LO STATO VISCONTEO: FASI ESPANSIVE E GOVERNO SIGNORILE

Stemma dei Visconti

di Federica Fornasiero

«Quella dei Visconti è una storia esemplare durata circa due secoli, percorsa da morti violente e dalla brutalità, persino patologica, di alcuni dei suoi protagonisti, che si destreggiavano tra guerra e banchetti, matrimoni e alleanze, battute di caccia, ideologie universali e interessi spiccioli. È una storia di ambizioni, anche regali, frustrate, di successi e brucianti sconfitte che ha lasciato, in Lombardia e soprattutto a Milano, un’eredità materiale e immateriale ricchissima»

(Del Bo, 2022)

Introduzione

I Visconti furono una delle principali famiglie nobili italiane, tra le più antiche e potenti: riuscirono ad imporsi gradualmente sulla scena politica sin dal X secolo e a governare, quasi ininterrottamente, su Milano e sulla Lombardia storica per circa due secoli, dal 1277 al 1447. L’estensione territoriale dello stato visconteo fu sicuramente una cartina tornasole delle doti politiche, militari, diplomatiche e amministrative della dinastia. Tuttavia, si possono individuare diverse fasi espansive che andarono di pari passo con le diverse congetture locali, nazionali e internazionali. Il processo di espansione territoriale fu infatti discontinuo e i confini furono mobili, poiché si estesero e si ridussero costantemente. Il cuore della dominazione fu sicuramente Milano e la Lombardia, ma i Visconti arrivarono infine a formare uno Stato sovraregionale, che sotto il ducato di Gian Galeazzo ebbe la sua massima estensione, sottomettendo anche i territori veneti, liguri, toscani, umbri, piemontesi, emiliano-romagnoli e svizzeri, fino a preoccupare non poco l’acerrima nemica Firenze. La morte del Conte di Virtù, però, vide non solo scemare la speranza di assoggettare la Repubblica gigliata (con buona pace dei fiorentini), ma anche il collasso – nell’arco di una sola generazione – politico-territoriale e dinastico, tanto che si arrivò nel 1450 – in seguito alla morte di Filippo Maria nel 1447 e al triennio della Repubblica Ambrosiana – alla definitiva ascesa degli Sforza (Del Bo, 2022; Grillo, 2010).

Stemma visconteo Sant'Eustorgio
Anonimo, La Leggenda di san Giorgio e stemma dei Visconti, 1375 ca, affresco, Cappella Visconti, Chiesa di Sant’Eustorgio, Milano (fonte: autore, Giovanni Dall’Orto; licenza CC BY 2.0)

1. La dinastia, lo Stato e le sue fasi espansive

1.1 Ottone e Matteo

Come abbiamo detto, la famiglia Visconti ha radici ben solide nella storia, tanto che anche il significato legato allo stemma – la famosissima Vipera, o più affettuosamente il Biscione – è ammantato di un’aura leggendaria (Del Bo, 2022). Tuttavia, ai fini del nostro discorso, risulta maggiormente interessante il periodo che intercorre tra il 1277 e il 1447 (anno della morte di Filippo Maria, l’ultimo duca). Possiamo dire che il capostipite della dinastia sia stato Ottone, divenuto arcivescovo di Milano nel 1262 in barba al guelfo Raimondo Della Torre, già al governo di Milano. L’elezione di Ottone non solo fu imprevista, ma scatenò una guerra civile tra le due fazioni milanesi, i ghibellini Visconti e i guelfi Della Torre. In città la situazione era tanto tesa che Ottone non poté insediarvisi; si spostò così ad Angera, dove visse in esilio. Nel frattempo, a Milano, Napo Della Torre divenne Anziano perpetuo del Popolo nel 1265, carica che mantenne fino al 1277, quando subì l’imboscata viscontea a Desio e perse la città: Ottone riuscì così a spianare la strada all’ascesa del nipote Matteo I.  Il 1277 quindi fu un anno estremamente importante, poiché segna ufficialmente la nascita della signoria viscontea, dapprima su Milano, poi sulla Lombardia e infine su buona parte dell’Italia Centrosettentrionale (Del Bo, 2022).

Mantenere un saldo controllo sulla città meneghina non fu però facile, poiché i Della Torre non si arresero facilmente e perché Guglielmo VII, Marchese di Monferrato e Capitano del Popolo di Milano (1278-1282), rappresentava un ostacolo non indifferente. Inoltre, la signoria dapprima cercò di avere un atteggiamento pacificatore, per poi rivelare il suo volto più autoritario e “tirannico” (non a caso, i Visconti vennero a più riprese considerati l’incarnazione della tirannide) (Gamberini, 2018; Gamberini, 2013; Barni, 1941). Una volta eliminato il problema del Marchese, Matteo riuscì ad essere eletto Capitano del Popolo nel 1287, carica che mantenne fino al 1299, e a ottenere il vicariato imperiale per la Lombardia nel 1294. Inoltre, riuscì a sottrarre a Guglielmo i suoi possedimenti lombardo-piemontesi: Novara, Vercelli, Alessandria, il Marchesato e Como. Il primo decennio del Trecento fu turbolento a causa degli scontri con i Della Torre, ma vide infine la vittoria definitiva dei Visconti (Del Bo, 2022). Prima della sua morte, Matteo, ormai signore di Milano, dovette inoltre scontrarsi con il papato e subire un processo per eresia insieme ai suoi figli (Benedetti, 2021; Parent, 2019; Del Bo, 2022; Barni, 1941; Biscaro, 1920; Dale, 2006).

1.2 Azzone e Luchino

Confermato il predominio visconteo su Milano, si aprì una fase espansiva che portò il dominio – ormai sotto la guida di Azzone, il quale ottenne il vicariato nel 1329 – a raggiungere un’estensione regionale, corrispondente a quella che si può definire la Lombardia storica (area ben più ampia dell’area geografica odierna) (Benedetti, 2021). Azzone Visconti riuscì infatti a spingersi a est verso Bergamo, Brescia, Cremona e Crema; a sud sottomettendo Lodi e Piacenza; verso ovest a Vercelli, che gli si sottomise spontaneamente. Nel 1330, il Visconti venne nominato signore perpetuo dell’assemblea della città di Milano e riuscì a governarla in qualità di vicario pontificio solo due anni più tardi. Azzone assoggettò un buon numero di città lombarde, dove si impegnò per far stilare ex novo o riformare gli statuti, e dove intervenne sull’urbanistica, sia per celebrare la propria immagine, sia per dotare i neo dominati di fortificazioni, presidi militari e castelli (per esempio, fece erigere le mura di Cantù e restaurare quelle milanesi). Il dominus era estremamente ambizioso, particolarmente attento alla propaganda e alla creazione di consenso: voleva trasmettere un’immagine pacificatrice, legittimante e potente; per di più, si assistette alla «comparsa delle squadre, delle fazioni urbane, come elemento ordinatore della vita cittadina […] nessuno spazio appare più concesso alla “politica dell’esclusione” […]. La concordia tra le parti, e il reintegro dei fuoriusciti, è ovunque l’atto inaugurale del dominio» (Del Tredici, 2017). Gli intenti di Azzone sono riscontrabili anche nei simboli rappresentati sulle monete di nuovo conio, su cui era riportato il suo nome, la vipera, Sant’Ambrogio e la croce. Non solo, sostituì la memoria comunale con quella signorile, occupando gli antecedenti luoghi di potere e rimpiazzandone i simboli. Alla sua morte nel 1339, a soli trentasette anni, gli subentrò Luchino, che aggiunse ai precedenti possedimenti anche l’Astigiano. Durante queste prime fasi – e soprattutto fino ad almeno al ducato di Gian Galeazzo – la signoria viscontea rimaneva temporanea e la dominazione disomogenea: si trattava infatti di un territorio costellato da una moltitudine di identità comunali, il cui denominatore comune altri non era che il dominus. Inoltre, l’esercizio delle prerogative era assicurato dalla momentanea conferma del vicariato imperiale, ottenuto in primis da Matteo nel 1294 (Del Bo, 2022; Grillo, 2010; Black, 2003; Gamberini, 2005; Del Tredici, 2017; Storti Storchi, 1990).

1.3 L’arcivescovo Giovanni e i fratelli Matteo, Galeazzo II e Bernabò

Un altro importante momento nella storia viscontea afferisce all’arcivescovo Giovanni, che con l’aiuto militare dei nipoti – i fratelli Matteo II, Bernabò e Galeazzo II – e a ingenti esborsi di denaro, riuscì ad accaparrarsi Bologna (comprata nel 1350 e mantenuta a fatica fino al 1360), Genova, buona parte del Piemonte, della Lombardia, e dell’Emilia-Romagna. Nonostante le fonti relative al primo periodo visconteo – fino almeno alla signoria dell’arcivescovo – siano scarse e lacunose, dalla documentazione superstite è comunque possibile dedurre quali siano state le trasformazioni istituzionali e di organizzazione politica coerenti con queste prime fasi espansive: venne infatti potenziata la cancelleria con un suo cancellarius (anche consigliere del signore) e si predispose un archivio signorile, si svilupparono altresì la curia domini e la Camera. La politica espansiva di Giovanni venne mantenuta da Galeazzo e Bernabò, a seguito della morte dello zio e di Matteo II (rispettivamente nel 1354 e nel 1355), i quali inaugurarono una nuova fase espansiva. I fratelli, che condivisero la signoria e il vicariato imperiale (1354-1355), si spartirono il dominio in due zone di influenza: quella a ovest al primo, e quella a est al secondo. I due avevano un’attitudine al governo e alla giustizia differente, ma condividevano le medesime ambizioni espansive (oltre a qualche scomunica, il processo per eresia e la perdita del vicariato imperiale); inoltre, durante il governo congiunto, le imposte si fecero sempre più pesanti, soprattutto a causa delle ingenti spese per sostenere le campagne diplomatico-militari (Black, 2003; Gamberini, 2005; Mainoni, 2014; Storti Storchi, 1990).

Monumento funebre Bernabò Visconti
Bonino da Campione, Monumento funebre di Bernabò Visconti, post 1360 – ante 1385, scultura, Museo di Arte Antica, Castello Sforzesco, Milano (fonte: autore, Giovanni Dall’Orto; licenza CC BY 2.0)

Galeazzo fece costruire il castello-residenza a Pavia, dove tra l’altro edificò una biblioteca e istituì l’Università nel 1361; si legò inoltre a Francesco Petrarca, che non solo lo sostenne con i suoi scritti, ma lavorò per il signore in qualità di diplomatico e ambasciatore. A Milano, invece, prese residenza nel Castello di Porta Giovia e fece realizzare il parco che utilizzò come riserva di caccia. La sua ambizione arrivò a costargli un’enorme fortuna, dato che nel 1360 sborsò 300.000 fiorini per far sposare suo figlio Gian Galeazzo con Isabella di Valois, figlia niente meno che del re di Francia. Non solo, riuscì anche a piazzare sua figlia Violante con il figlio di re Edoardo III d’Inghilterra, anche se il matrimonio durò ben poco e gli sforzi profusi da Galeazzo II svanirono repentinamente. Per quanto riguarda il suo modello di governo, non condivise la linea intrapresa dal fratello Bernabò, prediligendo invece un approccio meno serrato, soprattutto per quanto riguarda la giustizia, l’amministrazione e la legislazione, limitandosi piuttosto a riforme parziali. Galeazzo II non nascondeva certo le sue mire e ambiva a presentarsi come degno pari nelle più importanti corti europee, sfoggiando opulenza e potere. Alla morte di quest’ultimo, nel 1378, subentrò il figlio Gian Galeazzo, che acquisì definitivamente il potere con la morte dello zio Bernabò nel 1385 (Del Bo, 2022; Grillo, 2010; Storti Storchi, 1990).

Bernabò venne considerato l’incarnazione vivente della tirannide e della crudelitas: era un uomo decisamente più sanguigno, rigido e spietato del fratello, più volte scomunicato e accusato di eresia, sempre al comando delle sue truppe e sempre impegnato in guerre e intrecci diplomatici (si pensi solamente all’infeudazione dei Gonzaga e agli sforzi profusi per arrivare ad ottenere la tanto agognata Reggio Emilia) (Fornasiero, 2021). Ebbe numerosissimi figli legittimi e illegittimi e condivise con i figli e la moglie Regina della Scala – sua consigliera fidata – il governo delle città soggette. Il governo di Bernabò si allontanò però dall’idea di Azzone di sfruttamento e conciliazione delle fazioni, valorizzando invece elementi aristocratico-signorili di parte e considerando il proprio dominio come un «“naturale” aggregato di città» (Del Tredici, 2017). Nelle città soggette, provvide alla riforma statutaria assimilando lo ius proprium allo ius domini, andando comunque incontro alle esigenze locali. In questo modo, si cercò di ottenere una certa uniformità legislativa – almeno per quanto riguardava la giustizia e l’amministrazione – utile alla stabilità della signoria. Il dominus morì per mano del nipote Gian Galeazzo, figlio di Galeazzo II, che gli tese un’imboscata, lo imprigionò e infine lo avvelenò nel 1385 (Comani, 1900; Comani, 1902; Del Bo, 2022; Del Tredici, 2017; Gamberini, 2005; Gamberini, 2011; Storti Storchi, 1990).

1.4 Gian Galeazzo Visconti e Filippo Maria: dalle stelle alle stalle

Elogio funebre Gian Galeazzo Visconti
Michelino da Besozzo, Elogio funebre per la morte di Gian Galeazzo Visconti, 1403 (fonte: Bibliothéque Nationale de France, licenza CC0)

Alla morte di Bernabò, Gian Galeazzo divenne unico signore nel 1385. Fece celebrare un solenne funerale, beneficiando inoltre della macchina propagandistica creata ad hoc per presentarsi come uomo giusto, che ha agito per difendersi dalle pericolose macchinazioni dello zio. Inoltre, la sua figura venne identificata con le sette virtù cristiane, teologali e cardinali – Fede, Speranza e Carità; Prudenza, Giustizia, Temperanza e Fortezza; una facile operazione, dato che si era guadagnato il titolo di Conte di Virtù, derivatogli dal primo matrimonio con Isabella di Valois – che portò in dote la Contea di Vertus – e per il quale venne sborsata una folle cifra. Inoltre, al biscione venne associato anche il sole, simbolo personale del nuovo dominus. Gian Galeazzo parve dapprima un signore magnanimo e ottenne un consenso immediato, anche perché diede la possibilità ai territori precedentemente assoggettati di darsi spontaneamente alla sua signoria. Tuttavia, non fu tutto oro quello che luccicava, abbagliando cronisti, sudditi, alleati e confinanti: il governo del dominus iniziò ben presto a suscitare del malcontento, soprattutto a Milano, non più così centrale nella nuova politica amministrativa. I dissidi vennero spesso sedati con la forza, dispiegando l’esercito e fortificando la città, tutte mosse che – insieme alle gravi imposizioni fiscali – inasprirono i rapporti con la popolazione. L’ambizione smisurata del Conte di Virtù lo portò a comprare dall’imperatore Venceslao il titolo di duca nel 1395, riconfermato l’anno seguente per tutti i domini. Sotto la dominazione di Gian Galeazzo, il ducato raggiunse la massima estensione, arrivando addirittura alle porte di Firenze prima della sua morte nel 1402. Inoltre, il controllo sulla popolazione, sugli uffici, sulle istituzioni – anche ecclesiastiche – raggiunse in questo periodo «forme nuove in quanto a capillarità e a continuità» (Gamberini, 2005), tali da assicurare un importante orientamento politico-amministrativo e un controllo inedito sulle comunità del ducato. Come il predecessore Azzone, Gian Galeazzo fu «convinto sostenitore del ruolo delle squadre [fazioni, ndr] nel governo delle città a lui sottoposte, ma delle squadre seppe anche apprezzare, e promuovere, un netto carattere intercetuale, la capacità di comprendere in sé una larga fetta delle società locali» (Del Tredici, 2017). Lasciò il dominio al figlio di secondo letto Filippo Maria, che ereditò anche il titolo di Duca. Quest’ultimo, inizialmente sotto la tutela della madre Caterina (figlia di Bernabò, poi avvelenata dallo stesso Filippo Maria), non seppe eguagliare le doti del padre, portando infine alla perdita di buona parte dei domini. Alla sua morte, nel 1447, lo stato visconteo andò disgregandosi e a Milano venne istituita la Repubblica Ambrosiana (1447-1450) (Black, 2003; Del Bo, 2022; Del Tredici, 2017; Gamberini, 2017).

2. Il governo alla viscontea

«Per i primi due terzi del secolo [Trecento, ndr] rimangono ancora quasi sconosciuti i modi in cui il dominio stesso veniva governato […] e, più in generale, la percezione che i Visconti avevano del territorio a loro sottomesso, ossia se questo venisse pensato come un’unità organica, come una sommatoria di distretti differenti o una semplice estensione della precedente area di egemonia milanese» (Grillo, 2010)

È sicuramente importante tenere ben a mente che i domini viscontei ebbero un’idea di signoria e di potere diversa tra loro, basti solo pensare ai due fratelli Galeazzo II e Bernabò, e infine a Gian Galeazzo, un vero e proprio turning point nella storia del casato, momento apicale della parabola espansiva di affermazione su un ormai vasto dominio. Ma come governavano quindi i signori di Milano?

Un territorio così vasto richiedeva parecchi sforzi per poter essere mantenuto efficiente, compatto e soprattutto per arginare eventuali resistenze e malcontento. Inoltre, «con la formazione dello stato visconteo si può notare una cesura nella gestione amministrativa, non nel senso dell’abrogazione dei preesistenti organismi e strutture fiscali, ma della giustapposizione di fidati rappresentanti dei signori agli uffici della città» (Mainoni, 2014). Come abbiamo detto, i confini erano mobili e spesso le ingenti spese sostenute dai signori gravano pericolosamente sulle comunità assoggettate: «l’ampiezza dei poteri esercitati dai signori si esplicita immediatamente nel controllo delle finanze e le iniziative dei Visconti sembrano da subito decisamente invasive nei confronti delle amministrazioni locali» (Mainoni, 2014; Gamberini, 2011). Lo stato visconteo si caratterizzò per la non linearità del suo sviluppo, per la pluralità delle scelte dei diversi membri della famiglia e per le loro differenti posizioni ideologico politiche; tuttavia, tra il 1333 e il 1395 (anno in cui la signoria divenne ducato), il dominio visconteo rimase per lo più «un’unione personale di città e terre, sottoposte a un regime tendenzialmente assolutistico e accentratore, proteso a smussare le maggiori differenze tra i diritti locali e anzi a uniformare tra loro gli iura propria» (Storti Storchi, 1990).

Uno degli aspetti significativi della dominazione viscontea fu la nomina del personale politico, esplicitatasi in continuità o in discontinuità con la tradizione di governo locale. Nel primo caso, i Visconti nominarono gli ufficiali in bacini di arruolamento ormai consolidati; nel secondo, optarono per affidare gli incarichi a personale fidato, legato alla signoria da rapporti clientelari, personali e di parentela. Le magistrature, inoltre, non solo erano nominate dall’alto, ma potevano essere riconfermate usque ad beneplacitum domini, esplicitando in questo modo una decisa ingerenza signorile nell’amministrazione cittadina. Gli ufficiali inoltre erano fondamentali per mantenere un certo rapporto con le realtà assoggettate, tra centro e periferia e viceversa, e con le élites locali, soprattutto attraverso le litterae domini, petizioni e richieste. Venne così a crearsi una classe esecutiva fedele e obbediente, soprattutto sotto il ducato di Gian Galeazzo, caratterizzato per il suo clientelismo (Grillo, 2010; Del Tredici, 2012; Storti Storchi, 1990; Storti Storchi, 1991).

Mappa estensione Visconti
Massima estensione dei domini viscontei alla morte di Gian Galeazzo Visconti (fonte: autore, Kayac; licenza CC BY-SA 3.0)

Un altro espediente per il controllo serrato delle comunità fu sicuramente la revisione e la conferma statutaria; gli statuti rimanevano fondamentali, nonostante ad essi vennero aggiunti i decreta signorili (i decreti avevano la medesima valenza locale degli statuti, ma fu solo con il ducato che la loro validità venne estesa a tutto il dominio). Il podestà veniva ora nominato dall’alto: teoricamente era soggetto a dei vincoli, esplicitati negli statuti (che comunque erano confermati dal signore), ma praticamente rispondeva al dominus, che ne gestiva la durata dell’incarico ed eventualmente il suo sindacato finito munere. Inoltre, il rettore doveva interagire con il consiglio cittadino, da lui presieduto e spesso condizionato, e doveva palesarsi come il medium tra signore e comunità (Barni, 1941; Del Tredici, 2012; Grillo, 2010).

2.1 Il Conte di Virtù, il ducato, la svolta amministrativa

Un punto di svolta fu rappresentato da Gian Galeazzo Visconti, che esplicitò un’idea profondamente diversa di governo, non solo rispetto al padre e allo zio, ma anche rispetto ai predecessori. Prima di tutto, fu il primo Visconti a ricevere il titolo di duca nel 1395 per la città di Milano, poi riconfermato l’anno successivo per tutto il dominio (titolo al quale si aggiunse quello di conte di Angera e di Pavia). Questo fu l’episodio culminante di un processo di legittimazione e di definizione del potere signorile, ormai divenuto ereditario con il Conte di Virtù. Se Milano rimase per tutto il periodo precedente il fulcro del dominio, con Gian Galeazzo la situazione iniziò a cambiare, propendendo sempre più verso uno svincolamento della dinastia dalla città meneghina. La corte, per esempio, venne spostata a Pavia, fulcro simbolico del ducato e città di antica tradizione regia longobarda; il Conte di Virtù era ossessionato dallo stabilire un dominio dal sapore monarchico su un territorio omogeneo, che avrebbe ridotto – se non eliminato – le diverse ingerenze interne ed esterne. Per fare questo, Gian Galeazzo affidò i maggiori incarichi – come quello podestarile, ma non solo – a personale non esclusivamente milanese, come invece era stato ampiamente sfruttato negli anni precedenti. I collaboratori scelti dal duca erano sicuramente uomini di fiducia, affidabili e di provata fede politica, con un palese legame, anche parentale o clientelare, con il signore e la sua corte, e che avevano alle spalle sia una carriera significativa, sia l’esperienza necessaria per amministrare il dominio: si venne così a creare un nuovo gruppo sociale, quello dei burocrati di Stato. Gian Galeazzo predilesse la rotazione degli incarichi e dei ruoli podestarili, che solitamente avevano durata di un anno, “smilanesizzandoli”: i collaboratori venivano scelti senza preferenze territoriali, integrando in questo modo ogni componente del dominio, e si diede una maggiore importanza ai centri e ai rettori rurali (un caso esemplificativo, potrebbe essere quello del borgo di Voghera) (Archivio Storico Voghera, 2020). Si diede inoltre alla rivitalizzazione del ruolo delle parti, tentando anche di instaurare buoni rapporti con altre casate, per esempio Monferrato e Savoia. Come Azzone e invece a differenza di Bernabò, Gian Galeazzo promosse un governo per squadre o fazioni larghe, volto a sollecitare la pacificazione sociale attraverso un modello fazioso di disciplinamento collettivo. Esemplificativo potrebbe essere a questo proposito il caso di Bergamo: venne richiesto a tutti i cittadini di scegliere a quale fazione aderire tra i ghibellini Suardi e i guelfi Rivola e Bonghi. In questo modo, veniva superato definitivamente il Popolo, poiché erano le fazioni stesse a presentarsi come “popolari”. Queste ultime furono “larghe” per la loro natura intercetuale e per la loro apertura ai ceti “inferiori” – nonostante al vertice vi fossero comunque famiglie aristocratico-signorili – fattore che favorì anche una certa mobilità sociale. Le fazioni divennero uno strumento di governo, la cui esistenza e configurazione erano decise esclusivamente dall’alto (Grillo, 2010; Gamberini, 2017).

Inoltre, con il cambio di regime Gian Galeazzo diede la possibilità alle realtà del dominio di darsi volontariamente al signore, palesando un comportamento ben lontano dall’autoritarismo di Bernabò, che gli garantì il consenso immediato. Tuttavia, il conte venne ben presto criticato e tacciato di ipocrisia, suscitando malcontento; inoltre, clemente nel rappresentare il dominus non fu né la parte di Bernabò, né Firenze, preoccupata dalle mire espansionistiche e dalle smanie di potere del nuovo signore. Per di più, sulle comunità gravava la pesante fiscalità signorile, incrementata dalle spese per mantenere la corte, per garantire e garantirsi titoli e privilegi, dalle spese militari, dalle ingenti doti alle donne della famiglia e dalle cifre sborsate per accaparrarsi altre città e alleati. Tali imposizioni avevano pesato notevolmente sulle comunità assoggettate, tanto che, per esempio, nel 1392 Milano e Alessandria si rivoltarono. Per sedare le sommosse venne inviato l’esercito e aumentarono non solo il controllo sulle comunità, ma anche le strutture fortificate, che alla fine crearono ulteriore malcontento (Black, 2003; Del Bo, 2022; Mainoni, 2014).

Sole raggiante Visconti
La “razza”, sole raggiante e simbolo araldico dei Visconti. Affresco della “Rocchetta”, Castello Sforzesco, Milano (fonte: autore, Giovanni Dall’Orto; licenza CC BY 2.0)

Per sancire e legittimare definitivamente il proprio potere un vicariato non era più sufficiente e Gian Galeazzo lo sapeva bene. Era infatti ossessionato dall’ottenere il titolo ducale da parte dell’imperatore, suggello del potere, dell’autorità e della scalata ai vertici della gerarchia feudale. Il titolo venne infine ottenuto grazie a un ingente esborso di denaro, una quota del quale venne pagata dai cittadini più ricchi del dominio. Altro fattore di malcontento fu dato sicuramente dallo svincolamento della signoria dal tradizionale epicentro del Dominio stesso, Milano, e dal continuo tentativo di emanciparsi e superare le istituzioni comunali, in favore invece di uno Stato sovraregionale fortemente accentrato e controllato dal signore tramite la sua schiera di collaboratori fidati, palesando un’idea monarchica. Il potere signorile si esplicitava nella sempre più complessa macchina burocratica statale, con la conseguente moltiplicazione degli offici centrali e periferici. Venne così a crearsi un nuovo gruppo sociale, quello degli officiali, al quale venivano assegnati incarichi nelle diverse magistrature, nei consigli del principe, nelle cancellerie, nonché vicariati. A questi organi veniva demandata la gestione e il disbrigo di affari correnti e quotidiani, aumentando così la possibilità di fare carriera, di ottenere benefici economici e sociali, potere e prestigio. Essere prossimi al signore, e la mimesi con la sua politica, poteva portare a una scalata sociale non indifferente e all’affermazione di un nuovo status. Il ducato divenne un’entità istituzionale indivisibile e omogenea, grazie anche alla diramazione di collaboratori in tutto il dominio, baluardo della decisa ingerenza signorile. Intorno al 1385, si ebbe inoltre la creazione e la successiva distinzione del consiglio segreto e di giustizia, e la magistratura delle entrate, dedicata alla sorveglianza delle finanze ducali. Quest’ultima venne nel 1389 suddivisa in due sezioni, dedicate alle entrate ordinarie (come dazi, gabelle, imposte) con sede a Milano, e straordinarie (come riscossione delle condanne, taglie confische) con sede a Pavia. Questi organi erano dotati di sigilli e cancellerie, tutte ufficialità controllate dal signore. Continuava inoltre la prassi viscontea di supervisionare la legislazione cittadina, attraverso conferme e riforme degli statuti locali e dando un’inedita importanza alla realtà rurali (Del Tredici, 2012; Gamberini, 2005; Gamberini, 2017).

Conclusione

Per circa due secoli i Visconti riuscirono a imporsi come protagonisti sullo scacchiere politico dell’Italia Centrosettentrionale, arrivando infine a formare un dominio pluricittadino di dimensioni sovraregionali. Tra lotte di fazione, guerre, matrimoni, intrecci politico-diplomatici e accuse di eresia e tirannide, la signoria mantenne – a più riprese – il controllo su un territorio che, almeno fino alla morte di Gian Galeazzo nel 1402, vide allargare sempre più i suoi confini. Tuttavia, con la scomparsa di Filippo Maria – ultimo della stirpe – il ducato implose e si frammentò, sfumando così definitivamente ogni possibilità di restaurare l’antica gloria di una casata che ha fatto la storia della Lombardia medievale. 

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico

Federica Fornasiero è medievista di formazione, laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano e diplomata alla scuola APD dell’Archivio di Stato di Milano. Ad ora è dottoranda presso l’Università degli Studi di Bergamo, con un progetto sull’emigrazione italiana nel XIX secolo. I suoi interessi principali sono la storia sociale, economica e di genere, ma non disdegna anche la storia delle chiese e delle eresie medievali.

Bibliografia

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Immagine di copertina: rilievo dello stemma visconteo, Palazzo Arcivescovile, Milano (fonte: Archivio Scacchiere Storico. Foto modificata)

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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