di Federico Sesia
- Introduzione
Il Montenegro è negli ultimi tempi salito all’onore della cronaca per le tensioni interne tra i fautori dell’unione con la Serbia e i difensori dello status quo sorto con il referendum del 2006, che ha visto prevalere di stretta misura gli indipendentisti. L’impressione è quella di un paese diviso in due anime le cui differenze arrivano fino all’uso di alfabeti diversi: il cirillico una, quello latino l’altra. Sviluppatasi in modo evidente quando il Montenegro è stato inglobato nella nascente Jugoslavia (1918), la divisione ha in realtà radici più profonde.
L’arrivo dei montenegrini nel paese che attualmente porta il loro nome risale al periodo che va tra il VI e il VII secolo d. C. in concomitanza con la migrazione degli slavi nei Balcani. Controverso è quanta differenza sussistesse tra le popolazioni arrivate, e non vi è unanimità tra gli storici a riguardo. Nel Medioevo sorsero nella penisola diversi proto-Stati, tra cui la Zeta nei territori in questione. La prima dinastia al governo fu quella autoctona dei Vojislavjevići (1077 – 1189), seguita da quella serba dei Nemanjići (1189 – 1360) che avviò la penetrazione del cristianesimo ortodosso nella regione, in precedenza cattolica. Dopo di loro arrivarono i Balšići (1360 – 1422), anch’essi serbi. A separare la Zeta dalla Serbia furono gli ottomani, che con la battaglia di Kosovo Polje (1389) si erano stabilmente insediati nella regione, ma se Belgrado cadde sotto il dominio turco la Zeta riuscì a mantenere la propria indipendenza grazie al territorio impervio, divenendo il rifugio di diversi nobili serbi che rifiutavano il vassallaggio ai nuovi padroni. Nei secoli successivi rimase in uno stato di guerra continua contro i turchi alternando episodiche sottomissioni a ribellioni, mentre si rafforzava il potere politico dei metropoliti di Cetinje che trasformarono la Zeta in una teocrazia ortodossa in cui il potere temporale e spirituale era nelle mani dei vescovi (vladika) eletti dall’assemblea delle tribù (Skupština), che in larga misura influenzeranno la vita del paese per molto tempo. Nel frattempo nelle Bocche di Cattaro si erano insediati i veneziani, dando seguito alla richiesta di integrazione nella Serenissima per il timore di una conquista turca. Venezia avrebbe governato le Bocche fino al Trattato di Campoformio (1797) (Morrison, 2009).
- La dinastia dei Petrović-Njegoš e l’avvicinamento alla Serbia

Nel 1697 il vladika Danilo I Petrović-Njegoš rese ereditaria la carica, dando vita ad una dinastia che restò sul trono fino al 1918. Negli anni di Danilo I si cristallizzò l’organizzazione tribale montenegrina, che vedeva nelle tribù (pleme) l’elemento socio-politico centrale, a cui si aggiungevano i diversi clan ad esse legati (bratstvo). Fu l’appartenenza ad una specifica pleme a rappresentare l’elemento precipuo dell’identità dei montenegrini per diverso tempo, e ancora oggi è relativamente sentita. Le tribù montenegrine sono divisibili in due gruppi, quelle del Vecchio Montenegro e quelle delle colline: quest’ultime sono composte da serbi fuggiti con l’arrivo dei turchi, e risiedono a nordest del fiume Zeta. Questa divisione è ancora oggi lo spartiacque geografico tra i serbi e i montenegrini nel paese. Le relazioni tribali erano contrassegnate da altissima conflittualità e uno degli obiettivi dei Petrović-Njegoš fu proprio quello di tenere unite le varie pleme, riuscendovi solo in parte. Nel 1860 iniziò il governo di un appena diciottenne Nikola Petrović-Njegoš, che accelerò il processo di costruzione dello Stato iniziato dai predecessori e avviò un’ambiziosa politica espansionista che lo portò alla guerra coi turchi (1862), garantendosi una crescita territoriale col beneplacito delle potenze europee riunite nel Congresso di Berlino (1878): Nikola aveva raddoppiato le dimensioni del suo territorio inglobando aree popolate da serbi e albanesi riuscendo a integrarli pacificamente. Nel 1896 Nikola acconsentì che sua figlia Jelena sposasse re Vittorio Emanuele III, a testimonianza dell’interesse italiano ad estendere la propria sfera di influenza sull’altra sponda dell’Adriatico. I successi politici e militari spinsero Cetinje a vagheggiare per il paese lo stesso ruolo nel Balcani che il Piemonte svolse in Italia arrivando a considerare Nikola il leader della nazione serba, considerazione che in nome di un diffuso panslavismo andava verso una controversa equiparazione tra serbi e montenegrini basata sull’immaginario medievale dell’Impero serbo. Il sorgere di una Serbia indipendente, che godeva di ben altre potenzialità belliche ed economiche, avrebbe frustrato però le prospettive di Cetinje, che perse in suo favore il ruolo di partner strategico della Russia. Il contesto spinse Nikola a premere per consolidare la presunta identità serba dei montenegrini per legittimare i suoi tentativi di influenzare la politica interna di Belgrado: il progetto era quello di spostare da lì a Cetinje il centro politico dei serbi. Si trattò di una politica suicida: invece di rafforzare la sua dinastia diede invece ottimi argomenti a quei circoli belgradesi (e montenegrini) che sostenevano l’identità tra i due popoli, optando per l’unione con la Serbia. Le conseguenze non avrebbero tardato a presentarsi.
L’ascesa dei Karađorđević in Serbia proseguì l’indebolimento della posizione di Nikola, in un contesto in cui gli unionisti aumentavano i loro consensi grazie anche al sostegno di Belgrado. Nel 1907 un gruppo radicale filo-serbo tentò di assassinarlo e diversi elementi indicarono il coinvolgimento della Serbia nell’operazione. Di conseguenza i legami tra Cetinje e Belgrado subirono un netto deterioramento, allo stesso modo le velleità dei Petrović-Njegoš di mettersi alla guida del mondo serbo. I rapporti peggiorarono due anni dopo quando un fallito colpo di Stato tentò di unire il paese con Belgrado. Intanto Nikola era riuscito a farsi riconoscere la carica di re dalle potenze europee (1910), trasformando il Montenegro da principato a regno. Le relazioni diplomatiche tra i due paesi ripresero solo nel 1912 con lo scoppio della Prima guerra balcanica, che li vide entrambi contrapporsi ai bulgari. La vittoria non diede al Montenegro i vantaggi sperati, indebolendone inoltre l’apparato militare. Nonostante ciò nel 1914 il paese entrò in guerra a fianco dell’Intesa, trovando le sue forze armate unificate a quelle serbe e da queste comandate. Nel 1916 un’offensiva dell’Austria portò all’occupazione del Montenegro, mentre Nikola con la famiglia reale lasciarono il paese alla volta dell’Italia. La fuga del re segnò molto negativamente l’immagine dei Petrović-Njegoš tra i montenegrini (Morrison, 2009).
- L’inglobamento nel Regno di Jugoslavia e la Seconda Guerra Mondiale
L’occupazione austriaca finì nel 1918, ma Nikola non tornò sul trono: il sostegno dell’Intesa alle pretese di Belgrado e i sospetti che il re avesse cercato una pace separata con Vienna compromisero i suoi piani, facendo sì che la neocostituita Assemblea Nazionale di Podgorica proclamasse decaduti i Petrović-Njegoš e l’unione del paese con il nascente Stato jugoslavo. Non tutti i montenegrini accolsero con lo stesso umore le decisioni dell’Assemblea: se i territori a nordest dello Zeta ne furono entusiasti ben diversa fu la reazione nel Vecchio Montenegro, dove buona parte della popolazione si mostrò ostile. Intanto il paese si stava polarizzando in due schieramenti: i bianchi (bjelaši) fautori dell’unione con la Serbia e i verdi (zelenaši) di tendenza indipendentista. I due termini da quel momento in poi sarebbero stati usati per identificare le due fazioni rivali. Nel periodo successivo all’unione l’atteggiamento serbo, talvolta prevaricatore, condusse alla disaffezione di alcuni settori del paese, portando nel gennaio del 1919 ad una ribellione degli zelenaši guidata da Jovan Plamenac e Krsto Zrnov Popović contro il nuovo ordine. Gli insorti inizialmente sembrarono avere la meglio: misero sotto assedio Cetinje ed ottennero il sostegno dell’Italia, che sperava di instaurare un regno cliente sull’altra sponda dell’Adriatico. Nonostante ciò le divisioni interne degli zelenaši finirono col favorire i bianchi, portando alla loro vittoria e al fallimento della Ribellione di Natale. Repressa la rivolta le autorità jugoslave procedettero con l’integrazione del Montenegro in un’ottica prettamente centralista: la Chiesa ortodossa montenegrina venne sciolta e inglobata in quella serba, i verdi messi fuori legge e le politiche inerenti al paese decise da Belgrado. Fu emblematico che nel censimento jugoslavo del 1919 i montenegrini vennero classificati tout court come serbi. Il malcontento che ne seguì confluì nel Partito federalista montenegrino e soprattutto nel Partito comunista jugoslavo (Komunistička Partija Jugoslavije, KPJ), che mise solide radici nel paese. Negli anni successivi la necessità di frenare le spinte autonomiste di sloveni e croati spinse Belgrado a riformare le regioni jugoslave, e il Montenegro venne integrato nella Banovina della Zeta (1929), che includeva anche parte del Kosovo e dell’Erzegovina (Morrison, 2009).

Nel 1941 la Seconda guerra mondiale travolse la Jugoslavia, e la Zeta venne assegnata alla zona di occupazione italiana. Grazie alle pressioni della regina Jelena Roma decise di creare un Regno del Montenegro formalmente indipendente, affidandone la corona a un Petrović-Njegoš e sostenendo gli zelenaši di Sekula Drljević, che erano la sua principale fonte di informazioni sul paese. Quando tuttavia degli emissari offrirono la corona a Mihailo Petrović-Njegoš questi la rifiutò, dichiarando di sentirsi serbo e pronosticando la sconfitta dell’Asse. Nonostante ciò Roma continuò a fare affidamento sui verdi, sviluppando una visione parziale della situazione che convinse gli italiani che sarebbero stati accolti da liberatori. Le cose andarono diversamente: i montenegrini si dichiararono offesi nel loro orgoglio nazionale quando l’Italia annetté le Bocche di Cattaro e assegnò all’Albania alcune aree di confine importanti per le saline, e ben presto si resero conto che le promesse di indipendenza sarebbero rimaste solo sulla carta.

Nel luglio del 1941 il malcontento esplose a ridosso della proclamazione del Regno, portando ad una massiccia rivolta messa in atto sia dai comunisti che dai cetnici (nazionalisti serbi nominalmente guidati dal colonnello Dragoljub “Draža” Mihailović). Tra i leader della rivolta si distinsero i comunisti Milovan Đilas e Peko Dapčević, e i comandanti cetnici Pavle Đurišić e Blažo Đukanović. Si trattava di uomini dalle visioni difficilmente conciliabili: se i primi auspicavano un Montenegro inserito in una Jugoslavia socialista e federale, i secondi lo ritenevano parte integrante di uno Stato egemonizzato dai serbi. Le divergenze sarebbero ben presto esplose. Ad ogni modo, l’entità della ribellione costrinse gli italiani a inviare dall’Albania il generale Alessandro Pirzio Biroli, che dopo una dura repressione istituì un governo militare diretto e fece leva sulla frattura della resistenza cooptando i cetnici, che iniziarono a collaborare con gli italiani in nome del condiviso anticomunismo. Per circa tre anni il Regio esercito venne impiegato in sfibranti operazioni di controguerriglia in un crescendo di atrocità, senza riuscire a piegare il movimento partigiano. L’armistizio del 1943 portò all’occupazione tedesca, che terminò nel 1944 con la vittoria dei comunisti di Jozip Broz “Tito”. Parte dei soldati italiani dopo l’8 settembre passò con la resistenza formando la Divisione italiana partigiana “Garibaldi” (Goddi, 2016 e Gobetti, 2018 e Tomasevich, 2001).
- Il Montenegro nella Jugoslavia socialista
La neonata Jugoslavia socialista riconobbe l’enorme tributo di sangue pagato dai montenegrini durante la guerra, ricompensandoli con lo status di repubblica federale al pari di Serbia, Bosnia, Croazia, Slovenia e Macedonia. Una simile concessione rientrava nel novero dei tentativi di risanare la frattura tra bianchi e verdi ancora presente nel paese. Per quanto riguarda la questione dell’identità montenegrina, i comunisti jugoslavi la liquidarono definendoli dei serbi leggermente diversi dagli altri, come sostenuto in particolare da Đilas. Il Secondo dopoguerra non fu un periodo negativo per il Montenegro: la repubblica ottenne più fondi e investimenti di ogni altra, e i montenegrini erano sovra-rappresentati negli organi del partito e nelle forze armate. Questo condusse ad un diffuso lealismo verso le istituzioni, che salvo rare occasioni non venne meno fino agli anni ’90. Non è quindi un caso che proprio Podgorica sia stata rinominata Titograd negli anni del regime, e che quando negli anni ’60 il movimento della Primavera croata chiese riforme e liberalizzazione politica i suoi echi in Montenegro furono pressoché inesistenti (Ognjenović, Jozelić, 2016 e Ognjenović, Jozelić, 2016).

La morte di Tito (1980) coincise con l’inizio di una grave crisi economica per la Jugoslavia: disoccupazione, alti tassi di inflazione e indebitamento colpirono in particolare le repubbliche meridionali, economicamente più fragili. L’ascesa di Slobodan Milošević (1987) nella Repubblica socialista serba portò ad un ritorno di fiamma del nazionalismo che non lasciò intaccato il Montenegro: la “rivoluzione anti-burocratica” (1988 – 1989) da lui lanciata portò all’azzeramento della leadership comunista nelle due repubbliche e l’ascesa di nuove leve impregnate di idee ultranazionaliste. A Titograd emerse in particolare un triumvirato di fedelissimi di Milošević composto da Momir Bulatović, Svetozar Marović e Milo Đukanović, di cui il primo governò il paese dal 1990 al 1998. La rivoluzione anti-burocratica non portò grandi miglioramenti per il Montenegro: non invertì la congiuntura economica, fece ben pochi passi verso la democratizzazione e aumentò la polarizzazione interna. Nel 1991 la Lega dei comunisti del Montenegro, che aveva vinto le elezioni l’anno prima, cambiò denominazione in Partito democratico dei socialisti (Demokratska Partija Socijalista, DPS), rimanendo legata a Milošević. Nominalmente il DPS si faceva portavoce di un moderato nazionalismo serbo, ma si trattava di mero opportunismo dettato dalla necessità di riempire il vuoto ideologico dei suoi quadri: non è un caso che parte di questi, quando le sorti di Milošević volgeranno al peggio, avrebbe abbracciato la causa indipendentista.
Nel 1991 la situazione precipitò. Dopo la Slovenia, che si staccò dalla federazione in modo relativamente indolore, fu la Croazia a proclamarsi Stato sovrano, provocando l’intervento dell’Armata popolare jugoslava (Jugoslovenska Narodna Armija, JNA) a sostegno dei serbi di Krajina che a loro volta si erano separati da Zagabria. La decisione croata di chiudere l’oleodotto di Adria (1991) rese il Montenegro un partner ancora più importante per la Serbia, e Bulatović si mostrò fedele all’alleato: truppe montenegrine varcarono il confine con la Croazia per partecipare a fianco dei serbi all’assedio di Dubrovnik (1991 – 1992), danneggiando gravemente l’immagine del loro paese per aver cannoneggiato il centro cittadino, patrimonio dell’UNESCO. Intanto la Jugoslavia socialista si era sciolta ufficialmente, e sulle sue ceneri era nata la Repubblica federale jugoslava (Federativna Narodna Republika Jugoslavija, FNRJ, 1992) composta solo da Serbia e Montenegro. Poco prima Podgorica aveva indetto un referendum sul mantenimento dell’unione, boicottato dai partiti indipendentisti, che vide la vittoria schiacciante del sì. Mentre nasceva la “terza Jugoslavia” la guerra continuava a insanguinare la regione, spostando il suo epicentro dalla Croazia alla Bosnia in un susseguirsi di massacri interetnici che provocarono l’intervento della NATO. La condotta bellica serba questa volta venne rigettata da Podgorica, che ritirò le sue truppe dalla Bosnia: stava iniziando un allontanamento dalla linea di Belgrado, provocato anche dal fatto che la rappresentanza politica nella nuova Jugoslavia era sbilanciata in favore dei serbi. La situazione portò ad una scissione nel DPS (1997) tra i sostenitori di Milošević (Bulatović) e i suoi oppositori (Đukanović), con quest’ultimi che si imposero alle elezioni del 1997. Iniziava così l’era Đukanović per il Montenegro, che avrebbe portato il paese all’indipendenza e che avrebbe subito una battuta d’arresto solo con le elezioni del 2020. Pochi anni prima (1993) era inoltre rinata la Chiesa ortodossa montenegrina, fondata dall’archimandrita Antonije Abramović e sostenuta da movimenti indipendentisti. Si tratta di una chiesa non riconosciuta dalla quella serba, che ne contesta la legittimità (Pirjevec, 1993 e Pirjevec, 2001 e Has, 2016).

Il neoeletto presidente si adoperò fin da subito per rendere più lassi i legami con Belgrado. Il nuovo corso subì un’accelerata con lo scoppio della guerra in Kosovo (1998 – 1999) a causa dei timori per i contraccolpi che il conflitto avrebbe comportato per il paese. Ad approfondire il solco tra Belgrado e Podgorica ci pensò la politica del “tanto peggio tanto meglio” di Milošević, che fece affluire ondate di profughi kosovare in Montenegro e Macedonia allo scopo di destabilizzarli. L’opposizione di Đukanović non evitò al paese i bombardamenti della NATO del 1999, che danneggiarono le sue infrastrutture già compromesse dalla crisi. In seguito alla caduta di Milošević (2000) e in un clima in cui l’indipendentismo raccoglieva consensi Đukanović rinegoziò i termini dell’unione con la Serbia, portando nel 2003 alla dissoluzione della FNRJ e alla nascita dell’Unione Statale di Serbia e Montenegro, che dava pari poteri alle due repubbliche e prevedeva la possibilità di ottenere l’indipendenza per via referendaria. I rapporti tra le due entità rimasero freddi, e ben presto si fece strada l’idea che un referendum avrebbe risolto i problemi stabilendo una volta per tutte l’unione o la separazione. Fu così che dopo mesi di preparazione si stabilì la convocazione delle urne per il 21 maggio 2006.
- Il referendum del 2006
In occasione del referendum l’UE giocò un ruolo fondamentale come arbitro e garante della democraticità del voto. Nel marzo del 2006 venne emanata la “Legge sul referendum sullo statuto legale dello Stato”, che prevedeva un quorum del 50% e più del 55% di voti favorevoli per l’ottenimento dell’indipendenza. Una percentuale così alta venne imposta dall’UE, che sperava in questo modo di far prevalere l’unione: Bruxelles temeva il radicalizzarsi di Belgrado a fronte della perdita quasi contemporanea di Podgorica e del Kosovo. Ad ogni modo, il referendum rappresentò lo spostamento definitivo dell’élite politica del paese dal nazionalismo panserbo a quello montenegrino. Il quesito posto era “Vuoi che la Repubblica del Montenegro diventi uno Stato indipendente con piena personalità internazionale e legale?”. I partiti indipendentisti erano capitanati dal DPS di Đukanović, mentre Predrag Bulatović del Partito socialista del popolo del Montenegro (Socijalistička Narodna Partija, SNP, fondato nel 1998 da una costola del DPS) guidò gli unionisti. Data la tradizionale divisione della società montenegrina forti furono i timori di un’escalation di violenza, evitata grazie all’arbitrato europeo. Il 21 maggio i montenegrini si recarono alle urne, e i fautori dell’indipendenza prevalsero col 55.5%: un soffio sopra il risultato minimo per accedervi. La geografia dei risultati fotografa la secolare divisione del paese: se nel Vecchio Montenegro ha prevalso il sì di larga misura, il nordest ha invece votato a favore del mantenimento dell’unione. Indipendentiste in larga misura anche le regioni abitate da albanesi e bosniaci (Morrison, 2009).
- “Una casa divisa in sé stessa”

Il verdetto delle urne venne internazionalmente accettato, anche dalla Serbia. Ma al giorno d’oggi, nonostante lo svolgimento pacifico del referendum, il Montenegro non è riuscito a sanare quella secolare divisione tra bjelaši e zelenaši che vede ancora il Vecchio Montenegro contrapposto alle regioni del nordest: quasi metà del paese infatti guarda a Belgrado e non a Podgorica come punto di riferimento, e si sente culturalmente minacciata oltre che economicamente svantaggiata, dato che la crescita generata dagli investimenti stranieri li ha tendenzialmente esclusi. Alle elezioni del settembre 2006 la neonata Lista serba ottenne quasi il 15%, e nel 2008 i rapporti peggiorarono a fronte del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Dal 2010 in poi le tensioni sono andate aumentando: nel 2016 un presunto golpe contro Đukanović, organizzato per prevenire l’ingresso nella NATO, avrebbe visto il coinvolgimento di parte dell’opposizione (con il sostegno russo). L’adesione all’Alleanza atlantica (2017) è stata rigettata da quella metà di montenegrini che si sente serba (provocando inoltre forti tensioni con Mosca, tradizionale partner del paese), mentre nel 2019 una controversa legge sulla libertà religiosa ha decretato l’esproprio di quegli edifici di culto di cui la Chiesa ortodossa serba non fosse in grado di dimostrare la proprietà antecedente al 1918, provocando massicce proteste che portarono alla revoca del decreto nel 2020. Quell’anno le elezioni per la prima volta mandarono all’opposizione il DPS premiando invece la coalizione guidata dal SNP del filo-serbo Zdravko Krivokapić, attuale primo ministro, che molto deve al sostegno della Chiesa serba. Nel settembre del 2021 l’intronizzazione del metropolita Joanikije II a Cetinje ha suscitato imponenti manifestazioni di protesta nel Vecchio Montenegro, dettate dal sospetto di sua nomina decisa da Belgrado. Dopo più di un secolo il bianco e il verde continuano a dividere il piccolo paese balcanico (Banović, 2016 e Morrison, 2018).

Federico Sesia – Scacchiere Storico
Federico Sesia è laureato in Scienze Storiche con indirizzo contemporaneo. Si occupa soprattutto di storia della Spagna e dell’America Latina, oltre che della ex Jugoslavia e di storia militare. È docente alla scuola secondaria di secondo grado.
Bibliografia
Banović B., The Montenegrin warrior tradition. Questions and controversies over NATO membership, Palgrave, 2016; Gobetti E., La Resistenza dimenticata. Partigiani italiani in Montenegro (1943 – 1945), Salerno, 2018; Goddi F., Fronte Montenegro. Occupazione italiana e giustizia militare 1941 – 1943, Leg, 2016; Has P., Serbia and Montenegro History, and Separation. Europeanization, Ethnic Relations Ancient Time, War Time, People and Environment, 2016; Morrison K., Montenegro. A Modern History, I. B. Tauris, 2009; Morrison K., Nationalism, Identity and Statehood in Post-Yugoslav Montenegro, Bloomsbury 2018; Ognjenović G., Jozelić J. (eds.), Revolutionary Totalitarianism, Pragmatic Socialism, Transition. Volume One, Tito’s Yugoslavia, Stories Untold, Palgrave Macmillan, 2016; Ognjenović G., Jozelić J. (eds.), Titoism, Self-Determination, Nationalism, Cultural Memory. Volume Two, Tito’s Yugoslavia, Stories Untold, Palgrave Macmillan, 2016; Pirjevec J., Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918 – 1992, storia di una tragedia, Nuova ERI, 1993; Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991 – 1999, Einaudi, 2001; Roberts E., The Realm of the Black Mountain. A History of Montenegro, Cornell University Press, 2007; Stevenson F., A History of Montenegro, Ozymandias, 2016; Tomasevich J., War and Revolution in Yugosavia, 1941-1945. Occupation and Collaboration, Stanford University Press, 2001.