di Matteo Bulzomì
- Antefatto: la strategia della tensione
Nel corso degli anni Settanta l’Italia divenne teatro di numerosi attentati terroristici. La peculiarità di questa stagione politicamente turbolenta fu la natura degli attori coinvolti nei sanguinosi avvenimenti di cui si parlerà. Essi infatti non erano solo esponenti di organizzazioni politiche del mondo della destra eversiva, ma anche membri delle istituzioni repubblicane e dei servizi segreti stranieri. Per questo motivo tale capitolo della storia italiana si è guadagnato il titolo di “strategia della tensione”.
- Dietro la strategia della tensione
A favorire i legami tra i due attori sopra citati era il terrore che il Partito Comunista Italiano, il più forte di tutto il blocco occidentale, potesse giungere al potere e sconvolgere gli equilibri geopolitici di Yalta. Appariva perciò necessario creare un “cordone sanitario” attorno a questa forza per prevenire quest’eventualità (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi [Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo], 2001). Per questo, nel corso degli anni, uomini dei servizi segreti italiani e statunitensi, delle forze di polizia e dell’esercito intrecciarono una fitta rete di relazioni con il mondo neofascista italiano. L’obiettivo di questo saggio è quello di presentare i protagonisti di questo periodo e fornire alcuni esempi di depistaggi relativi alle tre stragi più famose del periodo 1969-1974: piazza Fontana, piazza della Loggia e treno Italicus.
- I protagonisti/1: il Reparto D del SID, l’UAARR e il Noto Servizio
Sul versante delle istituzioni repubblicane, tre furono i principali protagonisti della strategia della tensione: il Servizio Informazioni Difesa, l’Ufficio Affari Riservati e il Noto Servizio. Mentre i primi due erano essi stessi parte dell’ordinamento istituzionale, il “Noto servizio di via Statuto” era un’organizzazione segreta a tutti gli effetti.
Il SID era il servizio di intelligence che faceva capo al Ministero della Difesa. Di questa grande e sofisticata macchina per la raccolta di informazioni fu soprattutto il Reparto D guidato dal generale Gian Adelio Maletti a distinguersi per i depistaggi organizzati. L’equivalente del SID presso il Ministero dell’Interno era l’Ufficio Affari Riservati guidato dal prefetto Federico Umberto D’Amato.
Quanto al Noto Servizio (noto anche con il nome di “Anello”), esso era composto perlopiù da membri anticomunisti delle forze armate e del mondo industriale italiano. L’organizzazione, la cui esistenza è stata portata alla luce per la prima volta dallo storico Aldo Giannuli nel 1998, aveva come punti di riferimento il generale polacco Otimski e l’imprenditore milanese Sigfrido Battaini (Giannuli, 2018).
- I protagonisti/2: Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale
Sul fronte della destra extraparlamentare italiana giocarono un ruolo chiave i movimenti Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Ordine Nuovo, la cui figura di riferimento era Pino Rauti, vide la luce nel 1969 a seguito di una scissione dal Movimento Sociale Italiano. Esso si costituiva come movimento rivoluzionario di matrice fascista il cui obiettivo era, si potrebbe dire quasi paradossalmente, di proteggere lo Stato rafforzando i suoi poteri nei confronti delle masse, considerate imprevedibili e in grado di portare instabilità (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001).
Nel corso degli anni il movimento entrò in clandestinità e moltiplicò i contatti con il mondo delle forze armate (Giannuli, 2018) e dei servizi segreti italiani (soprattutto il SID) e stranieri (CIA, e servizi segreti spagnoli e portoghesi) (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001; Fasanella, Sestieri & Pellegrino, 2000; Giannuli, 2018).
L’altro movimento, Avanguardia Nazionale, era il frutto di una scissione avvenuta a sua volta all’interno di Ordine Nuovo. Guidata da Stefano Delle Chiaie, AN era anch’essa un’organizzazione rivoluzionaria di matrice fascista fondata sulla supremazia di un’avanguardia, un’élite il cui compito era guidare la rivoluzione. Anche in questo caso non mancarono legami con membri delle forze dell’ordine, soprattutto con Federico Umberto D’Amato, prefetto dell’UAARR, che conosceva personalmente Delle Chiaie (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001).
- Il convegno dell’Hotel Parco dei Principi
Molti esperti concordano nel definire il convegno dell’Hotel Parco dei Principi, organizzato dall’Istituto Pollio a Roma dal 3 al 5 maggio 1965, il punto di avvio della strategia della tensione (Fasanella, Sestieri & Pellegrino, 2000; Giannuli, 2018). L’Istituto di Studi Militari “Alberto Pollio” era un centro di studi attorno al quale gravitavano diversi esponenti delle forze armate. Non è un caso infatti che al convegno del maggio 1965 partecipò in veste ufficiale il generale Magi Braschi, dietro richiesta del generale Aloia. Il tema di quell’incontro era la guerra rivoluzionaria, una dottrina diffusa negli ambienti militari e della destra mirata a ridimensionare il ruolo dei comunisti in Italia. Al convegno presero parte, insieme a militari e simpatizzanti delle forze armate e dei servizi segreti (Guido Giannettini), anche diversi esponenti della destra eversiva (Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino, Pino Rauti). Nel corso dell’evento si mise in evidenza il pericolo rappresentato dal PCI, considerato un avamposto sovietico nel cuore dell’Alleanza Atlantica. La minaccia più urgente, tuttavia, non era quella di una guerriglia vera e propria, ma quella di una lenta e graduale infiltrazione nei centri nevralgici della società (Fasanella, Sestieri & Pellegrino, 2000). Lo scopo del convegno quindi era di elaborare una strategia per fronteggiare questa minaccia e promuovere una guerra controrivoluzionaria. I punti di connessione con la strategia della tensione di qualche anno dopo sono soprattutto due: gli attori coinvolti e l’ideologia. Quanto agli attori coinvolti, occorre segnalare che alcuni relatori del convegno sarebbero stati accusati anni dopo di essere coinvolti in attentati o depistaggi (Rauti e Giannettini), mentre alcuni studenti sarebbero stati considerati parte attiva dei piani eversivi di quel tempo (Merlino e Delle Chiaie). Quanto all’ideologia, che forse sarebbe più corretto chiamare strategia, è importante mostrare come quanto accaduto tra il 1969 e il 1974 sembri, in molti casi, corrispondere ai dettami delle strategie proposte nel 1965.
- La strage di piazza Fontana a Milano
Molti studiosi nel tempo hanno cercato di ricostruire il susseguirsi di depistaggi dietro alla strage di piazza Fontana. Il Senatore Alfredo Mantica e il Deputato Enzo Fragalà, nel loro lavoro presentato alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001), ripartirono i depistaggi in tre fasi. La prima fase corrisponde al periodo in cui le indagini si focalizzarono sulla “pista anarchica”. La seconda fase, invece, fu quella in cui prese corpo la “pista nera”, che avrebbe alla fine soppiantato la pista anarchica. La terza fase infine fu caratterizzata dalla comparsa di testimonianze inedite prodotte dai pentiti (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001).
Pur non mettendo in dubbio la validità della tesi sopra citata, io ho preferito presentare la storia di piazza Fontana soffermandomi sulle modalità con cui le indagini sono state ostacolate fin da subito. Per questo motivo ho individuato cinque tipologie di depistaggio: la disinformazione, il silenzio, il dirottamento delle indagini, la falsificazione degli atti e la fuga protetta dei personaggi coinvolti. In questo scritto non intendo presentare tutti gli episodi relativi a ciascuna categoria. Mi limiterò a narrare i principali.
Il depistaggio per disinformazione è rivolto a manipolare l’opinione pubblica secondo uno schema che non corrisponde alla verità dei fatti. Di questo tipo di depistaggio riporto due esempi: il primo vide coinvolti i vertici del PCI, il secondo i vertici del Partito Laburista britannico, i servizi segreti britannici e forse i servizi segreti sovietici. Il primo episodio si consumò il 19 dicembre 1969, ad una settimana di distanza dalla strage. Quel giorno la Direzione del PCI tenne una riunione di cui il presidente era Enrico Berlinguer. Nel corso di quella riunione, i cui verbali sono arrivati alla magistratura, emersero due verità riguardo ai colpevoli della strage: una riservata e una pubblica. Quella riservata, frutto di indagini interne condotte da membri del partito, incolpava dell’attentato coloro i quali in quel momento erano già indagati dalla polizia (soprattutto l’anarchico Pietro Valpreda). Quella pubblica, invece, addossava la colpa della strage ai neofascisti, ai rami deviati dei servizi segreti e alla CIA. La verità riservata ai vertici del partito, pur rivelandosi in seguito sbagliata, fa sorgere un interrogativo alquanto importante: perché mantenere il silenzio sulle proprie indagini, lasciando che il pubblico si focalizzasse su una versione dei fatti diversa? Di risposte certe purtroppo non ce ne sono, tuttavia l’ipotesi più valida è che dietro a questo silenzio si nasconda il timore che le indagini potessero coinvolgere l’apparato occulto del partito (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001). Il secondo caso riguarda un articolo uscito sul settimanale inglese Observer il 14 dicembre 1969, meno di due giorni dopo l’attentato. L’articolo, citando un rapporto dell’ambasciata greca a Roma al Ministero degli Esteri ad Atene, in seguito rivelatosi falso, sosteneva che gli attentati che avevano scosso l’Italia nel 1969 fossero parte di un piano neofascista per destabilizzare il Paese e provocare un colpo di stato. A rendere ancora più controversa la tesi dell’articolo era il nome del mandante delle stragi: il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Malgrado la tesi bizzarra del presidente socialdemocratico alla guida di un fronte neofascista, l’articolo è interessante per la quantità di particolari sulla strage e sulla strategia dietro agli attentati, soprattutto in relazione al poco tempo trascorso tra l’ultimo attentato e la pubblicazione. Si può quindi dedurre che la tesi della strategia della tensione sia giusta, a differenza della tesi della colpevolezza di Saragat, soprattutto perché si trattava di un esponente della socialdemocrazia. A questo punto sorgono due domande: chi voleva screditare Saragat, e perché? La prima risposta si può trovare indagando sulla testata che ha pubblicato l’articolo. L’Observer era ritenuto molto vicino al premier laburista Wilson, e in quei mesi molte erano le accuse di cospirazione nei confronti di Saragat lanciate sia da giornali filo-laburisti nel Regno Unito che da giornali filo-socialdemocratici nella Germania Federale. A rendere la situazione ancora più complessa era l’eventualità che dietro alla campagna anti-Saragat potessero esserci anche i Sovietici, dal momento che l’Observer era una testata che annoverava molti infiltrati del KGB. A spingere l’establishment britannico ad un atto così sfacciatamente ostile era probabilmente il desiderio di indebolire la politica mediterranea dell’Italia, allora in forte contrasto con quella britannica (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001).
Il depistaggio per silenzio è l’unica forma di depistaggio “passiva” perché in quanto si tratta di una non-azione orientata ad ostacolare la verità. L’episodio che ho scelto di trattare riguarda il comando FTASE-NATO di Verona. Nella base NATO si trovava di stanza l’agente della CIA David Carrett, che aveva contatti con esponenti di Ordine Nuovo di Roma e del Veneto. Proprio da essi il capitano Carrett aveva appreso, in anticipo, sia le date degli attentati dinamitardi precedenti quelli di piazza Fontana che la strategia dietro quella serie di atti. Nonostante ciò, il comandante non allertò mai le autorità italiane ma si limitò ad invitare gli ordinovisti a non eccedere con la violenza per poter continuare ad agire con il beneplacito degli Stati Uniti. Ad inchiodare Carrett alle sue responsabilità furono le testimonianze di Carlo Digilio, ordinovista veneto pentito che aveva lavorato con lui a lungo in qualità di tramite tra la CIA e Ordine Nuovo. Per questo motivo molti illustri studiosi della strategia della tensione preferiscono parlare di piazza Fontana non tanto come di “strage di Stato”, bensì come di “strage atlantica di Stato” (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001).
La terza modalità di depistaggio, il dirottamento delle indagini, era finalizzata a portare le indagini su una pista sbagliata per potere, nel frattempo, distruggere il maggior numero possibile di prove in grado di portare alla verità. In questo caso ricorderò come, già a partire dalla sera stessa dell’attentato, il questore di Milano, Marcello Guida, avesse dichiarato la matrice anarchica della strage. Guida, tuttavia, non aveva nessuna prova in mano, eccetto la conoscenza personale del mondo anarchico maturata durante il ventennio fascista, quando era direttore del confino di Ventotene. Ma la semplice conoscenza del modus operandi degli anarchici non poteva essere una prova credibile. Inoltre, il Circolo 22 marzo, ritenuto il mandante delle bombe, aveva troppi pochi affiliati per poter organizzare un’operazione così complessa in due città molto distanti tra loro. Come se non bastasse, il Circolo 22 marzo aveva tra i suoi esponenti diversi infiltrati della polizia e del mondo neofascista (Mario Merlino, per esempio). Nonostante ciò, le indagini si concentrarono per molto tempo sulla pista anarchica, ignorando il più possibile alcuni dati preziosi che avrebbero potuto indirizzarle sulla pista giusta (Giannuli, 2018).
Quanto alla falsificazione degli atti, mi limiterò a ricordare uno dei primissimi capitoli delle indagini sulla strage. Dal momento che alcuni giudici milanesi, in particolare Ugo Paolillo, nutrivano scarsissima fiducia nella veridicità della tesi anarchica, la polizia decise di spostare le indagini da Milano a Roma. A tal scopo, occorreva dimostrare che la prima bomba era scoppiata a Roma così da rendere quello romano l’unico foro competente per le indagini sulla strage. La polizia quindi falsificò i verbali, modificando gli orari di scoppio delle bombe così da far convogliare tutte le indagini a Roma.
L’ultima modalità di depistaggio consiste nel favorire la fuga di testimoni o indiziati per rendere più nebulose le indagini. In entrambi i casi i protagonisti furono due membri di spicco del Reparto D del SID: il generale Gian Adelio Maletti e il capitano Antonio Labruna. Nel primo caso, il SID si premurò di far sparire Marco Pozzan. Bidello in una scuola padovana, Pozzan aveva fornito dati importanti sugli ordinovisti veneti in due interrogatori dell’inizio del 1972. Egli si soffermò in particolare sull’importanza di una riunione tenutasi il 18 aprile 1969 presso l’Istituto Configliachi di Padova. Alla riunione, secondo la testimonianza, era presente anche Pino Rauti, e venne deciso di intensificare gli attentati dinamitardi al fine di portare l’instabilità ad un livello insostenibile. Malgrado Pozzan avesse ritrattato pochissimo tempo dopo la sua testimonianza, per evitare di farlo interrogare ulteriormente il reparto D del SID lo portò a Roma, dove visse in un alloggio di servizio fino a che non gli fu fornito un passaporto falso che gli permettesse di recarsi in Spagna. Da quel momento non si seppe più niente di lui. Il secondo caso riguarda un personaggio decisamente più rilevante: Guido Giannettini. Giannettini era un giornalista esperto di spionaggio, controspionaggio e guerra, molto vicino agli ambienti di destra e delle forze armate. Per questo motivo lo si trova tra i relatori del convegno all’Hotel Parco dei Principi; il suo intervento riguardava le tecniche di guerra rivoluzionaria. La collaborazione con l’esercito e soprattutto con il SID non finì in quel convegno. Nel corso degli Anni Giannettini divenne il tramite tra il SID e le cellule venete di Ordine Nuovo, incarico delicato in grado di compromettere la sua carriera di giornalista. Giannettini attirò l’attenzione dei giudici allorché Giovanni Ventura, ordinovista veneto ritenuto tra i più probabili responsabili della strage del 12 dicembre, nel 1973 fornì una confessione che rischiava di far saltare la sua copertura. Per evitare che i magistrati lo interrogassero, il reparto D ospitò ancora una volta in un alloggio di servizio Giannettini e lo fece scappare in Francia, dove continuò a percepire dei fondi in qualità di collaboratore fino al 1974, quando il ministro della Difesa Giulio Andreotti fece saltare pubblicamente la sua copertura (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001).

- La strage di piazza della Loggia a Brescia
La strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 si differenzia da quella di Milano per la sua finalità. Mentre nel 1969 le destre stavano tentando di provocare una ristrutturazione dello Stato in senso conservatore, nel 1974 cercarono di intimidire le sinistre. Per questo motivo si decise di colpire un comizio durante uno sciopero generale di CGIL, CISL e UIL (Giannuli, 2018).
Anche in questo caso le indagini furono fin da subito viziate da depistaggi e silenzi di connivenza. Le modalità di depistaggio che ho deciso di presentare sono quattro: l’inquinamento ambientale, il dirottamento delle indagini, il silenzio e la morte violenta di alcuni importanti testimoni.
L’inquinamento ambientale è la manomissione delle prove al fine di orientare le indagini verso una pista premeditata. Esso avviene, di solito, poco dopo i primi sopralluoghi delle forze dell’ordine sul luogo del delitto. A Brescia l’inquinamento delle prove avvenne tra l’arrivo delle forze dell’ordine e l’arrivo del magistrato, quando il vicequestore Aniello Diamare ordinò di lavare con autopompe la scena del crimine, cancellando o rendendo inutili alcuni reperti che avrebbero avuto un ruolo decisivo nell’indirizzare le indagini (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001).
Quanto al dirottamento delle indagini, anch’esso avvenne immediatamente dopo la strage, quando, nell’impossibilità di spostare l’attenzione su anarchici e comunisti, le indagini si focalizzarono sull’ambiente dell’estrema destra bresciana. Esso era composto sia da giovani meridionali di bassa estrazione sociale come Angelino e Raffaele Papa che da giovani borghesi bresciani. La figura di riferimento per entrambi era Ermanno Buzzi. Omosessuale eccentrico, ladro provetto ed informatore dei carabinieri, Buzzi sembrava essere il soggetto migliore da incolpare; perciò, nonostante la scarsità delle prove a suo carico, gli investigatori mantennero alta l’attenzione su di lui a lungo, trascurando, ancora una volta, le piste più probabili (Giannuli, 2018).
Il silenzio connivente è ancora una volta quello degli Stati Uniti. Nel corso delle indagini è emerso che i collegamenti con gli ordinovisti e gli statunitensi erano molti. Due pentiti in particolare, Carlo Digilio e Marcello Soffiati, hanno affermato che Carlo Maria Maggi, il capo degli ordinovisti veneti, informava regolarmente il comando NATO di Verona, comunicando persino le date degli attentati in anticipo. Gli stessi Digilio e Soffiati, agenti della CIA, hanno avuto un ruolo nella strage. Nonostante ciò, gli Stati Uniti non hanno mai collaborato con le autorità italiane né prima né dopo la strage bresciana.
Durante le indagini per la strage, diversi personaggi coinvolti morirono di morte violenta. Il più importante fu lo stesso Ermanno Buzzi, il quale, trasferito nel carcere di Novara nel 1979, venne strangolato da Pierluigi Concutelli e Mario Tuti, esponenti di spicco di Ordine Nuovo. La sua colpa era quella di essere in procinto di fare alcune importanti dichiarazioni sulla strage di Brescia. Di morte violenta morì anche Pietro Iotti, un testimone della strage, quando a Guastalla perse la vita a seguito di un incidente d’auto.

- La strage del treno Italicus
Pochissimo tempo dopo la strage bresciana, il 4 agosto 1974, sul treno Italicus esplose un ordigno. Molto presto le indagini relative a quel delitto si unirono a quelle bresciane, perché comune era la matrice: la destra eversiva. Oltre al retroterra ideologico dei responsabili, le due stragi ebbero in comune un altro fattore: i depistaggi. In questo caso due sono i tipi di depistaggio che intendo presentare: il silenzio e l’apposizione del Segreto di Stato.
Quanto al silenzio, due sono gli episodi più importanti. Entrambi vedono coinvolti membri delle forze dell’ordine. Nel primo caso, il comandante del Gruppo Carabinieri di Arezzo, Domenico Tumminello, un mese dopo la strage, era entrato in possesso di tre nominativi importanti. La fonte era il generale Bittoni, carabiniere di stanza a Firenze. Se le indagini fossero state dirette verso questi soggetti, perlopiù ancora ignoti ma comunque legati agli ambienti della destra toscana, gli inquirenti avrebbero potuto trovare una pista importante da seguire. Tuttavia, né il comandante Tumminello né il generale Bittoni decisero di comunicare le informazioni in loro possesso agli investigatori, rendendo in questo modo il loro lavoro decisamente più complicato. Nel secondo caso il codirettore del centro SID (in seguito SISMI) di Firenze, Fedrigo Mannucci Benincasa, conosceva di persona un importante membro della destra eversiva toscana, Augusto Cauchi. Nel 1975, quando ormai le indagini erano rivolte verso i gruppi di destra toscani, Cauchi si trovava in clandestinità in quanto avrebbe potuto fornire molte informazioni di notevole interesse per la magistratura. Tuttavia, Mannucci Benincasa non smise di aiutare il suo conoscente e, pur essendo in possesso di informazioni che avrebbero facilmente portato alla cattura di Cauchi, egli evitò accuratamente di farne parola con la polizia giudiziaria.
Per quanto riguarda il Segreto di Stato, esso venne molte volte posto quando le indagini vennero a trovarsi nelle condizioni di rivelare apparati occulti dello Stato, come l’Organizzazione Gladio. Per questo motivo, in alcuni casi i magistrati non furono in grado di risolvere importanti quesiti relativi alle stragi, dal momento che la loro soluzione avrebbe potuto portare alla luce anche altre verità scomode. Durante le indagini sull’attentato al treno Italicus e su altri attentati avvenuti in Toscana nello stesso periodo, il giudice istruttore del tribunale di Firenze, Rosario Minna, sottopose al direttore del SISMI un elenco di persone ed organizzazioni potenzialmente coinvolte in attentati. Lo scopo era di ottenere dai servizi segreti alcune informazioni non reperibili altrimenti. Dopo aver tergiversato a lungo, il SISMI secretò i fascicoli riguardanti i nominativi presi in causa e il giudice si trovò impossibilitato a procedere. Pochi anni dopo, nel 1977, la magistratura riuscì ad entrare in possesso di un documento della sede fiorentina del SISMI in cui si affermava che il già citato Cauchi fosse un collaboratore del SID (Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo, 2001).


Matteo Bulzomì – Scacchiere Storico
Matteo Bulzomì è laureato in Scienze Storiche presso l’università di Torino. Attualmente, è studente del M.A. in Israel Studies presso la Hebrew University of Jerusalem. Aspirante contemporaneista, i suoi campi di interesse principali sono la storia, la politica e la società del Medio Oriente in generale e le vicende dei conflitti arabo-israeliani in particolare.
Bibliografia
AA.VV., 2001, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Tipografia del Senato, Roma; Fasanella, G., Sestieri, G., Pellegrino, G, 2000, Segreto di stato, Einaudi, Torino; Giannuli, A., 2018, La strategia della tensione, Ponte alle grazie, Milano.
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