DONNE CRIMINALI NEL BASSO MEDIOEVO: STORIA SOCIALE E STORIA DI GENERE

di Federica Fornasiero

  1. Premessa

Negli ultimi trent’anni circa la storia sociale e la storia di genere hanno avuto un impulso notevole; la ricerca di un nuovo tipo di fonti e soprattutto di nuovi protagonisti della Storia ha sicuramente ampliato lo spettro storiografico (Innesti, 2004; Casanova, 2016; Minnucci, 2011). Se in precedenza la Storia la facevano i grandi personaggi – su cui si è spesso ampiamente scritto e dibattuto e sui quali talvolta si ha una mole documentaria importante – durante gli ultimi decenni si è iniziato a dare voce anche a coloro i quali sono rimasti marginali tanto nel passato cronologico, quanto nel presente storiografico. Una nuova attenzione ai più poveri, ai più deboli, agli sfruttati e agli emarginati permise di aprire la Storia alla grande massa di individui comuni, portando così alla luce un caleidoscopio di nomi, soprannomi, storie personali e quotidiane, che hanno lasciato traccia principalmente nelle fonti giudiziarie, anagrafiche o relative a enti assistenziali laici e religiosi nel Basso Medioevo. Anche le donne, a lungo escluse dalla società “maschile” e di conseguenza dalla storiografia, hanno iniziato ad attirare l’attenzione degli storici e delle storiche. Stiamo parlando non più solo di grandi figure femminili del passato, il cui elenco spesso risulta quasi una litania religiosa (Matilde di Canossa, ora pro nobis, Christine de Pizan, ora pro nobis, Caterina da Siena, ora pro nobis), ma anche di donne comuni, la cui quotidianità fu frammentariamente riportata soprattutto nella documentazione precedentemente segnalata. Sorge però un problema per chi, come me, vorrebbe occuparsi di una tematica tanto affascinante e ancora ricca di spunti e riflessioni: la presenza muliebre nelle fonti medievali è per lo più scarsa ed è sicuramente inferiore alla presenza della controparte maschile. Questo articolo si propone quindi di spiegare quali siano le cause di questa penuria di informazioni a livello documentario e della conseguente lacuna storiografica che ne derivò, nonché di riflettere sulla criminalità femminile nel Basso Medioevo. Si vorrà inoltre presentare un contributo di genere, che non si limiti alla mera storia femminile, ma che consideri quindi l’imprescindibile rapporto tra i sessi nella società. Una società che non dimentichiamoci essere intimamente patriarcale e a misura d’uomo (Crouzet-Pavan, 2004; Sbriccoli, 2004); Giulia Calvi chiarì nella sua introduzione alla curatela Innesti. Donne e genere nella storia sociale: «Il dominio maschile (…) è l’espressione di un rapporto sociale di disuguaglianza del quale è possibile studiare i congegni e doveroso delineare le specificità» (Innesti, 2004).

Dettaglio di Giotto, Cappella degli Scrovegni, 1303-1305, Padova (fonte: Wikimedia)
  1. La doppia marginalità femminile: luoghi comuni e approccio di genere

Nel 2004, Elisabeth Crouzet-Pavan scrisse: 

«Leggendo la bibliografia più recente, s’impone almeno una constatazione. Mentre, per quanto riguarda gli ultimi secoli del Medioevo, la storia della giustizia, del crimine e delle devianze non cessa di svilupparsi, le problematiche della storia di genere hanno attraversato ben poco questo settore. (…) Insomma, la costatazione preliminare è che, rispetto ad altri periodi storici, per il tardo Medioevo prevale (nonostante recentemente si siano registrate alcune nette inversioni di tendenza) una relativa povertà storiografica, sia riguardo allo studio di casi particolari, sia riguardo a più generali riflessioni metodologiche» (Crouzet-Pavan, 2004; cfr. Dossena, 2018; Minnucci, 2011).

Si sono sicuramente fatti grandi passi in avanti, come appunto iniziava a suggerire la Crouzet-Pavan nell’ormai lontano 2004, tuttavia rimane ancora estremamente interessante e stimolante l’approccio di genere alla documentazione giudiziaria. Vi è ancora un ampio margine per inedite riflessioni in merito alla condizione femminile in relazione ad un contesto precipuamente maschile. Come abbiamo precedentemente accennato, l’attenzione degli storici e delle storiche si è rivolta tardivamente alla condizione della donna comune, la quale, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, inizia a presentarsi come valido argomento di studi. Tali disamine si sono sempre più concentrate sulle fonti giudiziarie. Quali dati si possono quindi desumere dall’analisi di queste testimonianze documentarie? Ma soprattutto, quale è stato l’iniziale approccio della storiografia a questi riscontri documentari? Per meglio spiegare quest’ultimo punto, possiamo nuovamente rifarci alle considerazioni proposte a suo tempo da Elisabeth Crouzet-Pavan, ma anche da Mario Sbriccoli. Questi ultimi criticarono la diffusa percezione storiografica secondo la quale «la violenza è un affare prettamente maschile» (Crouzet-Pavan, 2004) ed esaminarono il «deficit approach» legato alla «preconvinzione, tutta culturale, sulla “capacità” delle donne in materia criminale» (Sbriccoli, 2004). Un’apparenza statistica avrebbe pertanto delineato un approccio storiografico, che sappiamo ora essere insufficiente e superficiale. Per lungo tempo, si è infatti considerata la donna come mera vittima, poiché più debole fisicamente e caratterialmente dell’uomo, e perché sarebbe stata più consona a un ruolo marginale, passivo, accessorio. Il “gentil sesso” si pensava inoltre non avesse accesso alle armi – se non al veleno, che tanto gli si addice – e che agisse poco: ne derivò l’idea della donna che, qualora non fosse vittima, sarebbe stata complice e istigatrice del crimine oppure avrebbe assistito alla violenza. Quest’ultima, già marginale e inferiore nella società, sarebbe stata pertanto marginale e inferiore anche in ambito criminale (Crouzet-Pavan, 2004; Sbriccoli, 2004; cfr. Casanova, 2016). La storiografia individuò dunque una casistica di crimini prettamente “femminili” – quindi marginali rispetto alla criminalità maschile – e caratterizzò la donna come persona che agiva (o agisce) in preda alle pulsioni, per ingannare o per tradire. La donna – poco autonoma, passionale, debole e vile – si sarebbe pertanto macchiata solamente di reati a lei affini: infanticidio (che non richiede una grande forza fisica), delitti contro la religione (eresia e stregoneria) oppure contro la morale (prostituzione e adulterio), veneficio (che, come l’infanticidio, non richiede forza fisica ed era considerato un modo subdolo, codardo per commettere delitti, soprattutto passionali), liti contro altre donne e furtarelli (Crouzet-Pavan, 2004). Se ne deduce un’immagine stereotipata di una donna priva di iniziativa, priva di capacità fisica, emotiva e intellettualmente carente per poter agire o premeditare, e pertanto «inferiore nel crimine come nella vita» (Crouzet-Pavan, 2004). Stando a questo ragionamento, poche furono le donne delinquenti o recidive, ma tante furono le donne quotidianamente vittime, soprattutto di stupri, abusi e percosse (la violenza patita dalle donne era – e rimane – comunque realtà quotidiana) (Crouzet-Pavan, 2004). È possibile perciò individuare una costante storiografica: il limitare la donna a un ruolo marginale, poco decisionale, stereotipato e subalterno rispetto alla controparte maschile, sia a livello quantitativo, sia a livello qualitativo. Mario Sbriccoli, pioniere nell’ambito degli studi di genere, individuò per quale motivo questa vulgata attecchì in ambito storiografico: 

«Per lungo tempo la storia del crimine e della giustizia criminale ha ignorato, senza neanche accorgersene, i profili di genere dell’oggetto che trattava. Quel vuoto si è placidamente installato nella ricerca storica non soltanto, come pur giustamente si dice, in ragione dei deboli segnali che salivano dalle fonti, o per la mediocre sensibilità di una storiografia che guardava altrove. Esso aveva alle spalle una opzione scientifica determinante che gli veniva dalla criminologia, per la quale l’universo della questione criminale era, ed è rimasto, un universo fondamentalmente maschile e mascolino. In un quadro di convinzioni scientifiche fondate su un’apparente evidenza, gli storici si sono mossi assecondando la corrente» (Sbriccoli, 2004; cfr. Del Bo, 2021).

Ne derivò un quadro distorto e superficiale, che relegò la donna all’emarginazione storiografica – a fronte anche di una sua minore o addirittura inesistente partecipazione politico-istituzionale nel passato – e che delineò l’idea di una criminalità declinata puramente al femminile. Confermare una sorta di differenza psico-fisica tra uomo e donna emargina ulteriormente quest’ultima, falsifica le possibili disamine storiche e avvalora l’ipotesi di una predominanza maschile. L’approccio di genere permette quindi un’analisi non solo maggiormente inclusiva, ma anche e soprattutto storicamente più completa (Crouzet-Pavan, 2004; Sbriccoli, 2004). 

Dettaglio di Giotto, Cappella degli Scrovegni, 1303-1305, Padova (fonte: Wikimedia)
  1. Donne e fonti giudiziarie: qualche necessaria considerazione

È pur vero che le testimonianze di donne criminali nei processi giudiziari sono minori rispetto a quelle che coinvolsero gli uomini. Che cosa si può pertanto dedurre da questo dato? Ancora una volta è utile considerare quanto è stato argomentato da Elisabeth Crouzet-Pavan e da Mario Sbriccoli, che hanno evidenziato quanto sia doveroso valutare la questione da un punto di vista globale.

Un’analisi avulsa da preconcetti permetterebbe pertanto di evincere un dato importante: «le cifre percentuali della criminalità femminile sono molto variabili» in base al contesto geografico, cronologico e istituzionale (Sbriccoli, 2004; cfr. Crouzet-Pavan, 2004). Mario Sbriccoli individuò tre mancanze al precedente approccio statistico relativo alla criminalità muliebre: la «cifra nera», il «meccanismo istituzionale di produzione del crimine» e il «carattere ideologico della criminalizzazione secondaria» (Sbriccoli, 2004). L’assenza delle donne nelle fonti giudiziarie è solo apparente: parte dei reati da loro commessi non venne registrato, poiché venne regolato e risolto in primis in ambito privato dal pater familias titolare dello ius corrigendi, che sottraeva così il “gentil sesso” dalla giustizia penale pubblica secondaria. Inoltre, le contese potevano essere risolte privatamente attraverso procedure di conciliazione tra le parti; dati maggiormente esaustivi andrebbero quindi ricercati tenendo conto anche delle fonti extragiudiziarie. In ogni caso, l’onore della donna e della famiglia veniva gelosamente preservato, raddrizzando i comportamenti muliebri devianti e deviati in ambito protetto, a meno che la donna non si fosse macchiata di un grave maleficio o di “duplice crimine” – un illecito che contemporaneamente violasse la legge e esulasse dalla natura precipuamente femminile – o che fosse recidiva. Si tendeva perciò a registrare – e conseguentemente a riconoscere – e a punire solo quelle donne che avessero in qualche modo travalicato il proprio status mulieris subalterno all’uomo, e il ruolo loro affidatogli dal genere. È pertanto riduttivo pensare che le donne non agissero o che, qualora lo facessero, si macchiassero solo ed esclusivamente di illeciti a loro confacenti per genere, stato e sesso. È inoltre superficiale giudicarle inabili al crimine, considerarle esclusivamente in qualità di vittima o attribuire loro solamente ruoli accessori e secondari, aderenti quindi ad una funzione pubblica marginale. In questo modo, si negherebbe prepotentemente anche la cosiddetta female agency, ovvero la consapevolezza stessa delle donne di poter agire (Crouzet-Pavan, 2004; Sbriccoli, 2004; cfr. Del Bo, 2021; Casanova, 2016; Dossena, 2018; Lett, 2014). 

Miniatura in Tacuinum Sanitatis, XIV secolo (fonte: Wikimedia)
  1. Essere donne e uomini nel Medioevo

La condizione di inferiorità della donna rispetto all’uomo è una costante dalle origini remote, insita anche nel pensiero della società medievale; è un’ideologia che si protrasse a lungo, fino alla contemporaneità (purtroppo, è una convinzione dura a morire). Questa radicata concezione dei generi e dei sessi, nonché dei ruoli ad essi attribuiti, venne teorizzata e plasmata soprattutto dal diritto romano e in ambito biblico, religioso e canonistico (Minnucci, 2011). Partiamo quindi da una puntualizzazione importante: cosa sono sesso, genere e sessualità? Il sesso è biologico-anatomico; il genere è un costrutto culturale, relativo all’identità maschile o femminile; la sessualità è infine l’orientamento sessuale dell’individuo. «Nel Medioevo queste distinzioni non esistono. (…) Esiste un ordine sessuale nel quale il sesso biologico (maschio, femmina) determina un desiderio sessuale univoco per l’altro sesso, ma anche un comportamento sociale specifico, maschile o femminile (…) attribuendo all’uno e all’altro sesso, in base a fondamenti scritturali, un’identità e delle caratteristiche dette femminili o maschili. (…) A partire da questo substrato identitario, gli uomini e le donne sono costretti ad assumere status, ruoli e comportamenti differenti» (Lett, 2014).

Parliamo quindi di genere e criminalità: come abbiamo già visto, alle donne spetterebbero solamente determinati reati, caratterizzati dal genere e da caratteristiche psico-fisiche. La donna, però, agiva e lo faceva consapevolmente, al di là dei pregiudizi socio-culturali e giudiziari: possiamo quindi concludere che «in realtà nessun delitto è determinato dal sesso» ed è pertanto necessario per gli storici «distinguere i comportamenti sessuali dalle risposte di genere fornite dall’apparato giudiziario» (Lett, 2014). Perché allora a lungo si sono perpetrati stereotipi di genere e si è negata la capacità decisionale della donna? Si credeva che il “gentil sesso” o “sesso debole” fosse caratterizzato dall’imbecillitas e dalla fragilitas, cioè la debolezza psico-fisica propria solamente delle donne, che imporrebbe loro uno status subalterno rispetto all’uomo (Casanova, 2016). Ma la donna non era considerata solo “imbecille e fragile”: la femminilità si esprimeva soprattutto a livello fisico-carnale (mentre la mascolinità era maggiormente legata alla sfera morale), ma anche attraverso un’indole volubile, maliziosa, eccessiva, lasciva, ingannevole e superba (Lett, 2014; cfr. Del Bo, 2021). Tali peculiarità fisico-caratteriali potevano oltretutto essere mitigate o esasperate, per esempio considerando la buona o cattiva fama pubblica della donna, la sua verginità o (presunta) promiscuità, la sua mitezza e la sua compostezza o la sua tendenza a travalicare i ruoli imposti dal suo genere di appartenenza, infine il suo stato civile e il suo ceto di appartenenza (cfr. La fama delle donne, 2021). Questi luoghi comuni permearono la società occidentale per lungo tempo, fino addirittura ai giorni nostri; nonostante si sia giunti a notevoli passi avanti in ambito della parità di genere, molto ancora si potrebbe e si dovrebbe ottenere per una società maggiormente equa, paritaria e inclusiva. 

  1. Donne e diritto: minore pericolosità, minore imputabilità, minore punibilità 

Donna “imbecille”, donna “fragile”; sesso “gentile”, sesso “debole”. Come le caratteristiche muliebri hanno condizionato o addirittura dirottato le sentenze processuali? Alla donna erano garantite attenuanti durante i processi? La risposta è sì a entrambe le domande, quantomeno in alcuni casi. Per spiegare al meglio la questione, è utile partire dalla condizione giuridica della donna nel Medioevo, facendo riferimento al suo ruolo e al suo status all’interno della società, per poi declinare quali siano stati gli approcci dei tribunali giudiziari alle donne criminali, deviate o presunte tali. È inoltre estremamente importante valutare quali siano stati i meccanismi penali che influenzarono la scarsa presenza femminile nelle fonti giudiziarie. Partendo dal presupposto che la donna era inferiore e marginale rispetto all’uomo, bisogna sicuramente considerare che non tutte le donne erano giuridicamente uguali tra loro. Vi era differenza tra una donna sola o inserita in un preciso contesto famigliare o di vicinato, sposata, vedova, nubile, oppure di buona o di cattiva fama. Queste disuguaglianze sono sicuramente prodotti culturali e dipesero principalmente dal diritto romano, dal diritto canonico e dallo ius commune (Sbriccoli, 2004). Lo status mulieris variava a seconda delle diverse tipologie di processi (civile, penale, sia laici, sia religiosi) ed era condizionato dalla negazione alla donna dello ius accusandi nei processi penali, ovvero il diritto di accusa, di chiamare in giudizio qualcuno. Secondo il pensiero canonistico, la donna poteva avvalersi della facoltà di denunciare un’altra persona solo in casi limite: essere soggetto passivo dell’illecito oppure segnalare un reato grave e infamante. Limitata era inoltre la sua facoltà di testimoniare e per la maggior parte delle pratiche giuridiche doveva essere assistita da un uomo, che ne esercitava la potestas. Queste distinzioni normative si basavano principalmente sul preconcetto secondo il quale il carattere femminile fosse mutevole, quindi poco affidabile e conseguentemente inferiore (Minnucci, 2011; Lett, 2014). Il diritto, le istituzioni, l’esercizio del potere e l’amministrazione della giustizia erano ambiti prettamente “maschili e mascolini”, che escludevano pertanto quasi definitivamente qualsiasi partecipazione da parte della controparte femminile (Sbriccoli, 2004; cfr. Lett, 2014). È perciò individuabile una tendenza significativa all’interno delle fonti giudiziarie: «a parità di colpa, in genere [le donne] sono punite meno severamente degli uomini e beneficiano più spesso di circostanze attenuanti, sfuggendo alle pene infamanti; spesso sono scusate in nome della imbecillitas sexus. È raro che siano condannate a morte e, quando questo accade, per loro l’esecuzione avviene in modo diverso» (Lett, 2014). 

Un esempio calzante potrebbe essere lo studio di Cesarina Casanova Crimini di donne, giudici benevoli (Bologna, XVI-XVIII secolo), che tratta della campionatura degli atti processuali relativi al tribunale bolognese del Torrone. Dalla disamina delle carte d’archivio è stato possibile constatare quale fosse l’atteggiamento indulgente della magistratura nei confronti delle donne citate negli incartamenti e accusate principalmente di crimini di sangue. Questa accondiscendenza potrebbe solo superficialmente essere scambiata per «cavalleria forense» e clemenza della corte (Casanova, 2016): il comportamento del tribunale, infatti, denota un pesante paternalismo ed esplicita il preconcetto di genere secondo il quale la donna sarebbe stata – anzi fu – inferiore all’uomo e conseguentemente a lui soggetta. 

«Non era quindi pensabile che proprio loro, per definizione irresolute e subalterne, potessero agire con la lucidità e la determinazione che consentivano agli uomini di commettere un omicidio o di infliggere gravi ferite; meno che mai si accreditava alle donne inquisite la freddezza della premeditazione; inoltre, veniva invariabilmente presunta la loro inadeguatezza fisica e morale a contrastare la reazione di una potenziale vittima, a meno che non fosse un neonato indifeso o l’ignaro bersaglio di una subdola avvelenatrice» (Casanova, 2016). 

Cesarina Casanova – con l’aiuto di Giancarlo Angelozzi – ha quindi evinto che nel Tribunale del Torrone di Bologna, dal XVI al XVIII secolo, la presenza femminile non era poi così esigua. Queste donne criminali godettero di una certa clemenza da parte dei giudici bolognesi – sempre relativamente al contesto – i quali hanno sottostimato la pericolosità e i ruoli delle donne che andarono a giudicare, aumentando così il gender gap. Spesso gli storici hanno notato che non fu nemmeno avviato un processo a carico delle accusate o delle ree, dichiarando «non proceditur, stante qualitate facti et personae» (non si è proceduto, data la natura dei fatti e delle persone) (Casanova, 2016). Si è inoltre potuto valutare quanto le donne denunciassero gli uomini, anche se tendevano a citare più spesso altre donne, e quanto venissero invece segnalate dagli uomini (Casanova, 2016). Si evinse inoltre che i reati più duramente colpiti riguardavano soprattutto crimini “atrocissimi e nefandissimi” oppure tipicamente femminili, quali ad esempio il patto con Satana, l’infanticidio, il veneficio, l’uxoricidio (Casanova, 2016). In questo modo, si sottovalutò e si svalutò non solo la capacità psicofisica della donna di agire, ma anche la sua consapevolezza nel farlo, appesantendo ancora una volta il giudizio della corte sotto il gioco dei preconcetti di genere e palesando una notevole disparità di trattamento tra uomo consapevole e donna volubile o “poco femminile”.

  1. Conclusione 
Dettaglio di miniatura, Marito geloso picchia sua moglie, in Guillaume de Lorris, Roman de la Rose, 1490-1500 circa, Bruges (fonti: immagine, thevision.com; didascalia, Violenza alle donne, A. Esposito et All., il Mulino, 2018, p. 276)

Tra il XII e il XV secolo si compì quella netta distinzione tra sessi – o meglio, tra generi – basata sulla biblica creazione di Adamo ed Eva, ma anche sul diritto romano e canonico. Tale differenza esplicitava una palese disuguaglianza tra uomo e donna, che si tradusse in un diverso status giuridico, politico e socio-culturale e nel preconcetto di una manifesta inferiorità e negatività della donna rispetto all’uomo (Lett, 2014). Questo breve articolo ha cercato di riassumere le principali suggestioni storiografiche dagli anni Ottanta del secolo scorso, presentando una riflessione su come la ricerca storica si sia adeguata a nuove scoperte e abbia proposto infine una più matura e approfondita lettura delle fonti giudiziarie, perdendo quella superficialità che tanto ha caratterizzato gli iniziali studi sulle donne. Perché limitarsi al dato apparente e non considerare la complessità della società attraverso uno studio di genere? La strada fatta è stata parecchia, ma molta ancora ce ne sarà da fare, nonostante la gender history abbia iniziato ad appassionare ed avvicinare sempre più storiche e storici.

Federica Fornasiero – Scacchiere Storico

Federica Fornasiero è medievista e laureata in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Nella sua tesi si è occupata di sindacato podestarile nel Trecento e dello studio delle fonti ad esso relative nel Comune di Reggio Emilia. I suoi interessi principali sono la storia sociale, economica e di genere, ma non disdegna anche la storia delle chiese e delle eresie medievali.

Bibliografia 

Del Bo B., Tutte le donne (del registro) del podestà fra cliché e novità, in Liber sententiarum potestatis Mediolani (1385), Storia, diritto, diplomatica e quadri comparativi, a cura di A. Bassani – M. Calleri – M.L. Mangini, Notariorum Itinera VII/1, 2021, Società Ligure di Storia Patria, Genova 2021, distribuito in forma digitale da Notariorum Itinera, Centro Studi Interateneo, consultato il 24/11/2021: https://notariorumitinera.eu/Scheda_vs_info.aspx?Id_Scheda_Bibliografica=6341; Casanova C., Crimini di donne, giudici benevoli (Bologna XVI-XVIII secolo), in Historia et Ius. Rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna, n.9/2016, paper 37; distribuito in forma digitale da Historiaetius.eu, consultato il 24/11/2021: http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/casanova_9.pdf; Crouzet-Pavan E., Crimine e giustizia, in Innesti. Donne e genere nella storia sociale, a cura di Calvi G., Viella, Roma 2004, pp. 55-72; Dean T., Crime and justice in Late Medieval Italy, Cambridge University Press, Cambridge 2007; Lett D., Uomini e donne nel Medioevo. Storia del genere (XII-XV), Il Mulino, Bologna 2014; Dossena R., Donne e crimini a Vercelli (1377-1388), in Bollettino Storico Vercellese, 47/2018, fasc. 1, n. 90, pp. 69-94; distribuito in forma digitale da Società Storica Vercellese, consultato il 24/11/2021: https://www.societastoricavc.it/admin/public/bollettino/f21852ac3c2fb602d1e019907070f90e/BSSV_n__90.pdf; Innesti. Donne e genere nella storia sociale, a cura di Calvi G., Viella, Roma 2004; La fama delle donne. Pratiche femminili e società tra Medioevo ed Età moderna, a cura di Lagioia V., Paoli M. P., Rinaldi R., Viella, Roma 2021; Minnucci G., La condizione giuridica della donna tra Medio Evo ed Età Moderna: qualche riflessione, in Anuario de historia del derecho español, Tomo LXXXI – 2011, pp. 997-1007; distribuito in forma digitale da AIR Università di Siena, consultato il 28/05/2021: https://usiena-air.unisi.it/handle/11365/19666; Sbriccoli M., “Deterior est condicio foeminarum”. La storia della giustizia penale alla prova dell’approccio di genere, in Innesti. Donne e genere nella storia sociale, a cura di Calvi G., Viella, Roma 2004, pp. 73-91

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Pubblicato da Scacchiere Storico

Rivista di ricerca e divulgazione storica

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