di Federica Fornasiero
«Solo dopo il XII secolo il papato è un papato monarchico,
solo dopo di allora il papa risulta essere
il capo assoluto di tutta la cristianità cattolica,
così come nell’età moderna e contemporanea.
Ma fino all’avanzato secolo XI non era stato così:
il papa era soltanto il vescovo di Roma che aveva, sì,
un primato d’onore […] ma non governava la Chiesa» (Sergi, 1998)
Introduzione
«Nel linguaggio dei rapporti feudali si chiama investitura l’atto con cui il signore, ricevuto l’omaggio da un vassallo, lo investe, appunto, del feudo […] gliene riconosce il possesso; […] Il termine è altresì usato, più specificamente, per designare l’investitura di poteri ed entrate di origine pubblica, i cosiddetti regalia, concessi dall’imperatore ai vescovi. Poiché […] sotto Carlo Magno e i suoi successori, ai vescovi erano riconosciuti considerevoli privilegi e vere e proprie funzioni di supplenza del potere pubblico, si dava per scontato nei secoli attorno al mille, […] che ogni vescovo dovesse riceverne l’investitura dall’imperatore.» (Barbero, Frugoni, 1994)
Tra XI e XII secolo, papato e impero si scontrarono in quella che verrà poi definita la lotta per le investiture. Questo fu un vero e proprio conflitto, caratterizzato da scomuniche, nomine e deposizioni, che esplose tra le due massime autorità dell’epoca per affermare la supremazia politica, economica, territoriale e simbolica. Al centro della disputa vi era il diritto di nominare i vescovi del Sacro Romano Impero, un privilegio che da tempo legava gli alti prelati all’imperatore mediante rapporti vassallatico-beneficiari, mediante cioè investitura. Ben presto il fermento politico andò a sovrapporsi alla lotta a simonia e nicolaismo, alla nascita di movimenti riformatori o riformati (per esempio, quello dei Patarini) (Fornasiero, 2024; Cfr. Cantarella, 2005; D’Acunto, 2020; Donzelli et alles, 1998), nonché alla cosiddetta Riforma Gregoriana. A partire dall’XI secolo, infatti, la temperie socioculturale, religiosa e politica dell’Europa stava cambiando; in questo fervente clima maturò non solo la controversia per stabilire chi dovesse per diritto nominare gli alti prelati, ma anche chi potesse vantare la supremazia sull’altro e sulla comunità dei fedeli: il papa o l’imperatore? Fu un periodo segnato da eventi celebri, come ad esempio la scomunica dell’imperatore Enrico IV, poi umiliatosi a Canossa per riottenere il favore di Gregorio VII e dei principi elettori tedeschi, un episodio definito da Nicolangelo D’Acunto «uno degli eventi-cesura che […] scandiscono e sintetizzano il significato di ogni rivoluzione che si rispetti» (D’Acunto, 2020). A questo si aggiunsero anche nomine e contronomine di papi e imperatori, umiliazioni, rivincite e infine un accordo, il Concordato di Worms del 1122, che decenni dopo, solo apparentemente e momentaneamente, mise fine alla contesa. Ma quali furono le cause e le conseguenze dello scontro? Chi furono i protagonisti di questo intenso periodo storico?

- XI secolo: la riforma ecclesiastica, la riforma imperiale e casus belli
«Quello delle libertas ecclesiae era, piuttosto, uno slogan propagandistico, una bandiera agitata nella seconda metà dell’XI secolo per rivendicare l’autonomia della struttura ecclesiastica nella scelta dei propri uomini di governo […] (vescovi, abati, papa). […] l’ambiguità delle strutture ecclesiastiche culminava in un connubio di forza militare e sacralità sacerdotale rappresentato in massimo grado delle figure di re e imperatori […]. Era dunque normale che i vescovi e gli abati fossero scelti dai re o almeno eletti con il loro consenso: in fondo quegli uomini sarebbero stati anche chiamati a prestare il servitium vassallatico […] nel presidio del territorio.» (Donzelli et alles, 1998)
Si è soliti associare la figura di Gregorio VII e il suo pontificato (1073-1085) alla cosiddetta Riforma ecclesiastica. Tuttavia, una serie di importanti e radicali cambiamenti iniziò a prefigurarsi tanto in seno alla Chiesa, quanto all’Impero, già dal X secolo. La temperie riformatrice proseguì nel secolo successivo, periodo durante il quale il soglio pontificio divenne il vero e proprio fulcro della cristianità romana e della Riforma, irrobustendo, definendo e imponendo la propria supremazia sia sul resto degli alti prelati, sia sul potere laico. Infatti, fino ad almeno l’XI secolo, il papa era semplicemente primus inter pares: ogni comunità di fedeli era infatti presieduta da un vescovo che localmente si ergeva a capo della cristianità. Le diverse chiese non erano dunque subordinate a un centro “regolatore”, non erano inserite in una rigida gerarchia di potere, ma piuttosto in un complesso «disegno orizzontale e paritario» (Zorzi, 2016), mantenendo sostanzialmente una certa autonomia; in quest’ottica, il pontefice rappresentava esclusivamente il vescovo di Roma, al quale però veniva riconosciuta una particolare importanza in qualità di successore di Pietro. Come membro onorifico della Chiesa, quest’ultimo presiedeva i concili, cioè le assemblee ecclesiastiche durante le quali venivano prese le decisioni che riguardavano il complesso della societas christiana. Tuttavia, furono i sovrani franchi a definire, regolamentare e coordinare le chiese locali (soprattutto diocesi e monasteri quali centri di potere laico ed ecclesiastico) ad essi afferenti fino ad almeno l’XI secolo, quando – come si è già accennato – il rapporto Chiesa-Impero entrò in crisi (Benedetti, 2015; Merlo, 2018; Donzelli et alles, 1998; Zorzi, 2016).
Infatti, il cristianesimo altomedievale occidentale iniziò a definirsi grazie a due “eventi”: da una parte, dalla commistione di tradizioni germaniche e latine, dall’altra dalla scissione con il mondo romano orientale. A partire dalla conversione di Clodoveo nel 496 – che lo assurse a difensore della Chiesa e del cristianesimo – e in particolare dall’VIII secolo, divenne evidente la convergenza degli interessi del Regno dei Franchi con quelli del papato. Non solo, i vescovi – esponenti della ricca e potente aristocrazia gallo-romana – vennero nominati capi delle diocesi sulle quali il re aveva controllo diretto. Soprattutto con l’avvento della dinastia carolingia, l’organizzazione amministrativa franca recepì sia la tradizione romana a livello amministrativo-territoriale, sia quella germanica caratterizzata da forti legami personali verticali e orizzontali tra il sovrano, i suoi vassalli e la Chiesa. Il clero, ormai asservito all’Impero sin dal regno di Clodoveo, venne coinvolto nella cancelleria imperiale, in ambito culturale e nel controllo del territorio assegnatogli tramite rapporti vassallatico-beneficiari, inaugurando così un indissolubile rapporto tra potere laico ed ecclesiastico, tra re, vescovi e abati: questi ultimi prestavano obbligatoriamente il cosiddetto servitium regis (controllo amministrativo, militare, politico, religioso-culturale ed economico delle terre, del fisco, della giustizia). Questo sistema proseguì e in un certo senso andò a modificarsi anche con lo smantellamento delle strutture carolingie e soprattutto nell’età ottoniana, ma iniziò a incrinarsi con la dinastia salica (Benedetti, 2015; Cantarella, 2005; Donzelli et alles, 1998; Zorzi, 2016).
Tra il X e l’XI secolo, in particolare con il regno di Enrico III (1039-1056) e il papato di Leone IX (eletto da Enrico III e papa dal 1049 al 1054), le cose iniziarono però a cambiare: da una parte, l’imperatore inaugurò una stagione di riforma, rivendicando il titolo di patricius romanorum (che gli permetteva di intromettersi nell’elezione papale) e imponendo anche a Roma il modello di “Chiesa imperiale”; dall’altra, una serie di riforme interne – sulla scorta di quelle imperiali – rafforzarono il ruolo del papa e lo resero il vero e proprio capo della cristianità romana, portando alla progressiva centralizzazione della Chiesa e all’imposizione di norme più rigorose per i suoi membri. Sin dai carolingi – che agivano in qualità di difensori della Chiesa – era già stata sentita la responsabilità e la necessità di rinnovare i costumi dell’alto clero: infatti, vescovi e abati nonostante la carriera ecclesiastica continuavano a seguire lo stile di vita aristocratico laico, tra politica, guerra, concubine e ricchezza; il basso clero invece rimaneva prevalentemente analfabeta o incolto. Dall’VIII secolo, i primi provvedimenti reali volsero a «restituire prestigio religioso alle autorità ecclesiastiche ed efficacia all’azione pastorale» (Zorzi, 2016), intervenendo sulla formazione culturale del clero e sulla regolamentazione di tutte le comunità monastiche soggette ora alla regola benedettina, riordinando le sedi episcopali divenute centri amministrativo-territoriali, istituendo la decima – destinata tanto al sostentamento del clero, quanto a quello dei più bisognosi – ed estromettendo le donne dall’amministrazione ecclesiastica, sostanzialmente isolandole in comunità monastiche. Definito così l’assetto clericale, il legame tra re e vescovi divenne pertanto inscindibile: i sovrani – anche concedendo privilegi, beni e territori non solo ai laici, ma altresì all’aristocrazia vescovile e monastica – si assicurarono una classe dirigente fedele e preparata, sua vassalla nonché cuore pulsante della cosiddetta “Chiesa imperiale”. Era considerato quindi scontato che fosse esclusiva prerogativa del re prima e dell’Imperatore poi la facoltà di eleggere e nominare il clero, papa compreso; infatti, con il privilegio di Ottone I del 962 – che ribadiva quanto sancito in precedenza da Ludovico il Pio con la Constitutio romana dell’824 – fino al 1058 i papi furono emanazione del volere imperiale e della “sua” Chiesa. Con il X secolo, la spinta riformatrice continuò a farsi sentire: venne nuovamente ribadita la necessità di moralizzare i costumi del clero, e venne sentita quella di tutelare le istituzioni ecclesiastiche dalle pressioni dei laici. Il pontefice era legato e subordinato all’Imperatore, ma era anche in balia delle famiglie romane, soprattutto quella dei Tuscolani, che se ne contendevano la scelta. Si iniziò inoltre a volgere lo sguardo verso nuove esperienze spirituali e moralizzanti, decisamente contrarie alle comuni pratiche di simonia e nicolaismo, e alla ricchezza materiale degli ecclesiastici. Il papato fu abile nel saper cogliere l’opportunità di coordinare le istanze riformatrici, anche con il sostegno dell’Imperatore Enrico III, il quale nel 1049 elesse al soglio pontificio Leone IX, vescovo insediato a Toul dal cugino imperatore Corrado II, padre dello stesso Enrico III. Leone non solo assicurò alla figura del papa l’elezione secondo procedura canonica (al di là di quella imperiale), ma anche il titolo di apostolicus, ovvero unico successore degli apostoli. Diede gran supporto alla spinta riformatrice di Enrico III, portando anche alla «imperializzazione del papato, mediante la quale la Sede romana assorbì dall’Impero molte caratteristiche che ne rilanciarono l’universalità su basi nuove» (D’Acunto, 2020): una nuova classe dirigente riformatrice ma non ancora antimperiale; una nuova cultura documentaria, nata anche dall’itineranza della curia, che portò a un’uniformità formale della produzione documentaria (ora in aumento), e all’organizzazione della prassi cancelleresca mutuata appunto su quella imperiale; una nuova spinta moralizzatrice, anch’essa sulla scorta del rinnovamento di Enrico III, antisimoniaca, antisodomita, antinicolaita. Non va inoltre dimenticato che durante il pontificato leonino ci fu lo scisma greco tra chiesa romana e bizantina nel 1054, nonché lo scontro conclusosi con una momentanea riappacificazione con i Normanni di Roberto il Guiscardo nel sud Italia tra 1053 e 1054, fino all’accordo di Melfi, siglato tra Niccolò II e il Guiscardo, che sancì l’alleanza tra papato e normanni (Benedetti, 2015; Brezzi, 1978; Cantarella, 2005; Cantarella, Tuniz, 1998; Donzelli et alles, 1998; D’Acunto, 2020; Zorzi, 2016).

Morto Leone IX nel 1054, il successore Vittore II (1054-1057) portò avanti le spinte rinnovatrici pontificio-imperiali. Tuttavia, nel 1056 morì Enrico III; il trono passò al figlio di sei anni Enrico IV, affidato inizialmente a Vittore stesso fino alla sua morte l’anno successivo, poi alla madre Agnese. La morte di Enrico III sancì una rottura nel rapporto papa-imperatore. Stefano IX, eletto papa nel 1057, morì nel 1058: l’aristocrazia romana capeggiata dai Tuscolani, trovando nella crisi imperiale un’opportunità, elesse quindi Benedetto X. A Siena, grazie all’intervento di Ildebrando di Soana, si elesse però Niccolò II, vescovo di Firenze, che si diresse verso Roma scortato da Goffredo il Barbuto (parente di Leone IX, fratello di Stefano IX e marito di Beatrice, madre di Matilde di Canossa), con l’intento di scongiurare ogni resistenza e ingerenza da parte della nobiltà romana. Con Nicolò II iniziò pertanto a spianarsi la strada per una certa indipendenza pontificia, con un papato «ormai orientato ad assumere un’azione autonoma nel contesto politico-ecclesiastico italiano» (Golinelli, 1991; Cfr. Brezzi, 1978). Fu questo il momento propizio per agire in vista di un consolidamento della posizione riformatrice, dato che la nobiltà romana e l’Impero erano in crisi: durante il sinodo del 1059, Niccolò II emanò il Decretum de electione papae, di cui ora abbiamo due versioni, una autentica, l’altra detta “guibertista”, postuma e maggiormente “filoimperiale” (D’Acunto, 2020). In sostanza, Niccolò affermò la piena autonomia della Chiesa di Roma nell’elezione del pontefice affidandola ai cardinali vescovi, di fatto estromettendo definitivamente dalla scelta sia la nobiltà romana, sia l’imperatore. Il testo del decreto esplicita infatti «perciò sulla base degli insegnamenti dei nostri predecessori e per l’autorità degli altri santi padri decretiamo e stabiliamo quanto segue: morto il vescovo di questa Chiesa romana universale, in primo luogo i cardinali, discutendo insieme con diligentissima riflessione, si accordino per una nuova elezione. […] Lo scelgano in seno della stessa Chiesa romana» (D’Acunto, 2020). Qualora non fosse stato possibile trovare un candidato idoneo nella cerchia romana, era possibile scovarne un altro in qualsiasi altra Chiesa, purché la scelta non fosse minata da abusi ed ingerenze esterne, anche in accordo con l’Impero. Insomma, «al clero minore e ai laici era riservato l’assenso quando la scelta era già fatta» (Brezzi, 1978). Paradossalmente, nonostante venne confezionato uno strumento ad hoc per regolare l’elezione al soglio pontificio, in occasione dell’elezione dei successivi due pontefici anche i “riformatori” non rispettarono quanto disposto dal decreto da loro stessi stilato (Benedetti, 2015; Brezzi, 1978; Golinelli, 1991; D’Acunto, 2020; Donzelli et alles, 1998).
Morto Niccolò II, nel 1061 venne eletto Alessandro II (Anselmo da Baggio, 1061-1073), aristocratico milanese e patarino, già vescovo di Lucca; tuttavia, non venne in alcun modo coinvolto l’Impero. Conseguentemente, sia la nobiltà romana, sia la Chiesa ambrosiana chiesero alla corte imperiale di intervenire: gli “imperiali” organizzarono il concilio di Basilea, durante il quale – sempre nello stesso anno – venne eletto l’antipapa Onorio II. Iniziò così un periodo politicamente e militarmente turbolento, quello dello scisma del 1061-1064. Alessandro II si rifugiò in un monastero romano, mentre nel 1062, l’arcivescovo di Colonia – favorevole al papa romano – rapì Enrico IV ed estromise sua madre Agnese dalla reggenza relegandola a forza in un convento. Lo scisma si ricompose nel 1063 grazie all’intervento del Barbuto, che aiutò Alessandro II a tornare al soglio lateranense, e con la condanna dell’antipapa imperiale. Morto successivamente anche Alessandro II nel 1073, si aprì quello che è conosciuto come il periodo della Riforma Gregoriana, il più intransigente della lotta per le investiture (Cantarella, 2005; Brezzi, 1978; D’Acunto, 2020; Golinelli, 1991; Cantarella, Tuniz, 1998).
- I protagonisti e lo scontro tra Enrico IV e Gregorio VII
Alla morte di Alessandro II nel 1073 – la cui elezione non era stata effettuata secondo le procedure enumerate nel Decretus di Niccolò II, portando così sia allo scisma tra Papato e Impero e all’elezione dell’antipapa Onorio II – venne eletto Ildebrando di Soana con il nome di Gregorio VII, riformatore convinto, vicino alla curia romana e considerato una sorta di colonna portante nella scelta dei pontefici. Nel frattempo, Enrico IV dovette affrontare diverse difficoltà Oltralpe, dove l’aristocrazia – che sin dall’inizio aveva mal celato la sua avversione al trono – premeva per una ribellione alla decisa politica del sovrano e ai suoi tentativi di riforma (D’Acunto, 2020).
2.1 Enrico IV, 1050-1106
«Egli [Enrico IV] fu un grande personaggio, trovatosi giovanissimo alla guida di un impero in un tempo di profonda crisi e di aspri conflitti. Personaggio ambiguo; con intuizioni geniali – come il giocare d’anticipo a Canossa – e debolezze; abile a galvanizzare i suoi sostenitori, ma non nel mantenere a lungo fedeltà; vincitore di battaglie campali, ma incapace di lunghi assedi; più guerriero che politico […]. Tuttavia Enrico IV […] non si risparmiò nel sostenere il suo ideale di impero, quello che aveva ereditato dal più abile e più fortunato padre» (Golinelli, 1991)

Enrico IV succedette al padre nel 1056 all’età di sei anni, cosicché la reggenza venne inizialmente affidata alla madre, l’imperatrice Agnese. La sua ascesa fu segnata da turbolenze interne e dall’opposizione dei principi tedeschi, tanto che nel 1062 Agnese ed Enrico rimasero vittima di una congiura, che portò la prima a rifugiarsi in un monastero romano, il secondo a Colonia presso il vescovo Annone, personaggio vicino ad Alessandro II, che divenne quindi il nuovo reggente del Sacro Romano Impero. Enrico però dimostrò ben presto di essere un sovrano energico e determinato a consolidare il proprio potere, le proprie prerogative imperiali e il proprio territorio, ormai in balia dell’alta aristocrazia laica ed ecclesiastica tedesca. Infatti, divenuto maggiorenne a quindici anni, prese direttamente in mano il governo e iniziò una politica di rafforzamento del potere imperiale. Dapprima, si concentrò sulla questione Sassone e sulle campagne militari nel nord e nell’est Europa. Si trovò poi a dover affrontare la questione amministrativo-istituzionale del regno. Se i carolingi avevano organizzato una rete di missi dominici per il controllo e la gestione del regno, Ottoni prima e Salii dopo ebbero difficoltà a mantenere un tale apparato. Ne derivò una sostanziale difficoltà di amministrare, controllare e accentrare l’Impero, che causò il progressivo decentramento del potere, ora in mano all’aristocrazia locale. La figura del re fungeva pertanto da fattore integrante di una pluralità di poteri sempre più in opposizione a quello reale e sempre più decisi a detronizzare un sovrano considerato tiranno e inadeguato alla guida dell’Impero. Tuttavia, Enrico IV si inserì appieno nella concezione di regalità del padre e della dinastia dei Salii: il trono, la regalità e il potere ad essa annesso, nonché la simbologia e gli attributi regi – in primis la corona – iniziarono a passare di padre in figlio secondo il «principio della continuità della dinastia salica in quanto dinastia regia» (D’Acunto, 2020) e come «fattore legittimante della regalità» (D’Acunto, 2020); infatti «il successo della concezione transpersonale del potere regio accrebbe l’importanza della corona e degli altri elementi della Staatsymbolik. Mentre ciascuno degli Ottoni aveva avuto la propria corona con la quale veniva sepolto, Enrico III per la prima volta aveva ereditato quella del proprio predecessore» (D’Acunto, 2020). Enrico IV però non si limitò a questo, ma iniziò ad attuare una serie di riforme atte a imporre il proprio potere a livello territoriale, anche attraverso l’esercizio dei poteri pubblici, a dispetto dell’immunità garantita alle signorie locali laiche ed ecclesiastiche: prima di tutto portò l’alta giustizia nelle mani del re in tutto il territorio, di fatto sottraendola ai principi locali; secondariamente, organizzò i beni fiscali su base signorile e non più fondiaria; in ultimo, predispose un nuovo apparato burocratico, favorendo l’ascesa dei ministeriales, una nuova classe dalle umili origini alla quale vennero concessi poteri militari, giudiziari e amministrativi. La politica imperiale originata dalla necessità di maggiore stabilità dell’Impero e la definitiva sottomissione della Sassonia nel 1075 allarmarono i principi tedeschi, che vedevano in essa un pericolo nell’affermazione del loro potere, ormai ben rinsaldato durante il periodo di minorità di Enrico, e un freno alle proprie ambizioni. La conflittualità tra sovrano e aristocrazia crebbe al punto che «lo stesso termine regnum passò ad indicare non più l’unità organica del sovrano e dei principi ma piuttosto l’insieme di questi ultimi contrapposti al sovrano stesso» (D’Acunto, 2020). Ma questo fu solo l’inizio delle difficoltà alle quali l’Imperatore dovette far fronte, poiché da Roma il papa si stava preparando a sferzare un duro colpo al sovrano (Brezzi, 1978; Cantarella, 2005; D’Acunto, 2020; Golinelli, 1991).
Il conflitto con Gregorio VII iniziò nel 1075, a seguito del sinodo quaresimale durante il quale venne deciso che al re – e in generale ai laici – fosse negata ogni ingerenza nell’attribuzione degli episcopati, di fatto imponendosi come loro unico controllore. Nello stesso anno il papa emanò quello che può essere considerato il suo “manifesto rivoluzionario”, il Dictatus Papae, uno strumento politico e giuridico costituito da ventisette proposizioni che affermavano privilegi, prerogative e poteri del pontefice, nonché la supremazia della Chiesa di Roma sulla societas christiana, sovrani compresi, dichiarando nullo qualsiasi atto di investitura compiuto da un laico. Enrico, rifiutando di sottomettersi a queste disposizioni, convocò un sinodo a Worms nel gennaio del 1076, dove supportato dai vescovi tedeschi e lombardi, depose Gregorio VII, la cui elezione era avvenuta irregolarmente, e ribadì la propria funzione di capo della Chiesa, degli episcopati e della cristianità. Enrico si spinse oltre, nominando un nuovo pontefice. Alla decisa opposizione di Enrico corrispose un altrettanto determinata reazione da parte del papa, che rispose scomunicandolo – insieme ai vescovi suoi sostenitori – e sciogliendo i suoi sudditi dall’obbligo di fedeltà nei suoi confronti. La scomunica ebbe effetti devastanti per Enrico IV. La perdita di legittimità lo isolò politicamente, facendogli perdere anche il sostegno dell’episcopato, e incoraggiò la ribellione dei principi tedeschi: il terrore della scomunica papale, infatti, fece allontanare anche chi lo aveva precedentemente appoggiato nella lotta a Gregorio VII, dato che le preoccupazioni dei vescovi in qualità di autorità civili coincidevano con quelle delle signorie tedesche. L’alta aristocrazia – ormai sciolta da ogni vincolo di fedeltà dovuto al sovrano scomunicato – organizzò una nuova elezione regia. Nel tentativo di recuperare la propria autorità, Enrico giurò di riappacificarsi con il pontefice romano e si recò a Canossa nel gennaio del 1077, dove scalzo e spogliatosi da tutte le insegne imperiali, chiese perdono a Gregorio VII. Questo atto di penitenza e umiliazione pubblica portò alla revoca dell’anatema, ma non risolse definitivamente il conflitto (Brezzi, 1978; D’Acunto, 2020; Donzelli et alles, 1998).

Nonostante la momentanea riconciliazione, una mossa astuta da parte di Enrico che essendo andato incontro al pontefice lo aveva sostanzialmente obbligato ad accettare il suo pentimento, il conflitto riprese con maggiore intensità. Enrico IV continuò a lottare per affermare il proprio controllo sulle nomine ecclesiastiche e a mantenere la propria autorità contro le forze papali e i suoi oppositori interni. La revoca della scomunica non aveva reintegrato Enrico nel regno; quest’ultimo era stato solo riammesso in seno alla Chiesa e nella comunità dei fedeli; pertanto, i principi tedeschi continuavano ad opporglisi, tanto che nel 1077 l’alta nobilità laica ed ecclesiastica elesse al trono tedesco “l’antire” Rodolfo di Svevia, che governò fino alla sua morte in battaglia nel 1080. Gregorio VII rimase inizialmente neutrale, evitando di professarsi a favore dell’uno o dell’altro sovrano, finché in occasione del sinodo del 1080 riconobbe Rodolfo e scomunicò per la seconda volta Enrico, «reo di persistere nella sua condotta immorale e nei suoi sistemi di governo contrari alle direttive riformate» (Brezzi, 1978), in sostanza di non aver mantenuto fede agli impegni concordati a Canossa nel 1077. La risposta del sovrano non tardò ad arrivare e venne convocato un sinodo a Bressanone nel 1080: alla presenza del sovrano, dei vescovi italiani, borgognoni e tedeschi fedeli a Enrico, e soprattutto del cardinale Ugo Candido – che in rappresentanza del conclave cardinalizio legittimava l’elezione del pontefice in ottemperanza del Decretum del 1059 – venne deposto Gregorio VII ed eletto Guiberto di Ravenna con il nome Clemente III. Nel 1084, il neoeletto fu scortato a Roma dal sovrano, il quale cinse d’assedio la città, vi penetrò insediando l’antipapa e si fece finalmente incoronare imperatore: fu questo l’inizio dello scisma guibertista. Gregorio VII invece riparò a Salerno con l’aiuto di Roberto il Guiscardo, di fatto costretto all’esilio e nelle mani dei suoi alleati nel Meridione; i normanni intanto entrarono a Roma e la saccheggiarono. Clemente e il suo partito mantennero comunque il controllo della città ben oltre la morte di Gregorio VII che, isolato e sconfitto, morì in esilio nel 1085 (Brezzi, 1978; D’Acunto, 2020; Golinelli, 1991; Donzelli et alles, 1998).

L’ultimo periodo del regno di Enrico IV fu caratterizzato da continue tensioni con i successori di Gregorio VII e da problemi interni al Sacro Romano Impero. Nonostante fosse riuscito a mantenere il trono, la sua autorità fu costantemente messa in discussione e le lotte interne indebolirono l’impero. Dopo aver subito la ribellione del figlio Enrico, che approfittò dell’ennesimo scontro del padre con i Sassoni e delle nuove alleanze intessute con la nobiltà tedesca, durante la dieta di Magonza del 1105, l’imperatore venne imprigionato, spogliato delle insegne imperiali e obbligato a giurare fedeltà al nuovo re; dovette altresì cedere il governo al figlio che lo succedette con il nome di Enrico V e che da subito si sottomise al pontefice. Enrico IV riuscì poi a scappare presso il vescovo di Liegi nella speranza di trovare sostegno nei suoi consueti sostenitori; tuttavia, non riuscì a portare a termine il suo piano e morì nell’agosto del 1106. Lasciò al suo “erede” un impero ancora frammentato e una questione irrisolta, che sarebbe stata affrontata dal suo successore durante il Concordato di Worms nel 1122 (Brezzi, 1978; Cantarella, 2005; Golinelli, 1991; Donzelli et alles, 1998).
2.2 Gregorio VII, 1073-1085
«Un grande papa del secolo XI, Gregorio VII, è divenuto famoso per il suo conflitto con l’impero e con Enrico IV. Ma la sua operazione più riuscita fu un’altra, quella di coronare con successo la “riforma” della Chiesa, trasformandola in una Chiesa accentrata e monarchica, con la dipendenza da Roma di tutti i vescovi» (Sergi, 1998)
Ildebrando di Soana, poi Gregorio VII, fu eletto papa nel 1073. Non si è certi delle notizie relative alla sua prima infanzia; tuttavia, potrebbe essere nato in una famiglia di modesta estrazione sociale della Toscana. Ildebrando giunse a Roma ancora giovanissimo e beneficiò dell’educazione impartita dalla scuola del palazzo papale. Entrò ben presto nell’ordine monastico di Cluny, divenne successivamente cappellano di Gregorio VI e iniziò a svolgere diversi incarichi, anche diplomatici perfino presso la corte imperiale di Enrico III. Tornò successivamente a Cluny e nuovamente a Roma al seguito di Leone IX, divenendo man mano uno dei più influenti consiglieri papali prima della sua elezione al soglio pontificio. Ildebrando fu un uomo colto, attento, fondamentale nella Curia romana e fermo sostenitore sia della temperie riformatrice, sia del primato della Chiesa romana, tanto che papa Stefano IX si fece promettere in punto di morte che si sarebbe aspettato Ildebrando, momentaneamente in Germania, per procedere con l’elezione del suo successore. Promessa disattesa dato che a Roma venne immediatamente eletto Benedetto X nel 1058 su pressione delle famiglie eminenti romane. Ildebrando di contro riuscì a dirigere l’elezione di Niccolò II a Siena; non solo, alla guida dei riformatori, fu con tutta probabilità responsabile anche della scelta di Alessandro II nel 1061. La sua visione era quella di una Chiesa universale, libera dalle influenze secolari e in grado di affermare la propria supremazia spirituale e temporale su tutta la societas christiana. Il suo pontificato fu segnato da una serie di provvedimenti volti a rafforzare il controllo della Chiesa sui suoi membri e a liberarla dalle influenze laiche (Brezzi, 1978; D’Acunto, 2020; Golinelli, 1991). La Riforma gregoriana, la cui necessità iniziò a divenire pressante sin dal pontificato di Leone IX, «assunse un valore sociale – cioè, un’importanza storica – invase ogni attività pubblica, capovolse ordinamenti ormai in funzione da secoli, sovvertì istituzioni, colpì anche i più alti rappresentanti del potere civile e sollevò gli entusiasmi delle folle più umili. […] con la separazione delle funzioni ecclesiastiche da quelle politiche si formò una gerarchia sacerdotale ben differenziata e saldamente organizzata» (Brezzi, 1978).
Alla morte di Alessandro II nel 1073, Ildebrando di Soana salì al soglio pontificio con il nome di Gregorio VII, sebbene ancora una volta – come si è visto – rimase disatteso quanto esplicitato nel Decretum de electione papae di Niccolò II (D’Acunto, 2020; Golinelli, 1991). All’indomani della sua elezione, il pontefice fece pervenire a Enrico IV messaggi di obbedienza e sottomissione: «il re-imperatore secondo Gregorio VII non era affatto il vertice supremo della cristianità. Era sì il capo dei laici, ma restava pur sempre un laico […]. Il papa dettava i tempi e i modi dell’incoronazione imperiale; il potere regio riguardava i laici e non poteva intromettersi nel governo della Chiesa; regno e sacerdozio dovevano procedere in concordia e armonia, ma spettava al papa stabilire le condizioni per le quali tale unità di intenti era possibile e realizzabile» (D’Acunto, 2020).

Uno dei momenti chiave del suo pontificato fu l’emanazione del Dictatus Papae nel 1075, un documento che enumerava ventisette proposizioni riguardanti l’autorità del papa. Il dictatus rappresentava una sfida diretta all’autorità imperiale e segnò l’inizio di un conflitto aperto con Enrico IV. La fonte non è datata ed è stata riportata nel Registro (una raccolta di lettere, documenti e scritti che il pontefice riteneva degni di essere copiati); tradizionalmente, lo si fa risalire al 1075, data del sinodo quaresimale. Tali proposizioni fungono da pilastro giuridico di privilegi, prerogative, diritti e funzioni del papa e della Chiesa romana, nonché da strumento di lotta politica contro gli oppositori dell’ordine naturale voluto da Dio. Tra le più rilevanti vi erano quelle relative alla predominanza della Chiesa romana sulle altre, che divenne di fatto termine di paragone per fissare l’ortodossia cristiana; al monopolio del controllo della fede e dell’eredità di Pietro; alla prerogativa che solo il papa poteva nominare e deporre i vescovi e imperatori, in qualità di unica autorità universale. In questo modo, si limitava l’ingerenza laica nelle questioni spirituali e giuridiche e si imponeva una prassi giudiziario-canonica: il papa era unico detentore delle prerogative enumerate e unica fonte del diritto (D’Acunto, 2020; Mordek, 1974). La lotta per le investiture rappresentò dunque il culmine della politica riformatrice di Gregorio VII. Determinato a liberare la Chiesa dalle ingerenze laiche e data la ribellione dimostrata dal sovrano ai dettami pontifici, Gregorio VII scomunicò Enrico IV nel 1076 sciogliendo i suoi sudditi dall’obbligo di fedeltà a lui dovuto. Questo atto provocò la crisi della legittimità reale e incoraggiò la ribellione dei principi tedeschi. L’episodio più famoso di questo conflitto fu sicuramente l’umiliazione di Canossa nel gennaio del 1077, quando il sovrano si recò alle porte del castello di Matilde di Canossa per chiedere perdono a Gregorio VII. Dopo tre giorni di attesa al freddo, Enrico fu infine ricevuto dal papa, che lo riammise nella comunità dei fedeli. Questo evento, sebbene simbolicamente importante, non risolse il conflitto, che riprese con rinnovata intensità negli anni successivi. Gregorio VII continuò a sostenere la sua visione di una Chiesa indipendente e autoritaria fino alla fine del suo pontificato. Nonostante fu costretto all’esilio da Enrico IV nel 1084, il papa rimase fermo nei suoi principi e continuò a lavorare per la riforma della Chiesa. Morì in esilio a Salerno nel 1085, ma la sua eredità perdurò, influenzando profondamente la struttura e l’autorità della Chiesa cattolica nei secoli successivi (Brezzi, 1978; D’Acunto, 2020; Golinelli, 1991).
2.3 Canossa, 1077
La scomunica di Enrico IV lo obbligò a uno dei fatti più conosciuti della storia medievale: la sua umiliazione a Canossa. Ma quanto il sovrano calibrò le sue mosse per aver la meglio sul papa antagonista? Come si è visto, il re era con le spalle al muro: da una parte la scomunica fu un duro colpo all’autorità regia; dall’altra si trovò isolato e sostanzialmente in balia delle mire e delle ribellioni dei principi d’Oltralpe. Minacciato dall’elezione di un nuovo re, Enrico IV si impegnò per riappacificarsi con il papa e chiedere l’annullamento della scomunica che lo colpì nel 1076. Una prima assemblea – durante la quale il sovrano promise di ricomporre la faida con il pontefice – venne organizzata a Tribur nell’ottobre del 1076; una seconda invece era in procinto di svolgersi ad Augusta nel gennaio del 1077 e Gregorio VII, che aveva tutte le intenzioni di presiederla in persona, si mise in viaggio da Roma verso la Germania scortato dalle truppe matildine. L’accordo era che se Enrico si fosse sottomesso, allora non sarebbe stato necessario scegliere un nuovo re e si sarebbe ricomposta la frattura non solo con la Chiesa di Roma, ma anche con i principi tedeschi. Enrico decise di giocare d’anticipo: sapendo del viaggio intrapreso dal papa, non ne aspettò l’arrivo in Germania, ma gli andò incontro per impedirgli di raggiungere i suoi nemici a corte. Gregorio d’altro canto, ormai a Mantova, venendo a conoscenza della partenza di Enrico, cercò protezione dall’alleata canossiana (di cui si vociferava fosse l’amante dello stesso papa). Nel gennaio del 1077, il re con il suo seguito armato giunse alle porte del castello matildino sull’appennino reggiano, dove in quel momento erano presenti – oltre ovviamente alla contessa Matilde di Canossa – la contessa Adelaide di Susa, l’abate Ugo di Cluny – padre spirituale dello stesso Enrico e suo intercessore presso Gregorio VII –, esponenti dell’alta nobiltà italica e il papa, che in quel frangente vantava di un’assoluta posizione di vantaggio. Abbiamo diversi dettagli dell’accaduto, poiché il santo padre tenne una fitta corrispondenza con l’aristocrazia tedesca riferendo quanto stesse accadendo. Gregorio infatti riporta che Enrico «rimase tre giorni davanti al portone del castello, dopo essersi spogliato di tutte le insegne regali, in misero abbigliamento, a piedi nudi e vestito di lana. Qui non smise di supplicare, molto piangendo e impetrando l’aiuto e il conforto della misericordia apostolica, fino a quando tutti i presenti […] presero a intercedere in suo favore […] meravigliandosi della nostra inconsueta durezza e del nostro atteggiamento irremovibile. […] spinti a cedere sia dall’insistente manifestazione del suo rimorso che dalle suppliche di tutti i presenti, lo abbiamo infine liberato dal vincolo dell’anatema e riammesso alla grazia della comunione […] dopo aver ottenuto da lui tutte le assicurazioni» (D’Acunto, 2020). Enrico con la sua sottomissione aveva pertanto dimostrato le tendenze tiranniche di Gregorio VII, il quale non ebbe alcuna scelta se non smorzare sul nascere sentimenti a lui contrari e acconsentire alla riammissione del sovrano penitente nella Chiesa, graziandolo. Il re aveva giocato d’astuzia, di fatto obbligando con la sua umiliazione ad essere sciolto dalla scomunica: «il ribelle, trasformandosi in penitente, aveva costretto l’offeso vincitore a concedergli il perdono, pena la sua metamorfosi in un impietoso tiranno» (D’Acunto, 2020). La riconciliazione fu pregna di elementi simbolico-politici e istituzionali: dal bacio rappacificatore, alla messa al banchetto distensivo. Matilde di Canossa, Adelaide di Susa, Ugo di Cluny furono testimoni e garanti degli accordi tra le parti e degli impegni presi da Enrico IV. In ogni caso, quest’ultimo non fu certo del tutto tutelato dall’umiliazione e dalla ricomposizione della disputa, che non aveva comunque soddisfatto e placato gli oppositori sassoni e tedeschi, che successivamente elessero Rodolfo di Svevia, in barba al re e al papa (Brezzi, 1978; Cantarella, 2005; D’Acunto, 2020; Golinelli, 1991).

- Papi, antipapi e re all’indomani della morte di Gregorio VII ed Enrico IV: Clemente III, Urbano II, Pasquale II, e un nuovo imperatore, Enrico V
Dopo la seconda scomunica di Enrico IV, nel 1080 questi elesse l’antipapa Clemente III (la cui scelta del nome si pose in continuità con Clemente II, eletto nel 1046 da Enrico III) e scomunicò a sua volta Gregorio VII, dando avvio allo scisma guibertista. Le motivazioni del contro-anatema fondavano sul carattere eversivo e tirannico del pontefice romano, reo di aver sovvertito l’ordinamento ecclesiastico e imperiale, e di aver seminato discordia in seno alla Chiesa e alla comunità cristiana. Nel 1084, l’antipapa, che godeva di ampio consenso nel Regnum Italiae, si insediò a Roma all’indomani dell’assedio della città da parte di Enrico, il quale venne inoltre eletto imperatore. L’Urbe venne poi saccheggiata dai normanni, mentre Gregorio VII trovò rifugio a Salerno, dove morì in esilio l’anno successivo. Clemente invece riuscì a rimanere al soglio pontificio fino alla morte nel 1100, dopo ben vent’anni di (anti)pontificato. In ogni caso, alla morte di Gregorio VII, i riformatori dopo un anno di dibattiti elessero Vittore III, ovvero l’abate Desiderio di Montecassino, che morì già nel 1087 indicando però nella figura di Oddone, vescovo di Ostia, il suo successore. Quest’ultimo venne eletto nel 1088 con il nome di Urbano II, mentre Clemente era ancora a Roma. Il neoeletto pontefice rinsaldò pertanto l’alleanza con i normanni nel Meridione, da cui partì la controffensiva pontificia. Con il sinodo di Melfi del 1089, il papa rinsaldò la propria posizione riformatrice, ribadendo i principi cardine della Riforma gregoriana, tra cui lotta alla simonia, al nicolaismo e alle investiture laiche, introducendo inoltre la cosiddetta tregua di Dio in Italia e in Francia, cioè il divieto di combattere durante l’anno liturgico, e inaugurando il processo di latinizzazione delle chiese che nel Sud Italia ancora utilizzavano il rito greco; infine, durante il concilio di Piacenza del 1095, vennero dichiarate nulle tutte le ordinazioni effettuate da vescovi scismatici o simoniaci, a patto che l’ordinante conoscesse la propria condizione al momento del conferimento, e si cercò di riammettere e riarruolare il clero “imperiale”, ma anche le nuove esperienze monastiche nate all’ombra della Riforma, come quella dei vallombrosani. Nonostante una continuità con il progetto gregoriano, Urbano II tentò però una normalizzazione della riforma, smorzandone le spinte più radicali, soprattutto al fine di facilitare il governo in un contesto ancora ben lungi da essere risolto e riappacificato e di sopperire al fatto che l’alto clero italico e tedesco era in questo momento in maggioranza filo guibertista. Gli sforzi profusi da Urbano II diedero i suoi frutti nel 1094, quando riuscì a rimpossessarsi di Roma. Nel frattempo, Matilde di Canossa aveva aiutato il figlio di Enrico IV nella sua ribellione contro il padre, il quale venne incoronato re d’Italia e quindi imperatore nel 1093 (Brezzi, 1978; Cantarella, 2005; D’Acunto, 2020).

Ma il pontificato di Urbano II ebbe fine nel 1099 con la sua morte; gli successe Pasquale II, il papa del “compromesso” di Sutri. Egli fu un pontefice di cesura nella storia della lotta per le investiture; colui che tentò di voltare pagina e di risolvere pragmaticamente la questione. Fu inoltre il primo papa dopo un lungo tempo di instabilità del soglio pontificio a mantenere la sua posizione strategico-logistica a Roma. Questa stabilità gli consentì anche di trarre vantaggio dagli spostamenti, portando la percezione dell’universalità della Chiesa romana anche altrove rispetto all’Urbe, e gli permise di non doversi preoccupare delle sfide antipapali che Enrico avrebbe posto sul suo cammino, che dopo Clemente III non furono più capaci di essere competitive mancando di consensi duraturi in ambito laico ed ecclesiastico. Pasquale fu, inoltre, il primo papa a regnare su Gerusalemme in seguito alla crociata del 1099. Come ben spiega Nicolangelo D’Acunto «con l’avvento di Pasquale II […] il problema fondamentale non era più quello di combattere la lotta per le investiture, ma come uscirne. […] L’oggetto stesso della contesa era ormai profondamente mutato» (D’Acunto, 2020). Era pertanto necessaria una composizione della lotta: papa e imperatore – che raggiunse Roma con il suo esercito – si accordarono nel 1111 con il Concordato di Sutri, prima grande apertura tra le due parti e compromesso che faciliterà la risoluzione di qualche anno più tardi, il Concordato di Worms. In sostanza, l’accordo di Sutri prevedeva che i regalia – diritti pubblici del re, conferiti tramite investitura – erano di esclusiva pertinenza regia, ma potevano essere concessi anche agli ecclesiastici, affinché grazie a questi benefici e privilegi si ribadisse la grandezza (anche materiale) della Chiesa; solo a seguito dell’investitura regia, i prelati sarebbero stati consacrati dall’arcivescovo; alla morte dell’investito i regalia sarebbe ritornati al sovrano, mentre i beni e i patrimoni sarebbero rimasti alla Chiesa. Enrico V venne quindi incoronato imperatore, ma Roma insorse contro il sovrano che fu costretto a spostarsi in Sabina, anche se in poco tempo le schermaglie si ricomposero. Successivamente, Matilde di Canossa morì nel 1115 e Pasquale II nel 1118. Enrico dovette occuparsi dell’eredità della contessa emiliana, concedendo a nuovi signori locali autonomia e privilegi; nel frattempo, venne eletto papa Callisto II ed Enrico tentò il colpo di mano eleggendo a sua volta l’antipapa Gelasio II, la cui influenza fu irrisoria, dato che già nel 1120 Callisto era già rientrato a Roma. Iniziarono così le trattive tra Papato e Impero, le quali sfociarono nel 1122 nel concordato di Worms, il primo – oltre a quello di Sutri – nella storia ormai millenaria della Chiesa e definitiva fine della lotta per le investiture. Callisto II concesse ad Enrico V le elezioni dei vescovi e degli abati del regno (Benedetti, 2015; Brezzi, 1978; D’Acunto, 2020): «esso [Callisto II], per il regno teutonico, riconosceva una presenza non secondaria del re o dei suoi delegati nelle elezioni vescovili, pur garantendo che le procedure avvenissero nel rispetto dei canoni, e ribadiva i legami temporali degli eletti nei confronti del re. Nei “regni” di Borgogna e d’Italia, facendo prevalere la consacrazione religiosa rispetto alla concessione dei regalia» (Merlo, 2018).
Conclusione
La lotta per le investiture si protrasse dal 1075 al 1122 e rappresentò uno dei conflitti più significativi e complessi della storia medievale. Lo scontro tra papato e impero non fu solo una disputa sulla nomina dei vescovi, ma un confronto tra due visioni del potere e dell’autorità all’interno della cristianità. Il Concordato di Worms del 1122, che sancì un compromesso tra le due parti, segnò la fine formale della lotta per le investiture. Secondo l’accordo, l’imperatore rinunciava al diritto di investitura spirituale, ma conservava un ruolo nella nomina dei vescovi attraverso l’investitura temporale. Questo compromesso rappresentava una vittoria diplomatica per entrambe le parti, ma lasciava irrisolte molte delle questioni di fondo che avevano alimentato il conflitto (D’Acunto, 2020).
Da una parte, per il papato la lotta per le investiture contribuì a rafforzare la centralizzazione della Chiesa e a definire il primato del pontefice su tutte le altre autorità spirituali e temporali. La Riforma Gregoriana ebbe un impatto duraturo sulla struttura e sull’organizzazione della Chiesa cattolica, portando alla nascita di un papato monarchico e centralizzato che avrebbe influenzato profondamente la storia europea nei secoli successivi. Da quel momento in poi, la curia papale si configurò come vero e proprio centro del potere ierocratico, definendo – anche a livello giuridico, simbolico e politico – strumenti e interventi volti al controllo di ogni aspetto della vita della societas christiana (Benedetti, 2015). Dall’altra, per l’Impero il conflitto segnò un’importante tappa nella lotta per il controllo delle risorse spirituali e temporali. Nonostante le difficoltà incontrate, Enrico V e i suoi successori riuscirono a mantenere una certa influenza sulle nomine ecclesiastiche, anche se dovettero accettare la crescente autonomia del papato (D’Acunto, 2020).
La lotta per le investiture evidenziò pertanto le tensioni intrinseche tra il potere laico e quello religioso e contribuì a plasmare le future relazioni tra Chiesa e Stato. La disputa tra Enrico IV e Gregorio VII non fu solo un conflitto tra due personalità carismatiche, ma un confronto tra due istituzioni che cercavano di definire i propri ruoli e le proprie prerogative in un mondo in rapido cambiamento. Le conseguenze di questo conflitto infatti contribuirono a modellare il panorama politico, religioso e culturale dell’Europa medievale e definirono i rapporti tra Chiesa e Stato. La determinazione di Gregorio VII a riformare la Chiesa e la resistenza di Enrico IV a cedere il controllo delle nomine ecclesiastiche riflettono tuttora la complessità e l’importanza di questo intricato periodo storico, la cui eco continua a risuonare ancora oggi.

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico
Federica Fornasiero è medievista di formazione, laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano e diplomata alla scuola APD dell’Archivio di Stato di Milano. Ad ora è dottoranda presso l’Università degli Studi di Bergamo, con un progetto sull’emigrazione italiana nel XIX secolo. I suoi interessi principali sono la storia sociale, economica e di genere, ma non disdegna anche la storia delle chiese e delle eresie medievali.
Bibliografia
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Immagine di copertina: Enrico IV a Canossa, P. Aldi, 1885. Duomo di Pitigliano (fonte: autore, Sailko; licenza, CC BY 3.0. Immagine modificata)
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