PATARINI E PATARIA: LE RIVOLTE RELIGIOSE NELLA MILANO DELL’XI SECOLO

di Federica Fornasiero

«Sostenitori e detrattori del movimento religioso che fu nominato “pataria” sono concordi nel riconoscere che esso sconvolse tutta la città […]. La pataria fu un movimento, sorto spontaneamente sulla predicazione  di un sacerdote di nome Arialdo, e avente come obiettivo la lotta contro la corruzione del clero per l’instaurazione di una Chiesa pura e fedele al movimento evangelico»

(Golinelli, 1998)

Introduzione: le origini della pataria

La rivolta dei movimenti popolari riformatori detti “patarini” – nati con le rivendicazioni di Arialdo, verso la seconda metà dell’XI secolo, e diffusisi poi in buona parte della Lombardia storica (1056-1075 circa) – trasse la sua origine nell’opposizione al clero simoniaco (dedito alla compravendita di cariche, funzioni e beni religiosi e spirituali) (Treccani.it, nd; Golinelli, 1998; Lucioni, 1990) e nicolaita (che praticava il concubinato) (Treccani.it, 2010; Golinelli, 1998); si volle così riportare la Chiesa nell’alveo degli originari insegnamenti di Cristo: povertà, condivisione dei beni materiali, spiritualità e rigore morale, rinuncia al potere. I patarini negarono inoltre la validità dei sacramenti amministrati dal clero da loro considerato eretico e indegno in quanto peccatore, simoniaco e nicolaita: in questo modo, la legittimità e la sacralità delle consacrazioni derivavano dalla statura morale degli officianti. Insomma, una ferma presa di posizione che, se dapprima li vide inseriti nell’ortodossia, infine costò loro l’accusa di eresia. Non è certa quale sia l’etimologia dei termini “pataria” e “patarini”; si pensa facesse riferimento, in senso dispregiativo, a lavori modesti e spesso marginali – come, ad esempio, i raccoglitori di panni usati, gli “straccioni” – oppure alla Passione di Cristo (Cardini, Montesano, 2005; Del Col, 2006; Golinelli, 1998; Merlo, 2011; Violante, 1965).

Miniatura dal Decretum di Graziano
Graziano, Decretum, miniatura: Abate ritratto mentre compie simonia, XII secolo, Douai – BM – ms. 590, f. 59v. (fonte: culture.gouv.fr; licenza CC0)

Questa temperie socio-religiosa andò diffondendosi in un momento in cui si stava già tentando di riformare la Chiesa (Treccani.it, 2011; Golinelli, 1998; Merlo, 2018), sia a livello morale, sia a livello ecclesiastico, svincolandola soprattutto dal controllo e dall’ingerenza amministrativa dei laici a favore di una maggiore autonomia sulle questioni propriamente deputate al clero, gerarchicamente sottoposto al papa. Siamo nella seconda metà dell’XI secolo, quando l’abbazia di Cluny, supportata da vescovi, abati e papi “riformatori”, spinse per un rinnovamento in seno all’istituzione. Infatti, inizialmente questi ultimi assicurarono il loro appoggio alle istanze patarine, attirati dalla prospettiva di un seguito anche dal basso; tuttavia, il loro originario sostegno si fondava su un malinteso: i patarini basavano le proprie idee su un ritorno alla Chiesa delle origini descritta negli Atti degli Apostoli, fondata per altro sulla povertà evangelica ad imitatio Christi; i riformatori – sebbene convinti che fosse necessario un maggior rigore – non avevano invece alcuna intenzione di rinunciare alle proprie prerogative, al proprio status e alle proprie gerarchie, rimanendo ben saldi nella convinzione che la Chiesa dovesse essere guidata e amministrata dagli ecclesiastici, superiori moralmente e spiritualmente anche alle istituzioni laiche. Una volta che il clero riformato riuscì ad imporsi, i patarini persero la speranza di riuscire nei propri intenti, poiché si sentirono traditi da chi li aveva dapprima appoggiati: intensificarono pertanto la propria attività evangelica, finché con la morte dei suoi capi, il movimento andò via via ridimensionandosi, da una parte venendo assorbito dalla riforma gregoriana, dall’altra sfociando in nuovi tentativi riformatori intransigenti, che furono poi condannati come eretici (si pensi, per esempio, alla predicazione di Arnaldo da Brescia nel XII secolo, episodio finale dell’esperienza patarina) (Cardini, Montesano, 2005; Lucioni, 1990; Merlo, 2018; Merlo, 2011; Violante, 1965). «Una volta definita l’ortodossia, d’altronde, l’eterodossia ne divenne una costante e inevitabile compagna. Tra IV e XII secolo i concili individuarono nella Chiesa latina il continuo avvicendarsi di forme ereticali […]. Andavano intanto affermandosi gradualmente, all’interno di essa, autorità e potere del vescovo di Roma, il papa. Il compito, specifico dei vescovi, d’individuare i gruppi ereticali e d’indicarli ai poteri laici affinché essi fossero perseguiti fu pertanto gradualmente accentrato nelle mani della Curia romana, che ne gestì modi e strumenti» (Cardini, Montesano, 2005; Violante, 1965).

Incisione della Commedia di Doré
Gustave Doré, La bolgia dei simoniaci, Canto XIX (fonte: Karl Hahn – Pantheon Books edition of Divine Comedy; licenza CC0)
  1. L’antefatto

Nel 1045, l’arcivescovo di Milano Ariberto da Intimiano morì. L’assemblea cittadina, come di consueto, avrebbe dovuto scegliere un successore tra l’aristocrazia urbana, il quale avrebbe dovuto essere poi confermato dall’Imperatore. Tuttavia, vennero avanzati non uno, ma ben quattro nomi da sottoporre al sovrano, circoscrivendogli così la possibilità di scegliere esclusivamente tra candidati segnalati. Enrico III, però, si rifiutò di selezionare un prelato nella rosa propostagli e decise invece di eleggere Guido da Velate, nobile e chierico del contado (Golinelli, 1998). In questi avvenimenti si possono riconoscere due importanti elementi: in primis, l’elezione dell’arcivescovo era per Milano un evento fondamentale a livello politico, sociale ed economico; secondariamente, la scelta e la presa di posizione di Enrico III furono sintomatiche della volontà imperiale di limitare il potere e l’ingerenza dell’aristocrazia milanese, prediligendo infatti un ecclesiastico estraneo alla nobiltà capitaneale della città, tentando così di ridimensionarne l’influenza. In questo modo, inoltre, il sovrano cercò di evitare che il presule divenisse – come solitamente accadeva – il fulcro attorno al quale gravitassero i maggiorenti milanesi. All’elezione dell’arcivescovo si oppose la nobiltà cittadina, mentre il popolo parve essere soddisfatto della scelta compiuta da Enrico III. Il dissenso nei confronti di Guido da Velate non tardò a manifestarsi, fino ad arrivare all’accusa di simonia nei suoi confronti, denuncia che non sortì però gli effetti desiderati. Anzi, in quegli anni, grazie anche all’introduzione della Festa dell’esaltazione della Croce, si assistette a un rinnovato fervore nei confronti della reliquia, del Sepolcro e della Passione di Cristo, anche in concomitanza con i pellegrinaggi verso Gerusalemme. Queste pulsioni religiose e l’esigenza di un più intenso spiritualismo troveranno poi terreno fertile nel fenomeno della pataria, nonostante l’arcivescovo non appoggiasse il movimento riformatore e rimase ancorato alla tradizione clericale precedente (Golinelli, 1998; Lucioni, 1990; Schiavi, 2011; Violante, 1965).

Milano iniziò a spingere per un radicale cambiamento clericale-religioso, a partire non solo dalla predicazione di Arialdo, ma anche dalle suggestioni di Anselmo da Baggio (Golinelli, 1998) e Landolfo Cotta (Golinelli, 1998), entrambi esclusi dall’elezione al soglio arcivescovile. Inoltre, alla sua morte nel 1056, Enrico III lasciò un vuoto di potere, dal quale Milano cercò immediatamente di trarre vantaggio per aumentare la propria autonomia dall’Impero (a questo punto, Guido da Velate perse il suo più importante sostenitore); Arialdo, nel frattempo, si spostò dalle campagne varesine alla città ambrosiana. In questo momento, tra il 1056 e il 1057, nacque “formalmente” il movimento della Pataria milanese, che si scagliò duramente sia contro la simonia e il nicolaismo, sia contro la corruzione e le aspirazioni al potere del clero maggiore, anche attraverso la violenza e la lotta armata (Golinelli, 1998; Ferrai, 1832).

2. La predicazione di Arialdo (1057-1066)

Come si è precedentemente accennato, i comportamenti “peccaminosi” e opportunisti degli ecclesiastici avevano gradualmente scoraggiato il popolo e il basso clero. Da questo sentimento prese avvio la predicazione del diacono Arialdo da Cucciago, dapprima nella pieve di Varese, poi a Milano dal 1057 (Golinelli, 1998). Quest’ultimo esortava i prelati a confessare e a pentirsi delle proprie colpe, cercando di riportarli in seno alla Chiesa delle origini e agli insegnamenti del Vangelo, nonché spingendoli ad abbracciare uno stile di vita non solo più casto, ma anche molto più affine alla povertà apostolico-cristiana. La sua predicazione venne accolta con favore soprattutto dagli strati medio-bassi della popolazione – specialmente piccoli proprietari e contadini – ormai stufa dello strapotere e dell’ostentazione di opulenza del clero maggiore. Per farla breve, Arialdo pretendeva che vi fosse corrispondenza tra insegnamento apostolico e stile di vita delle gerarchie ecclesiastiche, cosicché potessero dare il buon esempio e rimanere degni di poter predicare e somministrare i sacramenti; ma dall’altra parte – che si sentì non solo punta nel vivo, ma addirittura minacciata – ottenne solo un serrato rifiuto, tanto da indurlo ad abbandonare il contado per spostarsi nella più “fertile” Milano nel 1057, città in cui il concubinato (nozze, convivenza e rapporti sessuali da parte del clero) non era solo praticato, ma anche tollerato e diffuso. Il popolo meneghino non tardò a manifestare il proprio consenso ad Arialdo; anche tra gli “insospettabili” – come per esempio Landolfo, chierico ordinario proveniente da una famiglia capitaneale, e Nazario, potente monetiere – si iniziò a manifestare interesse verso la predicazione del diacono, i cui seguaci cominciarono ad essere conosciuti come “patarini”. Questi ultimi iniziarono ad astenersi dai sacramenti officiati dal clero indegno, che fu obbligato ad abbracciare il cambiamento (rigore morale e spirituale, castità), pena la perdita dell’officio, e dei benefici connessi, nonché gravi sanzioni, atti vandalici e angherie. La situazione era quanto mai tesa: scoppiarono infatti tumulti in città, cosicché il clero milanese interpellò il papa, affinché si potesse porre fine alle pretese degli “agitatori”. Stefano IX ordinò a Guido da Velate di convocare un sinodo provinciale; nel frattempo, Arialdo si diresse a Roma in missione presso il pontefice, con la speranza di anticipare l’azione sinodale, ottenere l’adesione del papa alla causa patarina e chiedere l’elezione di un nuovo arcivescovo. Quando Arialdo espose le richieste del suo movimento – in primis, la castità del clero – il concilio papale accolse in parte le sue istanze, appellandosi alla normativa per cui già si distingueva il concubinato (proibito), dal matrimonio (tollerato e permesso, purché celebrato prima di aver preso i voti, a patto che si praticasse la “continenza”). Per quanto riguardava invece la simonia, quella era già stata considerata eresia (Golinelli, 1998; Lucioni, 1990), in quanto «chi riceveva simoniacamente l’ordine sacro o qualsivoglia altro sacramento era come se pretendesse di ricevere lo Spirito Santo per danaro o in cambio di favori» (Lucioni, 1990).

Dipinto di Sant'Arialdo
E. Cisterna, A. Colla, Altare di Sant’Arialdo da Cucciago, 1891-1900, Basilica di San Calimero, Milano (fonte: autore, Giovanni Dall’Orto; licenza CC BY-SA 3.0)

Al ritorno di Arialdo da Roma, la lotta ai peccati del clero – tra cui adesso quello di eterodossia simoniaca – si intensificò, diffondendosi anche nel contado milanese e sfociando perfino in atti di vera e propria violenza e lotta armata tra le due parti, quella favorevole e quella avversa alla pataria. Nel frattempo, Arialdo e Landolfo vennero scomunicati; il primo, inoltre, fondò una canonica nei pressi di Porta Nuova (è incerta quale sia la sua data di fondazione, presumibilmente intorno al 1057, oppure più tardi tra il 1061-1062), che accolse, tra gli altri, anche monaci e chierici allontanatisi dal clero corrotto (simoniaco soprattutto, peccato tanto consueto nel milanese). Ci fu inoltre una nuova missione a Roma nel 1059 e si arrivò nel 1061 all’elezione di Anselmo da Baggio al soglio pontificio con il nome di Alessandro II. Quest’ultimo fu un sostenitore della pataria e assicurò il suo benestare alla temperie riformatrice (anche per imporre la Chiesa di Roma a Milano), impegnata soprattutto nella lotta alla simonia, che ormai aveva preso piede anche nel contado. Tuttavia, il papa dovette spingere i patarini a una maggiore tolleranza nei confronti del clero peccatore, incoraggiando al perdono e al dialogo, per evitare che la violenza dilagasse in maniera incontrollata. Nonostante il monito papale e il suo tentativo di ridimensionare lo zelo riformatore, Arialdo ed Erlembaldo assunsero la guida militare del movimento e arrivarono a prendere le armi contro Guido da Velate – di cui fu chiesta e, nel 1066, ottenuta la scomunica da parte di Alessandro II – sotto il vessillo di S. Pietro, sconfiggendolo nei pressi di Monza nel 1065 (Ferrai, 1892; Golinelli, 1998; Lucioni, 1990; Violante, 1965).

3. Laici e chierici patarini

«L’iniziativa del movimento patarino milanese fu indubbiamente chiericale. […] L’iniziatica della predicazione per la riforma morale e disciplinare del clero e per la lotta popolare contro chierici, sacerdoti, vescovi e monaci restii all’emendazione fu opera di Arialdo, diacono decumano della Chiesa milanese. Al quale ben presto si aggiunse, nella guida del movimento patarino, quando questo si trasferì dal contado nella città, un chierico appartenente al clero ordinario della cattedrale, Landolfo Cotta» (Violante, 1965).

Sin dagli albori, la predicazione di Arialdo – successivamente appoggiato non solo dai fratelli Landolfo ed Erlembaldo Cotta, ma anche da Anselmo da Baggio (poi papa Alessandro II) – si rivolse soprattutto al clero minore, facendo breccia anche tra i ceti cittadini medio-bassi e tra i contadini. Il chierico riuscì infatti a trovare terreno fertile tra chi già polemizzava più o meno attivamente contro il potente clero corrotto, peccatore e opulente, indirizzando così il malcontento sia dei chierici, sia dei laici contro le alte gerarchie ecclesiastiche ambrosiane. La controversia passava anche dal proporre un rinnovamento morale della Chiesa, che avrebbe dovuto rifarsi agli insegnamenti evangelici piuttosto di rincorrere potere, cariche, ricchezze e piaceri della carne (Violante, 1965).

La guida morale, spirituale e “logistica” del movimento patarino rimase sempre di stampo chiericale, non solo dedita alla predicazione e alla somministrazione dei sacramenti, ma anche impegnata in missioni diplomatiche, azioni militari e quotidiana gestione della vita del movimento (anche all’interno della canonica, nella quale la comunità arialdina viveva secondo i precetti evangelici – castità e povertà – e forme di vita comunitario-canonicali regolari e riformate) (Violante, 1965).

«Il movimento patarino non aveva un carattere classista» (Violante, 1965): infatti, la predicazione si rivolgeva sicuramente a chiunque la sapesse interiorizzare, definendo così il carattere “democratico” e popolare del movimento. La massa di sostenitori veri e propri della pataria era costituita per di più da laici e “popolani”, uomini e donne definiti “fedeli” nelle fonti, stufi dello strapotere e della corruzione dell’alto clero ambrosiano, che pareva essere esente anche dalle decisioni ecclesiastiche, spirituali e istituzionali di Roma. Il popolo fu estremamente mutevole e diede il suo sostegno alla causa patarina con discontinuità, talvolta anche prendendo iniziative che sfociavano in violenze, atti di vandalismo e saccheggi.  In ogni caso, i laici più coinvolti provenivano principalmente dal ceto medio, soprattutto urbano, alle quali i chierici patarini precludevano – come è facilmente intuibile – la cura delle anime, la predicazione e la somministrazione dei sacramenti. I laici si occupavano prevalentemente di supporto all’azione spirituale patarina, anche e soprattutto attraverso la raccolta di elemosine e finanziamenti: «la pataria fu dunque un movimento religioso costituito essenzialmente da laici: ai laici si rivolgeva la predicazione di Arialdo e Landolfo Cotta; e possiamo ben credere che tutta la popolazione milanese fosse più o meno direttamente e vivacemente impegnata nei contrasti tra patarini e la parte avversa» (Violante, 1965; Golinelli, 1998). Ci fu un laico che più di altri spiccò nel movimento riformatore: il miles Christi Erlembaldo Cotta, fratello del chierico Landolfo, al quale si sostituì a seguito sia del suo rientro da un pellegrinaggio a Gerusalemme, sia della malattia e della morte del fratello. Ovviamente, al miles erano precluse le attività spirituali e chiericali, tuttavia si rese utile nel guidare la lotta armata contro la fazione avversaria, anche grazie alle sue competenze militari (Golinelli, 1998; Violante, 1965).

4. I martiri di Arialdo ed Erlembaldo e la lotta per le investiture tra Roma, Milano e Impero

Erlembaldo rientrò dalla sua missione a Roma nel 1066 recando due importanti bolle pontificie: una di scomunica nei confronti dell’arcivescovo Guido da Velate, l’altra che intimava l’obbedienza e l’assoggettamento del clero ambrosiano alla Santa Sede. Gli ordini di Alessandro II crearono scompiglio in Milano, poiché il suo arcivescovo – convocata un’assemblea popolare – denunciò il fatto come pericolosissimo per l’autonomia della città. Arialdo ed Erlembaldo erano ovviamente presenti e videro la folla scagliarsi contro di loro, rei di aver ripetutamente chiesto l’intervento papale nelle questioni ambrosiane, di fatto spingendo per una maggiore vicinanza a Roma (Golinelli, 1998).

Gli animi erano ormai esasperati: Guido da Velate era riuscito a far leva sui sentimenti di autonomia e di orgoglio dei milanesi, che mal sopportavano l’ingerenza romana nelle questioni cittadine, anche a livello spirituale. Così scattò la caccia ai capi patarini: Arialdo scappò da Milano per rifugiarsi nel contado e per poter organizzare una nuova partenza verso Roma. Venne però tradito, cadendo in un’imboscata, a seguito della quale venne infine ucciso. Erlembaldo – supportato da Alessandro II, che scomunicò nuovamente l’arcivescovo di Milano – decise in questo modo di vendicare l’omicidio di Arialdo, portando così a diversi scontri tra patarini e antipatarini. Il papa si vide così costretto a intervenire, inviando una delegazione pontificia a Milano per poter riportare la pace. Nel 1067, i legati papali tentarono di ricomporre gli scontri e gli ordini precedentemente sovvertiti; riammisero inoltre Guido da Velate all’arcivescovato, a patto che vegliasse sul clero a lui soggetto. In questo modo, si ridimensionava anche l’ingerenza patarina nelle questioni ecclesiastiche, impedendo quindi ai laici di giudicare gli ecclesiastici, obbligo che li portò a rivolgersi nuovamente alla Santa Sede. Nel 1068, Erlembaldo riuscì a ottenere da Alessandro II – con l’appoggio del cardinale Ildebrando, il futuro Gregorio VII – il mandato per ottenere il giuramento da parte dei chierici milanesi a Roma, i quali non avrebbero mai più accettato arcivescovi non ordinati dal pontefice; si assicurarono tuttavia anche la beatificazione di Arialdo, ormai considerato un martire patarino (Golinelli, 1998; Lucioni, 1990).

Rilievo di Erlembaldo Cotta
Erlembaldo Cotta, dettaglio, E. Cisterna, A. Colla, Altare di Sant’Arialdo da Cucciago, 1891-1900, Basilica di San Calimero, Milano (fonte: autore, Giovanni Dall’Orto; licenza CC BY-SA 3.0)

Nel frattempo, Guido da Velate abdicò al soglio arcivescovile in favore del suo segretario, il nobile Gotofredo di Castiglione, consegnando l’anello e il pastorale all’imperatore per l’investitura del successore designato. In cambio, l’imperatore Enrico IV impose al neoeletto non solo il pagamento di una somma di denaro, ma anche e soprattutto di impegnarsi nella cattura di Erlembaldo e nell’estirpazione della pataria. A questo punto, Roma – decisa a ridimensionare sia il potere del sovrano, sia quello dell’arcivescovo ambrosiano – scomunicò Gotofredo e impose a Erlembaldo di scongiurare il suo ingresso nella città meneghina (Golinelli, 1998; Lucioni, 1990).

Ebbe qui inizio un nuovo capitolo dello scontro tra patarini e antipatarini, che si inserì nella più vasta e complicata questione dei rapporti tra papato, Chiesa ambrosiana e Impero. Erlembaldo stava impedendo l’insediamento dell’arcivescovo a Milano, che non dimentichiamo era stato prontamente scomunicato da Roma dopo la sua elezione da parte di Enrico IV. Inoltre, il miles patarino confiscò castelli e terre dell’arcivescovo, da cui iniziò a muovergli guerra. Gotofredo si rifugiò allora nei suoi possedimenti nel varesotto, finendo per essere assediato presso Castiglione Olona; i patarini tentavano così di scongiurare l’arrivo delle forze filoimperiali. Nel frattempo, Guido da Velate si mosse per riottenere la carica di arcivescovo e per instaurare trattative con Erlembaldo, il quale però lo fece rinchiudere; l’ex arcivescovo riuscì comunque a scappare nei suoi possedimenti, dove morì successivamente nel 1071, senza ottenere quanto si era prefissato (Golinelli, 1998).

Nel 1072, il legato pontificio Bernardo ed Erlembaldo riuscirono ad ottenere l’investitura ad arcivescovo del nobile Attone dagli ordinari della Chiesa milanese; questa mossa non venne però accettata dalla popolazione meneghina e dall’imperatore, che si ribellarono all’ingerenza di Roma e si scagliarono contro Bernardo, Erlembaldo e Attone. A questo punto, quindi, sia papa Gregorio VII (nel frattempo successo ad Alessandro II), sia Enrico IV stavano premendo per vedere rispettivamente Attone e Gotofredo al soglio arcivescovile ambrosiano, nonché per sostenere o ridimensionare l’azione dei patarini, soprattutto quella di Erlembaldo. Nel 1075, la Santa Sede proclamò il “principio della libertà della Chiesa”, che vietava ai laici ogni ingerenza nelle investiture clericali, sostanzialmente annullando l’elezione di Gotofredo da parte di Enrico IV. Come ormai di consueto, fu Erlembaldo a portare notizia della decisione pontificia a Milano, suscitando così nuove ribellioni nella società ambrosiana, che condussero infine – a seguito anche di un incendio di cui furono accusati i patarini – all’uccisione di Erlembaldo stesso. Tolto di mezzo uno scomodo nemico, l’imperatore però si rese conto di dover abbandonare il suo sostegno a Gotofredo, pensando di sostituirlo con Tedaldo, chierico milanese, in barba anche al principio di libertà della Chiesa imposto da Roma, sfidando nuovamente l’autorità papale. L’elezione al soglio arcivescovile milanese rimaneva così ancora campo aperto nella lotta per le investiture tra papato e Impero (Golinelli, 1998; Lucioni, 1990).

Conclusione: il ritorno nelle braccia della Chiesa romana, la fine del radicalismo patarino e l’eresia

Morto Erlembaldo il movimento patarino si affievolì, anche se non si spense subito, andando via via a inserirsi nella tradizione lombardo-ambrosiana e nella Riforma gregoriana: altre personalità cercarono di mantenere viva l’azione dei defunti capi della pataria, anche se la sua «funzione storica era ormai terminata» (Golinelli, 1998; Lucioni, 1990). Vi fu pertanto un tentativo di ricondurre l’azione riformatrice patarina – avversa alla simonia e al nicolaismo – nell’alveo della Chiesa riformata e nel diritto canonico, eliminando in questo modo ogni eccesso. Ci si impegnò pertanto a ridimensionare le attività dei patarini a partire dal 1075, soprattutto l’azione dei laici, la cui ingerenza in materia religiosa e clericale venne definitivamente scongiurata. Tra il 1088 e il 1096, la Chiesa ambrosiana venne ricondotta all’ubbidienza alla Santa Sede: a questo punto, i patarini superstiti – alcuni ancora legati ad Arialdo ed Erlembaldo – si sentirono traditi da Roma, che, a loro avviso, aveva peccato di condiscendenza, usando tra l’altro le esperienze dei loro capi a proprio favore, facendo pertanto propria la loro eredità spirituale (Lucioni, 1990; Merlo, 2011). La precedente esperienza riformatrice dei patarini doveva ormai «lasciare spazio a processi meno convulsi, controllati, formalizzati di stabilizzazione organizzativa e giuridica delle strutture di Chiesa e a favore di un più ordinato e indiscusso esercizio di “dominio” da parte delle gerarchie ecclesiastiche. […] Si evidenziano allora “nuovi eretici”, individui e gruppi che non riescono e non vogliono realizzare raccordi con il vertice della Chiesa o con i vertici delle chiese locali, cadendo in quella “eresia della disobbedienza”» (Merlo, 2011).

Rilievo di Arnaldo da Brescia
Arnaldo da Brescia, Arengario, Piazza Vittoria, Brescia (fonte: autore, Mik2001; licenza CC BY-SA 4.0)

Uno di questi “nuovi eretici” fu Arnaldo da Brescia, che criticò aspramente la politica delle gerarchie ecclesiastiche, rea di essere in contraddizione con gli insegnamenti evangelici: per Arnaldo – come fu anche per Arialdo da Cucciago – non vi era pertanto corrispondenza tra il rinnovamento tanto ostentato dall’Istituzione e il ritorno a una Chiesa vera, povera e cristiana (nel vero senso della parola). Si può considerare pertanto l’esperienza dell’eretico Arnaldo come l’apice finale dell’esperienza radicale e intransigente patarina, che ebbe fine con il suo estremo sacrificio sul rogo (Merlo, 2011; 2018).

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico

Federica Fornasiero è medievista e laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Nella sua tesi si è occupata di sindacato podestarile nel Trecento e dello studio delle fonti ad esso relative nel Comune di Reggio Emilia. I suoi interessi principali sono la storia sociale, economica e di genere, ma non disdegna anche la storia delle chiese e delle eresie medievali.

Bibliografia

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Pubblicato da Scacchiere Storico

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