LA BATTAGLIA DI CASCINA: INGANNI E STRATEGIE IN UNO SCONTRO TARDO-MEDIEVALE

di Matteo Nasi

1. Lotte tra fazioni

Per poter parlare della battaglia di Cascina del 1364 occorre fare un salto indietro di almeno un secolo. La morte di Federico II (dicembre 1250) e quella del suo unico erede legittimo, Corrado IV, fecero precipitare il regno di Sicilia nel caos. Dopo cinque anni di guerra civile – durante i quali si affrontarono il figlio omonimo di Corrado, detto Corradino, il figlio illegittimo di Federico, Manfredi, e i papi – fu Manfredi a uscirne vittorioso, venendo incoronato re di Sicilia nel 1258. Il fattore decisivo che portò alla sua vittoria fu l’arruolamento di cavalieri tedeschi mercenari e dei saraceni di Lucera, i quali trasferirono su Manfredi il vincolo di fedeltà che li legava al defunto padre (Cortonesi, 2008).

La situazione del settentrione italiano non era esente da conflitti. La scomparsa di Federico II aveva causato la nascita di grandi dominazioni sovra-cittadine, governate dai personaggi più famosi dell’epoca: Ezzelino da Romano in Veneto, il milanese Martino della Torre, nella Lombardia nord-occidentale, e Oberto Pelavicino, tra Lombardia meridionale ed Emilia. Le caratteristiche di questi signori furono legate soprattutto a successi in ambito militare. A comporre le file dei loro eserciti erano infatti soldati di diverse provenienze, e la tattica di utilizzarli in modo coordinato giocò a loro vantaggio in diverse occasioni, come nella battaglia di Cassano d’Adda (1259) (Grillo, Settia, 2018). 

Miniatura del Codex Manesse raffigurante Corradino di Svevia all’età di 14 anni, XIV secolo (fonte: Wikipedia)

Simile, per composizione degli eserciti, fu la battaglia di Montaperti, che sancì la vittoria degli alleati di Manfredi contro le forze guelfe. Non fu solamente uno scontro tra città vicine, ma regionale: l’esercito fiorentino comprendeva al suo interno truppe provenienti dalle città toscane alleate; i senesi, invece, potevano contare sui cavalieri tedeschi mandati dall’alleato Manfredi, e sui fuoriusciti fiorentini. Vista la supremazia militare conquistata da Manfredi, con la vittoria a Cassano d’Adda e Montaperti, papa Urbano IV si vide costretto a chiamare in Italia Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia e conte di Provenza (Grillo, Settia, 2018). 

Anche le forze militari del conte francese erano composite: infatti, fanti e balestrieri provenivano dalla Francia settentrionale, dalla Provenza e dai centri guelfi italiani. A Benevento (1267), egli inflisse una sconfitta totale a Manfredi, il quale trovò la morte sul campo. La superiorità strategica di Carlo fu fondamentale per la vittoria: impostando un conflitto di natura statica, durante il quale le forze nemiche non poterono sfruttare la loro supremazia sul movimento, i fanti italiani e provenzali riuscirono a colpire i nemici ormai immobilizzati (Grillo, Settia, 2018). 

A Tagliacozzo, ancora una volta le forze di Carlo ebbero la meglio sull’ultimo erede della casata sveva, Corradino: decisivo fu l’utilizzo di una forza nascosta di riserva, in grado di assicurare l’effetto sorpresa, piombando sull’esercito nemico e mettendolo in rotta. Lo stato di guerra endemica tra la Sicilia e i regni continentali (dovuto anche ai Vespri siciliani) impose agli angioini di riorganizzare l’esercito e di rivalutare la pratica del servizio feudale, così da contare su forze sufficienti in grado di opporsi ai nuovi nemici (Grillo, Settia, 2018).

2. Il sistema delle taglie

Il prolungamento dei conflitti nel settentrione tra guelfi e ghibellini e la necessità di coordinamento sempre più serrato tra gli alleati delle due parti, vide sul piano militare la nascita del sistema delle taglie, reparti di mercenari finanziati collettivamente dalle città di uno stesso schieramento. I contingenti arruolati non erano superiori a qualche centinaio di uomini, ma erano molto preziosi, poiché erano combattenti professionisti in servizio continuato. La prima taglia ad essere costituita fu probabilmente quella di Lombardia, dopo che i rapporti di forza erano passati in favore dei Ghibellini a Milano a causa della caduta del regime torriano (Grillo, Settia, 2018).

Nel 1277, le città guelfe della Lombardia orientale e dell’Emilia decisero di assoldare 400 cavalieri di origine non lombarda. Allo stesso modo, i comuni filoimperiali misero in cantiere una grande alleanza al comando di Guglielmo VII del Monferrato.  Oltre alla taglia di Lombardia, nello stesso periodo venne a formarsi la taglia di Toscana, in relazione alla crisi politica e militare angioina, originatasi in Piemonte nel 1281 e culminata nel 1282 con i Vespri siciliani. I comuni aderenti alla lega dovevano mantenere a spese comuni un contingente di circa 500 cavalieri stranieri, e dal 1302, erano inclusi pavesari professionisti, fanti e balestrieri. A capo di queste formazioni militari si trovava un capitano, scelto tra l’aristocrazia rurale dell’Italia centrale (Grillo, Settia, 2018).

A partire dal XIII secolo, a causa della progressiva riduzione del numero di cittadini dei comuni disponibili a portare le armi, quest’ultimi ricorsero alle truppe mercenarie: professionisti delle armi soprattutto di origine tedesca, seguiti da francesi e catalani. L’attacco perpetrato dai regimi popolari contro i privilegi della cavalleria urbana – in termini di ripartizione del bottino, riscatto dei prigionieri e rimborso dei danni subiti – ebbe un peso rilevante nei cambiamenti miliari all’interno degli eserciti comunali. La prospettiva di perdita di guadagno, in un’attività onerosa come la cavalleria medievale, contribuì certamente a scoraggiare i più (Grillo, Settia, 2018). 

Anche le unità di fanteria confluirono nelle compagnie di popolo: sia perché vennero usate come mezzo principale per la repressione della violenza magnatizia e dei dissidenti politici dei nuovi regimi in via di formazione, sia perché anche fra chi combatteva a piedi si formò un’ingente quantità di professionisti disponibili, soprattutto balestrieri. Con l’ascesa delle sovrastrutture cittadine, si sviluppò ulteriormente il sistema del mercenariato dalla prima metà del XIV secolo (Mallet, 1983).

3. Le compagnie di ventura

Secondo il cronista William di Malesbury, la maggior parte dell’esercito che nel 1066, agli ordini di Harold, cercò senza successo di contrastare l’invasione normanna ad Hastings era composto da mercenari e da stipendiari. Per quanto riguarda i soldati, si parla di stipendiari quando erano reclutati con ferma permanente e immediatamente pagati, mentre di mercenari quando sono ingaggiati pro tempore con contratto a termine, che viene concluso al termine della guerra stessa. Gli eserciti dei re e degli imperatori del medioevo europeo conoscono quindi, già molto prima di Cascina, l’uso di assoldare soldati professionisti non autoctoni (Balestracci, 2003).

In Italia, si ricorse a queste figure per via dello stato di guerra endemico tra le città comunali in lotta con le signorie vicine e, soprattutto per le continue tensioni politiche tra fazioni. I mercenari integrarono le forze del comune composte dalla milizia cittadina, e protessero anche il podestà durante le lotte intestine. Le più antiche compagnie di ventura nacquero, infatti, come corpi di polizia e guardie del corpo degli ufficiali cittadini (Balestracci, 2003).

Se ci spostiamo in altri Stati europei, la mutazione degli eserciti dei sovrani nel XIV secolo è lampante: in Inghilterra, l’esercito reale era composto in larga parte da mercenari, mentre in Francia si fece ricorso al fenomeno delle condotte mercenarie per le guerre del sovrano. Dal Sacro Romano Impero fuoriuscì la maggior parte dei soldati di professione dell’epoca, i quali combatterono per i signori locali o per altri committenti più lontani. Ma come si reclutavano i soldati? Nel Duecento era uso comune reclutare il singolo uomo d’arme con tutti i suoi collaboratori poi, dalla metà del secolo, ci si affidò a un “tecnico” del settore: un conestabile, un caporale reclutatore. La “conestabileria” era infatti un contingente assoldato tramite questo sistema di “impresario” e consisteva in una squadra composta dai venticinque ai cento combattenti a cavallo. Dal Trecento però si affermò la tendenza ad arruolare intere compagnie che, grazie alla loro struttura militare a più schiere, avevano la possibilità di mettere in campo molti più uomini, organizzati in barbuta, cioè un’unità da combattimento di due persone (la barbuta era un tipo di elmo che lasciava scoperti solo naso e bocca, usato in modo particolare dai cavalieri tedeschi) (Balestracci, 2003).

La battaglia di Montaperti in una miniatura di Pacino di Buonaguida, XIV secolo (fonte: terzopianeta.info)

Tra XIII e XIV secolo, l’introduzione dell’arco lungo e della balestra nell’armamento del soldato contribuì sempre di più alla loro professionalizzazione: un esempio lampante furono i balestrieri (i genovesi erano considerati i migliori) temibili in battaglia grazie ai potenti verrettoni sparati a una notevole velocità, in grado di perforare facilmente le armature nemiche. Ma anche il longbow inglese non scherzava: ad esempio, ad Azincourt (1415), gli arcieri inglesi ebbero il sopravvento sull’esercito francese (Balestracci, 2003).

Alcune terre più di altre contribuirono alla formazione militare dei mercenari. A Campaldino (1289), Amidigi di Narbona combatté nell’esercito fiorentino con qualche centinaio di cavalieri angioini: questi soldati di professione, scesi con il sovrano in Italia, all’epoca si potevano trovare in molti altri comuni. Il conflitto svoltosi a Milano tra i Della Torre e gli esuli oppositori politici, vide scontrarsi due opposte compagnie di ventura: una tedesca per i primi e una di castigliani per i secondi. Nel primo trentennio del Trecento, i mercenari tedeschi calarono in Italia al seguito di Enrico VII di Baviera prima, e di Ludovico il Bavaro poi (Balestracci, 2003).

Anche Verona, Treviso e Vicenza fecero uso di masnade teutoniche. Nel 1342, a Padova combatterono al soldo dei Da Carrara contro un altro uomo d’arme, Cangrande della Scala. Inoltre, i migliori condottieri di compagnie mercenarie presenti in Italia in quel periodo erano tedeschi. Ogni passaggio di sovrani o di signori in Italia causò la permanenza sul territorio di un gran numero di soldati di professione stranieri: non è sempre facile assegnare loro in modo preciso un’identità etnica, anche perché era conveniente assoldare gruppi eterogenei. Nel suo trattato del 1326, Teodoro da Montefeltro consigliò infatti al signore di avere mercenari provenienti da nazioni diverse: qualora i soldati non si fossero capiti tra loro, sarebbe stato meno probabile che si coalizzassero contro chi li aveva assoldati (Balestracci, 2003).

4. La compagnia Bianca

Così lo scrittore milanese Azario descrisse i mercenari della compagnia: «alcuni soldati avevano armature per il busto, altri indossavano farsetti di cuoio indurito; alcuni uomini avevano bacinetti senza visiera, altri non avevano elmetti» (Caferro, 2020). Il Villani, un altro cronista contemporaneo alla discesa della compagnia in Italia, li descrisse con armature che apparivano «come specchi», riferendosi probabilmente al riflesso della luce del sole sulle bianche corazze (Caferro, 2020). 

In realtà, i due cronisti osservarono la masnada da punti di vista differenti: Azario li vide subito dopo che essi valicarono le Alpi; il Villani, invece, fu testimone della compagnia alcuni anni dopo, quando questa si era arricchita grazie agli anticipi dei pagamenti da parte della città di Pisa. Sappiamo dalle fonti che i soldati, durante la discesa in Lombardia, si comportarono con poco onore: depredarono villaggi, violentarono donne, mutilarono civili e maltrattarono prigionieri (Caferro, 2020). 

Quale era il loro modo di fare la guerra? Sempre Azario descrisse come i soldati, nelle battaglie campali, erano soliti smontare da cavallo e combattere a piedi con lunghe lance, spesso afferrate da due o tre di loro. Dietro alle file di lance erano posti gli arcieri con archi lunghi. Villani descrisse la tipica formazione inglese da battaglia come «pressoché rotonda», con due soldati reggenti un’unica lancia, paragonando così il loro modo di combattere «alla maniera in cui uomini armati di picche danno la caccia a un cinghiale» (Caferro, 2020). 

La compagnia bianca infatti introdusse in Italia l’unità di cavalleria detta “lancia”: consisteva in un uomo d’arme aiutato da uno scudiero e da un paggio, ciascuno con il proprio cavallo. Questa formazione era efficace nei combattimenti a piedi, perché durante il combattimento il paggio si prendeva cura dei cavalli, mentre lo scudiero portava scorta e aiuto al soldato (Caferro, 2020).

5. I condottieri

Chi erano i capitani di ventura? Uomini valorosi, certo, ma il loro valore non consisteva ormai più nell’ideale cavalleresco dei secoli scorsi, tutt’altro. Questi personaggi riuscirono a tenere insieme la masnada della compagnia grazie ai loro atti di guerra e al carisma dimostrato in battaglia. La paura e il rispetto che infondevano nei soldati provenivano in larga parte dalle azioni spesso cruente intraprese in battaglia, dalla stazza fisica o perfino dal loro linguaggio, a volte rude, altre volte forbito. Nell’epoca dei soldati di professione, il mestiere delle armi era ancora appannaggio dei nobili, a causa dell’elevato ammontare dei costi di mantenimento per armi, cavalli ed equipaggiamento (Balestracci, 2003). 

Una buona massa di condottieri proveniva infatti da famiglie aristocratiche, ma non tutti: un soldato non nobile poteva conquistare la fama grazie al ruolo di condottiero, se abile abbastanza con il ferro. Fra Moriale, Werner von Urslingen, Konrad von Landau furono personaggi provenienti dalla nobiltà minore, quella nicchia che non poté permettersi uno status sociale basandosi solo sulle poche rendite signorili.  La maggior parte dei condottieri di origine italiana – come Braccio da Montone o Lodrisio Visconti – erano esuli costretti a lasciare la propria città d’origine a causa della sconfitta della fazione politica di appartenenza. È interessante la storia di Braccio da Montone, perché può essere considerato uno dei primi capitani a reclutare un esercito “nazionale” italiano, composto da soli umbri (Balestracci, 2003). 

Chi già possedeva una patente di nobiltà poteva fare comunque fortuna. È il caso di Alberigo da Barbiano che nel 1378 venne investito del titolo di “cavaliere di Cristo” dal papa, come ricompensa per aver sconfitto l’esercito dell’antipapa Clemente VII. Ricevette inoltre riconoscimenti più concreti da Carlo di Durazzo, che lo assoldò per sconfiggere Luigi d’Angiò: infatti, lo nominò connestabile del regno nel 1384, donandogli alcuni anni più tardi anche terre e possedimenti. Tuttavia, non tutti questi signori della guerra riuscirono a crearsi la loro fortuna. Albert Sterz, primo capitano della Compagnia Bianca, fu decapitato dai perugini nel 1366, perché sospettato di tradimento; Fra Moriale venne catturato da Cola di Rienzo nel 1354 e giustiziato (Balestracci, 2003).  

6. La battaglia di Cascina: un esempio di inganni e strategie

Nel contesto della guerra pisano-fiorentina John Hawkwood (italianizzato in Giovanni Acuto) iniziò la sua carriera come capitano di ventura, al comando dell’esercito pisano. Le cause della battaglia di Cascina (1364) furono le rivendicazioni territoriali delle due città. Nel 1356, Pisa irritò Firenze stabilendo un dazio sui beni fiorentini che entravano dal suo porto. Firenze rispose instradando la sua mercanzia attraverso il porto senese di Talamone. Le tensioni tra i due comuni toscani esplosero violentemente nel maggio 1362, quando Firenze conquistò Pietrabuona, città oggetto di contese (Caferro, 2020). 

La battaglia di Cascina, di Bastiano da Sangallo, 1542 (fonte: Wikimedia)

Fu solo dopo l’ultima campagna militare che i pisani assoldarono la Compagnia Bianca, nonostante l’enorme costo. La morte del comandante fiorentino Pietro Farnese aumentò le possibilità dei pisani di riportare qualche vittoria in questa nuova fase della guerra. Così i pisani accorparono le forze mercenarie al loro esercito, comandato dall’esule fiorentino Ghisello degli Ubaldini. All’epoca, Acuto era solamente un caporale, visto che il comando della Compagnia Bianca era affidato ad Albert Sterz (Caferro, 2020).

Questa battaglia rappresentò soprattutto una sconfitta per il condottiero inglese. Il modo di combattere in Italia nel XIV secolo consisteva, nella maggior parte dei casi, in incursioni nel territorio nemico, aventi come obiettivo la distruzione delle strutture fisiche, nell’incendiare raccolti, razziare bestiame e danneggiare i terreni. Un elemento fondamentale per comprendere le guerre in Italia in quel contesto storico è che le signorie italiane tendevano a non intraprendere battaglie campali, a meno che non disponessero di un vantaggio chiaro e schiacciante. I militari italiani seguivano l’indicazione di Vegezio: «l’attacco deve essere portato in condizioni favorevoli»; e ancora: «i buoni generali non attaccano quando il rischio è comune» (Settia, 2022). 

Di particolare importanza era la fase di raccolta delle informazioni per la quale si sfruttava una vasta rete di spie. Infatti, le guerre di logoramento italiane rendevano necessari questi servizi, utili per conoscere il territorio nemico e la composizione dei suoi effettivi. Non da ultimo, le campagne militari erano progettate per infliggere il maggior danno al nemico: si cercava in tutti mezzi di destabilizzarlo dal punto di vista economico, sociale e politico, soprattutto rendendogli impossibile il commercio e l’approvvigionamento. La tensione aumentava anche quando i consiglieri militari indirizzavano gli eserciti attraverso o vicino città in territorio nemico, alimentando così il dissenso sociale. Durante la battaglia di Cascina, Giovanni Acuto si servì di astuti stratagemmi per mettere in difficoltà l’avversario, un modus operandi che si ripeterà anche nel corso delle sue successive battaglie. Il condottiero, infatti, studiava la struttura fisica del terreno di scontro. Inoltre, disponeva le sue armate in modo tale che il vento gli rimanesse alle spalle, così che la polvere arrivasse dritta negli occhi del nemico; infine, mantenendo il sole dietro lo schieramento, limitava di molto la capacità visiva dell’avversario: per questo motivo si pensa che Acuto fosse tra i ranghi inglesi durante il combattimento (Caferro, 2020). 

Il capitano dell’esercito fiorentino, Galeotto Malatesta, si era accampato presso Cascina. Acuto diede ordine ai suoi cavalieri di smontare da cavallo presso San Savino e di avanzare a piedi, strategia utile ad aumentare l’effetto sorpresa. Villani sostiene che il capitano spronò i suoi uomini alla battaglia parlando del bottino ricavato dai prigionieri; secondo il cronista fiorentino, Acuto definì i fiorentini come «ignoranti nell’uso delle armi» (Caferro, 2020). 

Prima di prepararsi al conflitto vero e proprio, Acuto simulò una serie di attacchi nelle vicinanze dell’accampamento fiorentino, in modo tale da suscitare nei nemici la sensazione di allarme costante.

In questa battaglia, il mercenario fece pochissimo uso degli arcieri con arco lungo, a causa delle recenti defezioni. Al calare del pomeriggio, l’esercito pisano raggiunse il campo fiorentino, appostandosi dietro le barricate. L’avanguardia di Acuto prese d’assalto le difese nemiche, le quali però reagirono prontamente scagliando su di essa i verrettoni dei balestrieri genovesi, nascosti nelle case e nei pubblici edifici. I capitani tedeschi al soldo dei fiorentini si lanciarono contro l’avanguardia inglese; il diarista fiorentino Giovanni Morelli narra che Rudol Hapsburg (definito nelle cronache “Conte senza barba”) non si curò delle difese, gridando: «aprite le barricate al Conte Senzabarba» (Caferro, 2020).

La svolta per l’esercito fiorentino arrivò dopo diverse ore: sempre secondo Villani, Manno Donati, un commissario fiorentino non militare, accerchiò le truppe di Acuto isolando in questo modo l’avanguardia pisana dal resto dell’esercito. Il mercenario inglese, trovandosi nelle retrovie, ordinò la ritirata: con la speranza di ridurre al minimo le perdite, abbandonò al loro destino gli altri soldati bloccati nello scontro. L’esito fu disastroso. Si racconta che Acuto perse perfino il suo gonfalone di battaglia, un vessillo di raso nero, strappatogli da un capitano tedesco (Caferro, 2020). 

Aggiungiamo una nota di colore: Villani definì l’accampamento fiorentino più simile a un “campo estivo” che non a uno militare; i soldati gozzovigliavano infatti fuori dalla città di Cascina in cerca di cibo e bagnandosi nell’Arno, complice il gran caldo estivo. Galeotto Malatesta, dal canto suo troppo anziano per garantire una ferrea disciplina suoi propri soldati, se ne stava al sicuro dietro le barricate schiacciando sonnellini, senza effettuare perlustrazioni per intercettare movimenti nemici (Caferro, 2020).

7. Gli errori del condottiero

Gli umanisti Riccardo Bruni (morto nel 1444) e Poggio Bracciolini (morto nel 1459), furono tra i primi a elogiare la grande bravura di Giovanni Acuto a Cascina, lodandone la destrezza nelle armi come quella di un «uomo abilissimo» e che era «accorto nelle arti miliari e molto esperto in guerra» (Caferro, 2020). Questi due esponenti dell’umanesimo fiorentino ispirarono a Firenze la venerazione per il capitano inglese, nonostante gli errori commessi durante la battaglia (Caferro, 2020). Infatti, Acuto non seppe prima di tutto controllare i soldati i soldati pisani, indisciplinati e poco coordinati in battaglia: questa era una sua responsabilità, visto che tra le competenze di un capitano era richiesta la capacità di gestire i propri uomini (Caferro, 2020). 

Calcografia di Giovanni Acuto all’interno de Ritratti di cento capitani illustri con li lor fatti in guerra, 1596-1600 (fonte: Wikimedia)

Come ricorda anche il Villani, il condottiero fece un altro pesante errore tattico, calcolando male la distanza tra San Savino e Cascina, dove era situato il campo Fiorentino, immaginando invece di percorrere una strada più corta e meno sfiancante. L’errore costò caro ad Acuto, perché i suoi uomini arrivarono già stanchi e logorati a causa del caldo soffocante di quella giornata; inoltre, alcuni di loro morirono poco prima dello scontro, dato che si gettarono nell’Arno per placare la sete con le armature ancora addosso. Questo errore logistico era già stato commesso in passato (Caferro, 2020).

Se è vero che Giovanni Acuto fu il più famoso e richiesto capitano di ventura in Italia, è vero anche che la sua fama, conquistata grazie alle gesta compiute in battaglia, è frutto spesso di una storiografia viziata, come il lavoro di Temple-Leader e Marcotti risalente alla fine dell’800, appesantito dalla visione fanatica e nazionalista dei due storici. Un’esistenza passata sotto diversi signori e principati, a volte lottando persino contro vecchi committenti rende ancora più difficile il compito dello storico contemporaneo che voglia tracciarne una biografia accurata, magari concentrandosi su punti di vista non ancora presi in esame (Balestracci, 2003). 

Tralasciando i tecnicismi, Giovanni Acuto è un personaggio che si presta moltissimo ad essere raccontato e scoperto ancora oggi, attraverso i media contemporanei, perché il bello della storia medievale è che non smette mai di regalarci insegnamenti e divertimento, ancora mille anni dopo.

Matteo Nasi

Matteo Nasi è laureando in Scienze Storiche presso l’Università di Bologna. Appassionato in particolare di storia militare medievale, è anche un amante del teatro su testo e di improvvisazione.

Bibliografia

Balestracci D., Le armi, i cavalli, l’oro. Giovanni Acuto e i condottieri nell’Italia del Trecento (Laterza, 2003); Caferro W., Giovanni Acuto. Un mercenario inglese nell’Italia del Trecento (Biblioteca Clueb, 2020); Contamine P., La guerra nel medioevo (il Mulino, 2014); Cortonesi A., Il medioevo, profilo di un millennio (Carocci editore, 2008); Godi G., John Hawkwood in Romagna, capitanus, miles, faber (1376-1381) (Società di studi romagnoli, 2017); Grillo P., Settia A., Guerre ed eserciti nel medioevo, (il Mulino, 2018); Mallet M., Signori e mercenari, La guerra nell’Italia del rinascimento (Biblioteca Storica il Mulino, 1983); Settia A., Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo (Laterza, 2022).

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Pubblicato da Scacchiere Storico

Rivista di ricerca e divulgazione storica

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