di Federica Fornasiero
Premessa
Chi è “il povero”? È davvero difficile cercare di rispondere a questa domanda, soprattutto perché questa condizione cambia nel tempo e nello spazio, parallelamente al variare del contesto in cui essa si sviluppa e si esplicita. Quest’ultima è inoltre legata a mutamenti naturali, economici, sociali, culturali e psicologici, nonché alla sensibilità con la quale ogni società ci si confronta. L’enciclopedia Treccani definisce la povertà – in senso generale e assoluto – come uno «stato di indigenza consistente in un livello di reddito troppo basso per permettere la soddisfazione di bisogni fondamentali in termini di mercato, nonché in una inadeguata disponibilità di beni e servizi di ordine sociale, politico e culturale» (Treccani.it, n.d.). Per definire il concetto di povertà si deve quindi considerare, analizzare e studiare il contesto storico, economico, sociale e culturale nel quale matura e si rivela. Inoltre, “povertà” non esprime una condizione o un’idea univoca e assoluta, bensì relativa non solo alla società in cui si esplicita, ma anche all’individuo che è parte di essa e che si percepisce più o meno adeguato agli standard socio-economici e culturali della comunità a cui appartiene. Essere povero è perciò uno status contingente e variabile (Albini, 2016; Geremek, 1985; Geremek, 1991; Mollat, 1982; Treccani.it, n.d.; Scandizzo, Zupi – treccani.it, 2000). La definizione di povertà – relativa soprattutto al Basso Medioevo – è «larga», per usare le parole di Michel Mollat (Mollat, 1982): il povero è pertanto colui il quale si trova – anche per un limitato periodo di tempo – in condizione di debolezza, di privazione, di mancanza e di dipendenza. Sovente, egli non ha opportunità di miglioramento economico o sociale e rimane dunque escluso dalla comunità: il povero è quindi spesso frustrato, vergognoso, asociale ed emarginato. Tra i poveri si annoverano inoltre coloro che hanno scelto un preciso e consapevole percorso religioso, spirituale e morale dedito alla privazione o all’elemosina. Povero è anche il mendico, la cui situazione è causata tanto da una scelta di vita (mendicante ozioso o fraudolento), quanto da una disgrazia, dalla vecchiaia, da una menomazione psico-fisica, da una contingenza (Mollat, 1982). Come allora ci si rapportava alla povertà nel Medioevo? È la dottrina cristiana a influenzare l’incontro – e talvolta lo scontro – con questa realtà. Accumulare ricchezza era infatti considerato un peccato, soprattutto a livello individuale (S. Benedetto specificava infatti che il monaco, in quanto individuo, non avrebbe dovuto possedere beni materiali, a differenza della comunità monastica, la quale però era comunque esortata a metterli a disposizione degli altri e soprattutto dei più deboli). Erano le Scritture a suscitare disprezzo per l’accumulo di beni materiali; per questo motivo ad esso si doveva trovare una sorta di compromesso, una giustificazione terrena ad uno sgarro spirituale: per poter salvare l’anima dal peccato, chi aveva più di quanto necessario doveva poter mettere a disposizione il surplus ai più bisognosi attraverso, per esempio, opere di carità, lasciti testamentari e soccorso agli indigenti. Ecco quindi che il povero – quello “vero e buono” – diveniva un’esigenza sociale e morale per la comunità (Albini, 2013; Albini, 2016; Geremek, 1991; Geremek, 1985; Mollat, 1982).

- Ambiguità nei confronti della povertà e i diversi volti dei poveri
Giuliana Albini, da tempo ormai dedita allo studio di realtà povere e marginali (Albini, Gazzini, 2011), spiega che «essere poveri significava, per la maggior parte di loro, accettare il proprio stato e rinunciare anche a desiderare un cambiamento, poiché nei secoli medievali predominava l’idea che la presenza della povertà fosse inevitabile» (Albini, 2016) e, aggiunge, «il povero doveva dunque essere aiutato a sopportare la propria miseria, ma non a liberarsi della povertà. Il ricco poteva e doveva rimanere ricco, ma aveva il dovere di utilizzare nel modo migliore le proprie ricchezze, i talenti che aveva ricevuto, facendone un uso produttivo; anche aiutare i poveri lo era, perché ciò avrebbe, nella vita ultraterrena, centuplicato i beni del donatore, secondo gli insegnamenti evangelici» (Albini, 2016; Mollat, 1982). Nel Medioevo infatti la povertà era un male estremamente diffuso e costante, si può dire endemico: molte persone vissero in situazioni precarie e di privazione, che sovente potevano sfociare anche nella rinuncia non solo al cibo e a una dimora fissa, ma anche agli affetti o alla libertà personale (Mollat, 1982). Vi erano comunque diversi gradi di povertà e diverse tipologie di bisognosi, i quali suscitavano reazioni diverse da parte della comunità (Mollat, 1982). Esistevano quindi diverse categorie di povero: il laborioso e l’indigens (coloro i quali, lavoratori, vivevano in una condizione di generale privazione e sacrificio, e che potevano facilmente soccombere a ogni tipo di imprevisto e calamità), il famelicus (l’affamato), il nudus (colui che non aveva alcun mezzo per vestirsi), l’infermo e il semplice, ma anche il vecchio, la vedova, l’orfano, la donna incinta; e ancora il captivus (privo di libertà personale), l’esiliato, il verecundus (il vergognoso, colui il quale era caduto in disgrazia, perdendo buona parte del patrimonio e una posizione sociale medio-alta) (vedasi Albini, 2017), lo spontaneo (dedito a una povertà volontaria e spirituale), il migrante (che esce dalle consuete e consolidate reti parentali o di vicinato), il pellegrino (spesso povero volontario, occasionale e temporaneo). La povertà poteva quindi essere volontaria, coatta o simulata. Nella società bassomedievale, pertanto, gli indigenti suscitavano sentimenti contrastanti, le cui nuances potevano variare dalla compassione e dalla condiscendenza verso il cosiddetto “povero cristo” (l’umile), all’ammirazione – riservata soprattutto al “povero in Cristo” – fino al disprezzo, al sospetto, al timore e alla ripugnanza che si provavano verso il rustico, l’asociale, il malato, lo straccione, il mendico, il vagabondo, l’ozioso e il farabutto (Mollat, 1982). Si credeva quindi che fosse necessario distinguere tra il povero “buono e vero” – facilmente riconoscibile, umile, disgraziato e verso il quale era possibile compiere opere di bene – e il povero “cattivo e falso” – sconosciuto, deprecabile, peccaminoso e indegno di poter vivere in comunità, verso il quale invece era lecito scagliare la mano repressiva della giustizia (Mollat, 1982).
Bisogna inoltre tenere a debita considerazione il fatto che la società Medievale non era così rigidamente immobile come si tende a pensare, tuttavia vi erano palesi condizionamenti che potevano impedire ad ambire a una migliore situazione personale. Questi limiti alla mobilità sociale erano sovente legati a fattori economici, giudiziari, psicologici e religiosi: era particolarmente diffusa la convinzione che non fosse opportuno aspirare al miglioramento dello status che Dio aveva conferito ai suoi fedeli. Specifici precetti e insegnamenti religioso-ecclesiastici portavano pertanto gli individui a rassegnarsi alla propria condizione sociale, imposta proprio dalla volontà divina: la povertà diveniva dunque un male utile e necessario, tanto al povero paziente e umile – immagine del Cristo in terra – quanto al ricco – che poteva salvare la propria anima tramite l’elemosina e la carità (Albini, 2016; Geremek, 1991; Mollat, 1982).
- Carità: una necessità morale, spirituale e sociale

La povertà era necessaria alla società, anche e soprattutto da un punto di vista religioso-spirituale, poiché permetteva al povero di trasfigurarsi in Cristo e al ricco di poter salvare la propria anima. Cesario di Arles (III-IV secolo) predicava ed esaltava la necessità del povero: quest’ultimo doveva essere sì assistito, ma non era assolutamente possibile redistribuire le ricchezze per eliminare l’indigenza, altrimenti il ricco non avrebbe potuto ottenere la salvezza eterna attraverso opere pie, elemosina o atti caritativi (Albini, 2016). È bene però approfondire questo concetto, che evolve e si trasforma parallelamente ai mutamenti economico-sociali che intercorsero principalmente a partire dal XII secolo.
Il cristianesimo è stato un importante elemento di coesione nella società medievale europea: le Sacre Scritture e le riflessioni dei Padri della Chiesa sono state tra le basi sulle quali modellare la società occidentale. Il cristianesimo delle origini – ispiratosi alle vite di Cristo e degli Apostoli, e che si espresse in diverse delle prime comunità cristiane, soprattutto in quella di Gerusalemme – plasmò il monachesimo eremitico e comunitario; influenzò inoltre alcune delle esperienze conosciute e bollate come “eretiche”, che fecero del ritorno al cristianesimo delle origini i capisaldi dell’interpretazione religiosa (basti pensare a Valdo e ai Poveri di Lione). Tali scelte di vita – ortodosse ed eterodosse – prevedevano la comunanza della vita spirituale, dedita alla povertà e al sacrificio, e delle proprietà. La povertà, soprattutto se volontaria, avvicinava quindi il fedele all’esperienza di Gesù – re dei re, che rinunciò a tutto per l’umanità – e, conseguentemente, al Padre (Albini, 2016; Geremek, 1991; Mollat, 1982).
L’Europa assistette tra XI e XIII secolo a un notevole sviluppo economico-mercantile e demografico, che condusse a un decisivo mutamento socio-economico e culturale. La società palesò una maggiore articolazione parallelamente alla crescita demografica e allo sviluppo di un’economia monetaria (Albini, 2013). Oltre al miglioramento delle condizioni di vita dei ceti artigiano-mercantili e a una nuova concezione legata allo status sociale e al denaro, tale progresso scardinò l’originaria concezione della povertà. La ricchezza non era più un segno distintivo del nobile – abile nel combattimento, ricco e potente per nascita – ma anche del mercante, specialmente urbano, che si arricchì grazie al suo lavoro, allo studio e alle sue abilità “imprenditoriali”. Il nuovo legame con la moneta suscitò però diversi problemi morali: come si poteva accumulare ricchezze, senza cadere nella tentazione del prestito e dell’usura? Come si riusciva a sconfiggere il peccato dell’avarizia? Cambia inoltre il binomio legato alla povertà: se dapprima la si contrapponeva all’invidia (nei confronti del ricco, del nobile) o alla superbia del ricco stesso, ora la si contrapponeva all’avarizia, tratto caratteristico del mercante, dedito all’accumulo e all’ostentazione di ricchezze (Geremek, 1991). Come era possibile allora espiare i propri peccati e ambire alla salvezza dell’anima? La risposta rimase pressoché inalterata: ci si poteva salvare attraverso atti di misericordia e di carità nei confronti dei più bisognosi, attraverso donazioni, lasciti ed elemosine. A partire dal XII secolo circa, si andò verso una maggiore istituzionalizzazione delle opere caritative: inizialmente, il beneficiario principale della carità laica era la Chiesa, che organizzò conventi, ospedali e confraternite dediti appunto alla raccolta e alla successiva distribuzione delle elemosine a sostegno dei poveri. Sulla scorta di quanto organizzato dalle istituzioni ecclesiastiche, anche la comunità laica, le magistrature comunali e le signorie si impegnarono ad organizzare reti assistenziali, che potessero sostenere i ceti subalterni o impoveriti e che potessero arginare problemi di ordine pubblico in un momento in cui i primi sintomi della crisi del XIV secolo iniziavano a manifestarsi (Albini, 2015; Geremek, 1991; Mollat, 1982; vedasi inoltre i contributi di Albini G. e Gazzini M. relativi alle istituzioni ospedaliere segnalati in bibliografia). «Alle autorità comunali non mancavano dunque i motivi per moltiplicare i loro interventi nell’ambito dell’assistenza. Le distribuzioni a mendicanti più numerosi, la gestione finanziaria degli ospedali, la tutela degli orfani, la salubrità della città costituivano altrettanti problemi d’interesse comune. La sfavorevole soluzione della congiuntura, a partire dalla fine del XIII secolo, invitava a soluzioni nuove e chiare» (Mollat, 1982; vedasi inoltre Albini, 2013). Per citare Giuliana Albini «nella tarda età comunale si intravvedono forti segnali di mutamento nella gestione di quelli che oggi potremmo definire “servizi sociali”. Se infatti nei secoli precedenti l’aiuto ai bisognosi era ricaduto, sotto forme diverse, pressoché esclusivamente sulle istituzioni ecclesiastiche (vescovi, chiese, monasteri, ordini religiosi, xenodochia, hospitalia, confraternite), pur con una forte partecipazione dei laici, nel corso del XIII secolo si intravvedono segnali di una più forte presenza delle autorità civili, con forme dirette o indirette, certamente non tali da mettere in discussione il primato della carità cristiana, ma da introdurre elementi nuovi, in particolare di controllo e di aiuto ad istituzioni che si dedicavano a sostenere i ceti deboli della società, oltre all’individuazione di prassi di governo utili a contenere gli effetti negativi delle crisi di sussistenza» (Albini, 2015).
Non va inoltre dimenticato che l’opera di Francesco d’Assisi e più in generale degli Ordini Mendicanti sollecitò e incrementò la pratica della carità “laica”, non solo grazie alla predicazione, ma anche e soprattutto attraverso l’esempio materiale di una vita dedicata a sacrifici quotidiani, penitenze ed elemosina, nonché alla vera e propria condivisione della condizione di povertà con la massa di indigenti (Albini, 20151).
- Conclusione

La condizione di povero cambia nel tempo e nello spazio, in base soprattutto a sollecitazioni economico-sociali e culturali. Nel Basso Medioevo, la povertà si declinava in diverse categorie, per le quali si provavano sentimenti contrastanti, che potevano esprimersi in atti di compassione e carità o che potevano sfociare in atteggiamenti discriminatori e repressivi. Tuttavia, la carità verso il povero buono, vero e onesto si fondava sugli insegnamenti evangelico-apostolici e sulle esperienze dei Padri della Chiesa, che influenzarono notevolmente l’azione degli ordini monastici medievali, soprattutto di quelli Mendicanti. A partire dal XII secolo circa, in Europa di assistette a una notevole crescita economica, demografica, culturale e sociale, che cambiò anche il rapporto che si ebbe con la povertà. Anche istituzioni laiche, private, comunali e successivamente signorili, iniziarono a impegnarsi profusamente nell’accoglienza e nel sostentamento dei più bisognosi, anche attraverso l’istituzione, la progettazione e l’organizzazione di confraternite e ospedali volti proprio alla carità, all’elemosina e all’aiuto dei “poveri cristi”.

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico
Federica Fornasiero è medievista e laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Nella sua tesi si è occupata di sindacato podestarile nel Trecento e dello studio delle fonti ad esso relative nel Comune di Reggio Emilia. I suoi interessi principali sono la storia sociale, economica e di genere, ma non disdegna anche la storia delle chiese e delle eresie medievali.
Bibliografia
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