Ippona. Dalle Confessiones riaffiora chiaramente il desiderio represso di assistere agli spettacoli: 

«Mi rapivano gli spettacoli teatrali, pieni di immagini delle mie miserie e di esche del mio fuoco. Come avviene che a teatro l’uomo vuole soffrire contemplando vicende luttuose e tragiche, che tuttavia egli stesso non vorrebbe patire? Però, da spettatore cerca di patire da esse un dolore e proprio il dolore costituisce il suo piacere. Che cos’è questa se non una stupefacente follia? A quelle vicende si commuove infatti di più chi è meno immune da tali passioni; benché, quando uno patisce in prima persona, si usi parlare di miseria, quando compatisce altri di misericordia. Ma qual è, in definitiva, la misericordia [che si prova] nei riguardi delle finzioni del teatro?» (August., Conf., III, 2, 2; trad. di G. Sommavilla, 1993, PIEMME). 

Agostino, pur riferendosi all’ambito del teatro, porta avanti una vera e propria autoanalisi della propria esperienza. Si interroga sulla condizione dello spettatore che, come afferma Patrizia Arena, si connota al contempo come oggetto passivo e soggetto attivo dello spettacolo, poiché da un lato, quest’ultimo fa emergere la corruzione già insita in esso e dall’altro fomenta le passioni che ne sono responsabili (Arena, 2020). Secondo il vescovo di Ippona non sarebbe stato possibile assistere ai giochi in modo distaccato, traendone un mero intrattenimento, privo di qualunque turbamento emotivo. A dimostrazione di ciò, si rammenti il celebre aneddoto narrato nel VI libro delle Confessiones:

«Alipio mi aveva preceduto a Roma per studiare il Diritto: ed ivi fu travolto contro ogni credenza e in una misura incredibile dalla passione per gli spettacoli dei gladiatori. Ne aveva avuto dapprima disgusto e odio; ma alcuni amici e compagni di studio un giorno tornando dal pranzo imbattutisi in lui, per quanto opponesse forte resistenza, con amichevole prepotenza lo trascinarono nell’anfiteatro: era un giorno di quegli spettacoli crudeli e malvagi. Egli badava a dire: “Forse che trascinando e costringendo il mio corpo a rimanere in quel luogo credete di poter costringere anche il mio animo ed i miei occhi a quello spettacolo? Vi sarò, ma come un assente, ed avrò vittoria di voi e di esso”. Ma nonostante questa affermazione, gli amici lo trascinarono seco, forse anche punti dal desiderio di far la prova della sua forza d’animo. Quando vi arrivarono e trovarono modo di mettersi a sedere, tutto già respirava inumana voluttà. Alipio, chiuse le porte degli occhi, inibì al suo animo di prender parte a quegli orrori. E almeno avesse chiuso anche le orecchie!». 

«Ad un certo istante del combattimento un immenso urlio di popolo lo fece sussultare: vinto dalla curiosità e come pronto, di qualunque cosa si trattasse, a disprezzare ed a vincere anche la vista, aperse gli occhi e l’anima sua fu colpita da una ferita più grave di quella ricevuta nel corpo dal gladiatore che per un istante aveva voluto guardare: e cadde ben più miseramente di quegli, la cui caduta aveva provocato tale clamore: entrò nelle sue orecchie, gli fece sbarrare gli occhi, sicché si formasse una breccia attraverso la quale fosse ferito e abbattuto quell’animo più temerario che forte, tanto più debole in quanto cercava in se stesso la forza che avrebbe dovuto cercare in Te. Vedere quel sangue e imbeversi di crudeltà fu tutt’uno: non ne distolse gli occhi, anzi ve li fissò; respirava furore senza accorgersene, prendeva gusto a quella lotta criminale, ebro di sanguinario piacere. Non era più quello che era venuto, ma uno della plebaglia tra cui era venuto e degno compare di quelli che ve lo avevano condotto. Che più? Guardò, gridò, si entusiasmò; se ne venne via portando seco una febbre che lo spinse a tornarvi non solo con quelli che ve lo avevano trascinato, ma primo di essi, trascinatore di altri» (August., Conf., VI, 8.; trad. di Guido Sommavilla, 1993, PIEMME). 

Rilievi del sarcofago di G. Lusius Storax, con pubblico che assiste a uno spettacolo gladiatorio, I sec. d.C., Chieti. In alto, a sinistra, è raffigurata una scena di rissa tra spettatori (fonte: Wikipedia)

Il giovane amico dell’autore, Alipio, era stato suo allievo a Tagaste ed era già stato travolto dalla frenesia del circo di Cartagine (August., Conf., VI, 7, 11). Dopo aver frequentato le lezioni di Agostino, parve essersi liberato dalla passione per gli spettacoli, ma una volta trasferitosi a Roma per studiare diritto ne fu nuovamente rapito. Entrò al Colosseo da fervente cattolico, sprezzante dei munera e ne uscì da accanito cultore. Agostino descrive molto efficacemente lo stesso voyeurismo (causato in primo luogo dal suono), che sorge nel momento in cui al cinema, per esempio, si assiste alla proiezione di un film horror. Non si vorrebbe guardare, ma infine, per curiosità, si è portati a “sbirciare”, alimentando una sorta di dipendenza visiva ed emozionale dall’oggetto fruito. Alipio, convinto di poter resistere alla curiositas, cadde vittima del fragore dell’arena e della voluptas eccitata dal sangue. Nel momento in cui guardò, fu penetrato dal contagio e non poté che assistere con partecipazione allo scontro, raggiungendo uno stato di euforia tale per cui arrivò a trascinare altre persone all’anfiteatro. Dunque, se il fenomeno degli spettacoli fu vissuto con un estremo trasporto emotivo anche dai cristiani e dagli abitanti delle province (Mejier, 2009), non sarebbe logico affermare che i Romani costruirono le arene poiché “furono un popolo crudele”. Più semplicemente, si potrebbe ammettere che innalzarono numerosi anfiteatri poiché moltissimi uomini, di diversa provenienza ed estrazione sociale, desideravano assistere ai loro giochi.  Di conseguenza, l’appartenenza al sistema di valori proprio della civiltà romana non sarebbe la ragione principale per cui un uomo, una donna o un bambino decideva, durante l’età imperiale,  di recarsi all’anfiteatro. Tale motivazione andrebbe così ricercata al di fuori del terreno battuto dallo storico.  Non tanto in quello dell’etica, ma probabilmente in quello della psicologia.

Rebecca Goldaniga – Scacchiere Storico

Rebecca Goldaniga è una studiosa dell’antichità romana. Si occupa soprattutto delle dinamiche sociali e culturali riguardanti il mondo latino. Ha un debole per gli imperatori “eccentrici” e per i gladiatori. A Netflix preferisce i kolossal peplum.

Bibliografia

Arena P. 2010, Feste e rituali a Roma: il principe incontra il popolo nel Circo Massimo, Bari, Edipuglia; Arena P. 2020, Gladiatori, carri e navi. Gli spettacoli nell’antica Roma, Roma, Carocci; Beard M. 2008, Pompei. Prima del fuoco. Storie di ogni giorno, traduzione di Tommaso Casini, Milano, Mondadori; Carcopino G. 1942, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero, Bari, Laterza; Carter M. J. 2007, Gladiator combat: the rules of the engagement, “The Classical Journal”, Vol. 102, No. 2, pp. 97-114, The Classical association of the Middle West and South; Gregori G. 2011, Ludi e Munera: 25 anni di ricerche sugli spettacoli di età romana, Milano, LED; Jacobelli L. 2003, Gladiatori a Pompei: protagonisti, luoghi, immagini, Roma, L’Erma di Bretschneider; Lo Cascio E. 2016, Roma imperiale. Una metropoli antica, Milano, Carocci; Mann C. 2014, I gladiatori, Bologna, Il Mulino; Meijer F. 2004, Un giorno al Colosseo: il mondo dei gladiatori. Roma. Laterza; Meijer F. 2009, Il mondo di Ben Hur. Lo spettacolo delle corse nell’antica Roma. Roma. Laterza; Savi F. 1980, I gladiatori: storia, organizzazione, iconografia, Roma, Gruppo archeologico romano; Veyne P. 1984, Il pane e il circo: sociologia storica e pluralismo politico, Bologna, il Mulino; Vismara C. 1900, Il supplizio come spettacolo, Roma, Quasar.

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Pubblicato da Scacchiere Storico

Rivista di ricerca e divulgazione storica

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