di Sofia Degli Esposti
I Borgia sono, come li ha definiti M. Mallett, «the most infamous family in history» (Mallett, 1987). Innumerevoli romanzi, serie TV e articoli sono stati scritti su di loro e l’interesse per questa famiglia non accenna a diminuire. Perché sono così interessanti e intriganti? Quali aspetti delle loro personalità stimolano l’immaginazione di romanzieri e sceneggiatori, rendendoli appassionanti per il pubblico? A queste domande vi sono varie risposte, ma l’elemento centrale dell’interesse contemporaneo è la leggenda nera che si è sviluppata attorno ai componenti della famiglia. Una leggenda che affonda le proprie radici ancor prima del pontificato di Alessandro VI, alias Rodrigo Borgia, che si svilupperà nel corso dello stesso e che verrà ampliata e arricchita di nuovi elementi nel corso dei secoli. L’evoluzione di questo mito negativo e le sue differenti accezioni nelle varie epoche è interessante per confrontare un sistema di valori in continuo mutamento in cui gli aspetti scandalosi, infami e terribili dell’esperienza borgiana cambiano insieme alla società. Ricostruire quindi la nascita della leggenda nera e le sue mutazioni è importante sia per riconsiderare il pontificato Alessandrino e le vite di Cesare e Lucrezia Borgia da una prospettiva più oggettiva, sia per comprendere le ragioni per cui nei vari momenti storici autori e autrici abbiano deciso di scrivere riguardo a questa famiglia, spesso in maniera infamante, ripercorrendo la creazione di un mito negativo per elaborare la storia di una leggenda.
Qui si vuole ricostruire il mito di Alessandro VI: dalle pasquinate che lo prendevano di mira, ai romanzi e alle serie televisive dei giorni nostri. Analizzando le caratteristiche delle pasquinate, si esaminerà come le accuse al loro interno, poi espanse in altri generi letterari, e le dicerie popolari sui Borgia, abbiano posto le basi per la creazione del mito negativo di Alessandro VI e della sua famiglia. Nel corso dei secoli, vari temi critici introdotti in questi testi satirici divennero più rilevanti a seconda del periodo e dei valori dell’epoca considerata. In particolare, qui si intende ricostruire lo sviluppo del mito negativo a partire da Machiavelli e Guicciardini, fino alla narrativa contemporanea, ripercorrendo le tappe che hanno portato alla diffusione del mito di Alessandro VI.
1. Parla Pasquino
In primo luogo, cosa sono le pasquinate? Le pasquinate sono dei brevi testi satirici che dal XV secolo venivano affissi prima in punti di spicco della città di Roma e poi sulla statua di Pasquino, da cui prendono il nome. Quest’ultima era un busto romano ritrovato nel 1501 e posizionata sulla facciata del palazzo del Cardinale Oliviero Carafa. Pasquino, insieme a Marforio, divenne la più famosa delle “statue parlanti” di Roma dove scrittori anche celebri, come nel caso di Pietro Aretino, solitamente sotto anonimato, stilettavano versi denigratori verso personalità importanti della città. Le pasquinate, però, vennero a distinguersi dai semplici versetti satirici in quanto genere letterario ed è importante considerarne le caratteristiche specifiche per capire da dove provengono e come hanno inciso sulla reputazione dei Borgia. La definizione di pasquinata fornita da Marucci evidenzia le peculiarità di questi testi satirici e, in generale, della satira politica anonima diffusa nell’Italia del XV secolo: «una breve satira, un epigramma specificamente rivolto a colpire un potente; un vituperium ad personam che sia però una personalità; una anonima stilettata la cui audience è determinata e direttamente proporzionale alla fama della vittima e al luogo d’affissione, necessariamente pubblico o frequentato, dell’infamante poesia – o prosa, o battuta con disegno» (Marucci, 1988). Questa definizione mostra come l’oggetto del messaggio diffamatorio non fosse una carica ecclesiastica o politica in sé. Al contrario, l’oggetto era una persona. Pertanto, non è l’istituzione religiosa o secolare che viene criticata, ma coloro che la rappresentavano in quel momento.

Queste satire non erano popolari, come si credeva un tempo. Nonostante la loro pubblica esposizione e l’anonimato dei componimenti, questi non rappresentano la “voce” del popolo romano, ma erano invece redatti da personalità istruite e spesso provenienti dallo stesso ambiente dei loro bersagli. Per questo motivo, non minacciavano minimamente la solidità dell’establishment istituzionale e gerarchico della città di Roma e dello Stato pontificio, anche se le vittime di questi epigrammi ne facevano parte (Marucci, 1988). Infatti, non vi si criticava l’assetto religioso o politico vigente, ma solo le persone che in quel momento rivestivano tali cariche. Ciò che rendeva tollerabili queste composizioni agli occhi del papato era l’assenza dell’indignatio, morale o politica, componente essenziale delle critiche più serie scagliate da riformatori e critici quali, ad esempio, Savonarola. Poiché non veniva messa in discussione la legittimità del sistema, e quindi il potere del papa e della Curia, le pasquinate non incorrevano in alcun tipo di censura (Aquilecchia, 1983). Leggendo le composizioni contro di lui, Alessandro VI disse: «Roma he terra libera et che si ha consuetudine de dire et de scrivere como l’homo vole. Et se anche de la Santità sua se dice male, se lasci dire» (Niccoli, 2005). È possibile che il papa avesse intuito che queste poesie servivano anche a calmare il malcontento da lui provocato dentro e fuori dalla Curia. Infatti, è importante tenere a mente come alla fine del ‘400 il tentativo di consolidamento dell’autorità papale sia interno alla Curia, sia nella compagine politica dello Stato della Chiesa – che inevitabilmente minò l’equilibrio preesistente all’interno della città di Roma e dello Stato Pontificio – diede origine a questa forma di attacco letterario personale e subdolo per esprimere il malcontento di individui o gruppi danneggiati dalle strategie dei pontefici. Infatti, poiché le pasquinate sono prodotti volatili, utilizzabili solo per tempo limitato prima di essere irrimediabilmente persi (anche se i più eclatanti furono trascritti e poi stampati in collezioni), erano perfetti per essere usati come mezzi di propaganda politica senza intaccare in modo definitivo l’immagine dell’autorità bersagliata. È proprio grazie a queste caratteristiche, ovvero di critica personale senza danneggiare l’istituzione, che si prestarono a diventare la “voce” della propaganda politica interna alla città di Roma (Marzo, 1990).
Agli occhi dei contemporanei, però, queste satire furono interpretate come l’espressione di un malcontento popolare verso i personaggi presi di mira. Infatti, si scambiava il vituperio politico-personale con quello morale, creando l’idea che questi versi rappresentassero un’accusa etico-morale contro i personaggi presi di mira. La loro ampia diffusione, integrata e sviluppata con altre forme comunicative, contribuì quindi a creare miti negativi su importanti personalità al potere. Miti che sarebbero stati tramandati nei secoli a venire, anche a costo di comprometterne il contenuto originale (Marucci, 1988).
Tuttavia, le pasquinate da sole, proprio per le loro caratteristiche, non sarebbero state in grado di creare un mito negativo forte e duraturo su Alessandro VI. Ma esse furono tuttavia riprese e ampliate in testi differenti, più autorevoli e letterari, che incorporarono queste critiche senza conoscere l’ambiente socio-politico che le aveva prodotte, prendendole come fonte attendibile delle turpitudini commesse a Roma e basandovi delle leggende nere che tutt’ora affascinano milioni di lettori.
2. La nascita del mito negativo
Avendo quindi un’idea di come questi versi burleschi riuscirono a plasmare un’immagine distorta di certe personalità, come intaccarono la reputazione dei terribili Borgia? Cosa si criticava ad Alessandro VI nelle pasquinate e perché questo mito negativo si consolidò?
La prima pasquinata vera e propria su Alessandro VI recita:
Utere nunc animis, gens generosa, tuis: ausonios fines vastantem caedite taurum, cornua monstrifero vellite torva bovi. Merge, Tyber, vitulos animosas ultor in undas: bos cadat inferno, victima magna Jovi (Niccoli, 2005).
(Fatti dunque animo, stirpe generosa: uccidete il toro che devasta i confini d’Italia, strappate le corna ritorte al mostruoso bue. Sommergi, o Tevere vendicatore, i vitelli nelle tue onde tumultuose, il bue cada all’inferno, come gran vittima a Giove).
I primi due versi chiariscono la valenza eminentemente politica di questo componimento e l’intento per il quale fu scritto. Infatti, questo venne trovato il giorno in cui fu sancita una pace tra le due famiglie romane più importanti che, vedendosi danneggiate dalla politica del Borgia, decisero di mettere da parte i propri conflitti per attaccare il comune nemico: il pontefice (Rehberg, 2001). Probabilmente l’autore era un personaggio vicino a una o ad entrambe le famiglie, acerrimo nemico dei Borgia, il quale mirava ad acquisire un vantaggio strategico con la risonanza che avrebbe avuto lo scritto.
In particolare, l’autore nel secondo verso «ausonios fines vastantem caedite taurum» individuava la colpa del pontefice nel devastare i confini tramite guerre inopportune con particolare riferimento a quelle contro le due casate Orsini e Colonna. Dell’odio nei confronti della progenie del papa si legge nel terzo verso dello scritto: «Merge, Tyber, vitulos animosas ultor in undas»; il richiamo al Tevere che sommerge i vitelli (ovvero i figli del papa) riporta al modo in cui il cadavere del duca di Gandia, figlio prediletto di Rodrigo Borgia, venne ripescato dal Tevere. Questi venne infatti trovato ucciso nel fiume poco prima e tra i sospettati del suo omicidio vi erano anche gli Orsini. Libelli, sia in latino sia in volgare, circa il ritrovamento del corpo di Juan erano comparsi già in precedenza, satireggiando sul modo in cui il pontefice avesse dovuto “pescare” suo figlio dalle acque del fiume.
Perché tanta crudele attenzione al figlio del papa, o meglio, perché infierire beffandosi della sua morte? L’avversione verso il duca di Gandia e in generale verso i figli del papa era giustificata dallo sfrenato nepotismo di quest’ultimo. Non solo costui si ostinava a mettere a disposizione i mezzi della Chiesa per i fini politici della famiglia, ma le risorse finanziarie così impropriamente reperite venivano distribuite tra i figli del papa, i parenti e i sostenitori.
Nonostante il nepotismo fosse, dunque, uno dei comportamenti più criticati di Alessandro VI, questo non era certo una condotta inusuale da parte dei pontefici. Già Martino V aveva usato il nepotismo come instrumentum regni e anche altri pontefici si avvalsero di questa pratica (Pellegrini, 2010). Ciò avvenne perché il sistema clientelare familiare permetteva ai papi rinascimentali, detentori di un potere ancora instabile (il quale faticava a imporsi su quelli minori presenti nello Stato pontificio e nel nuovo sistema di Stati, italiano ed europeo), di contornarsi di uomini la cui fedeltà era indubbia (Mallett, 1987). Specialmente con riguardo alla “politica interna” dello Stato pontificio, «i recenti studi sul nepotismo ci hanno insegnato una nuova valutazione di esso come strumento di dominio e di rafforzamento del potere centrale» (Prodi, 2003).
Precedenti casi di tale condotta, dunque, non mancarono, ed è evidente che al tempo di Alessandro VI questa fosse ormai una tendenza consolidata. Ciò che creò un clima di malcontento così radicato da voler esser espresso satiricamente nelle pasquinate circa le politiche familiari del Borgia fu sia il fatto che esse venissero ad intaccare gli equilibri tra l’autorità pontificia e il baronato romano, sia che questi si avvalse di un parentado e di una clientela spagnoli ed infine, soprattutto, il fatto che fu portato da costui all’ennesima potenza.
Un’altra critica centrale che venne mossa nel corso del pontificato di Alessandro VI fu quella di simonia.
Vendit Alexander claves, altaria. Christum, emerat ille prius, vendere iure potest (Niccoli, 2005).
(Alessandro vende le chiavi, gli altari, Cristo, a buon diritto può vendere, in quanto prima ha comperato).
L’accusa riguarda soprattutto la “compravendita” della tiara pontificia da parte del Borgia grazie a un’elargizione di benefici ai vari cardinali della curia. Recenti studi hanno evidenziato come in primo luogo ogni pontefice dovesse spogliarsi dei precedenti benefici una volta eletto e che quindi questa distribuzione, certamente orientata a portare vari cardinali dalla propria parte, fosse in un certo senso obbligata (Hollingsworth, 2020; Allegrezza, 2001). Inoltre, la prassi di elargire ricchezze e benefici per assicurarsi la tiara non fu inventata da Rodrigo Borgia, anzi, era piuttosto consuetudinaria. Infine, oltre a ragioni economiche, il conclave del 1492 fu dominato da questioni politiche, in particolare dalla rivalità tra Milano e Napoli rappresentate dal cardinale Ascanio Sforza e Giuliano della Rovere (Thomson, 1989; Pattenden, 2017). Fu l’alleanza tra il Borgia e lo Sforza che, più di ogni altra cosa, favorì l’elezione di Alessandro VI (Von Pastor, 1959).

L’accusa simoniaca, però, non va considerata come unico retaggio del Borgia. Infatti, era scagliata in continuazione non solo contro i pontefici, ma contro il mondo curiale ed ecclesiastico in generale (Marucci, 1983). L’accusa di simonia faceva parte di un topos di corruzione della Chiesa ben radicato nella società del tempo. Infatti, risulta difficile comprenderla così presente nel corso del pontificato di Alessandro VI senza ricondurla ad un più generalizzato luogo comune vecchio di secoli che aleggiava sulla Curia e la Chiesa in generale. In particolare, nel corso del Quattrocento, la Curia romana divenne non solo il centro burocratico-amministrativo della Chiesa, ma anche di uno Stato, ovvero dello Stato della Chiesa, e come ogni macchina amministrativa portò infatti alla proliferazione di episodi di corruzione. Gli uffici curiali, così come altre cariche, vennero messi in vendita dal papato nei momenti di crisi economica e questa pratica divenne sistematica con il pontificato di Sisto IV, che ne affidò addirittura la gestione al datario (Pellegrini, 2010). Questo fenomeno è da ritenersi endemico all’interno di una struttura di potere come quella della Chiesa del Rinascimento e, seppur voci di protesta si innalzarono davanti ad un fenomeno così macroscopico, queste non avevano alcuna possibilità di cambiare lo stato esistente. La proverbiale corruzione della Curia romana divenne pertanto un luogo comune, menzionato ogni qualvolta si volesse accusare o infamare in qualche modo la Santa Sede. Sembra quindi che l’accusa di simonia, certamente fondata, non fosse prerogativa unica del Borgia, ma parte di un diffuso luogo comune che ha individuato in Alessandro VI, e non solo, il suo campione del momento.
Tutta la riprovazione che il Borgia suscitò nei suoi avversari politici e nei suoi contemporanei si rivelò al momento della sua morte: il giudizio sulla sua vita e le sue opere fu oltremodo sfavorevole. Infatti, appena morì, anche a causa della contemporanea malattia di Cesare e della rapida putrefazione del corpo, si diffuse la voce che egli fosse stato avvelenato, o peggio, che si fosse avvelenato per errore nel tentativo di uccidere altri cardinali presenti alla cena dopo la quale il pontefice si ammalò.
Mirum si vomuit nigrum post fata crourem Borgia? quem biberat concoquere haud potuit (De Nichilo, 2002).
(Ti meravigli se dopo la morte il Borgia vomitò sangue nero? Non poté digerire quello che aveva bevuto).
Nelle pasquinate che seguirono la morte di Alessandro, venne quindi esplicitata un’altra accusa al defunto pontefice: quella di avvalersi di mezzi come il veleno, l’inganno e la violenza per raggiungere i propri fini. Con il tempo, l’accusa di avidità e di corruzione diventerà meno importante, probabilmente a causa della frequenza con la quale essa era mossa nei confronti di altri personaggi, mentre quella di avvalersi di metodi sanguinosi e di inganni per raggiungere i propri fini, diventerà la sigla identificativa della famiglia Borgia.
Le pasquinate però, oltre ad esprimere accuse e considerazioni legate all’operato e agli effettivi comportamenti del pontefice, contenevano anche degli insulti che riguardavano Rodrigo Borgia personalmente, coinvolgendo in forma satirica l’individuo in sé e per sé, indipendentemente da specifiche mancanze.
Conditur hoc tumulo Lucretia nomine, sed re Thais, Alexandri filia, sponsa nurus (Von Pastor, 1959).
(In questa tomba giace una che ebbe il nome di Lucrezia ma che fu una Taide. Di Alessandro figlia, sposa, nuora).
Quest’epitaffio composto da Sannazaro mostra come fosse convinzione comune che il papa intrattenesse una relazione con la figlia Lucrezia. La base di queste accuse proveniva sia dall’amore dimostrato da Alessandro VI senza riserve verso i propri figli, in particolare per Juan e Lucrezia, sia da una testimonianza o comunque da una diceria probabilmente messa in circolo dal primo marito di Lucrezia, Giovanni Sforza. Nel momento in cui il papa volle costringerlo ad annullare il matrimonio con la figlia, data la sua inutilità ai fini politici perseguiti dai Borgia ormai avversi al casato sforzesco, Giovanni, lamentandosi con il cugino Ludovico il Moro per l’affronto che stava subendo, disse che il papa voleva la figlia «per tenersela lui, libera alle sue voglie» (Bellonci, 2019). Questa gravissima accusa, scagliata da qualcuno che aveva vissuto la vita intima del Vaticano e che si supponeva informatissimo, era difficile da ribattere. Da qui probabilmente venne dunque originata la diceria che Alessandro VI intrattenesse una relazione incestuosa con la figlia. E dalle dicerie a Pasquino il passo era breve.
Il presunto incesto sarà, però, rispetto alle accuse analizzate precedentemente, menzionato in misura inferiore all’interno delle pasquinate ed è possibile intuirne la motivazione se vengono tenute in considerazione le caratteristiche proprie delle stesse. Nelle pasquinate, come emerso in precedenza, lo sfondo politico era preponderante rispetto a quello etico ed era dunque scarsamente utile evidenziare al loro interno un fenomeno che non aveva particolari risvolti politici. Il prendersi gioco delle relazioni intime della famiglia Borgia potrebbe per contro essere ricondotto ad una iperbolica e scandalosa esasperazione della critica verso il nepotismo di Alessandro VI, in varie forme censurato. Quella stessa accusa però, una volta trasposta nelle pasquinate, avrebbe favorito la creazione dell’immagine di Alessandro VI come immorale e scandaloso; essa può esser vista come parte di un’operazione più ampia di scredito che si voleva basare addirittura su dicerie e pettegolezzi osceni. Le beffe e i rimproveri riguardanti specifici comportamenti del pontefice e la loro esasperazione condusse talvolta la critica a non soffermarsi più esageratamente sulle singole colpe, ma ad attaccare la persona di Alessandro VI in generale.
La scandalosa relazione con Giulia Farnese, che nel corso del pontificato di Alessandro VI trova poche attestazioni, diventa un tema centrale nelle pasquinate coeve al pontificato di Paolo III, fratello di Giulia, che avrebbe ottenuto il cappello cardinalizio grazie alla relazione della sorella con il Borgia. L’oggetto della critica non è quindi Alessandro VI, ma Paolo III, che si vuole screditare in quanto indegno delle sue nomine (Marucci, 1983). È interessante, però, che a partire proprio da queste critiche la fama della relazione tra Rodrigo Borgia e la “Bella” Farnese esploderà. Mentre i contemporanei di Alessandro VI tollerarono l’evidente concubinaggio del pontefice, pur criticandolo, e quelli di Paolo III lo utilizzarono a fini politici, i posteri tesero a interpretare le pasquinate nel loro complesso secondo la chiave moralistica dei propri tempi. «Si può dire che le presunte relazioni scandalose di Alessandro VI con Giulia Farnese, abbiano costituito il pezzo forte della canea dei nemici di esso papa, l’onta massima che gli storici antichi e moderni hanno fatto pesare sulla memoria di lui» (Soranzo, 1950).
In conclusione, alcune delle accuse mosse verso il Borgia furono con il tempo se non dimenticate, ridimensionate (proprio perché ricorrenti all’interno della letteratura pasquinesca nei confronti di altri cardinali e pontefici) come quella di simonia, mentre altre, come la relazione con la Farnese, il presunto incesto con Lucrezia e l’efferatezza, diverranno il perno sul quale si creò il mito negativo riguardo a Rodrigo Borgia.
3. Dalle pasquinate alla leggenda nera
Il topos riferito ad Alessandro VI fu alimentato e consolidato grazie al lavoro di storici e scrittori dal XVI secolo ai contemporanei (Mallett, 1987). La fama dei Borgia divenne così leggendaria da essere tangibile ancora oggi. I Borgia suscitarono grande interesse non solo tra gli studiosi, ma anche tra il grande pubblico. I romanzi che li vedono protagonisti sono innumerevoli e ognuno di essi cerca di rendere la storia spesso più veritiera, e spesso più esagerata ed emozionante. Ogni volta che le pasquinate o le dicerie si trovano nei suddetti romanzi, non vengono citate tenendo conto dei motivi per cui sono state create o riconoscendo il contesto in cui sono nate, ma vengono utilizzate per richiamare giudizi di natura etica e mostrare come l’immoralità dei Borgia stesse già turbando i loro contemporanei.
Per ricostruire le origini del mito del pontefice, dobbiamo considerare che fu forse Giulio II, più di ogni altro, a criticare apertamente Alessandro VI. Giulio II era un acerrimo rivale di Alessandro VI durante il pontificato di quest’ultimo e aveva guidato i cardinali che avevano cercato di deporlo con l’aiuto di Carlo VIII. Anche se Giulio II iniziò le attività antiborgiane, furono i propagandisti umanisti dei principi italiani e i cronisti locali delle città dello Stato Pontificio a completare il compito (Mallett, 1987). Le testimonianze contemporanee del pontificato di Alessandro VI, come il Liber notarum scritto da G. Burcardo e il Diario della città di Roma di S. Infessura, insieme ad altri diari o dispacci di ambasciatori e altri personaggi, riportavano nei loro scritti pesanti accuse nei confronti del pontefice. Gli storiografi poco dopo il pontificato borgiano utilizzarono questo tipo di fonti, senza considerare il fatto che esse riflettevano la visione di un individuo o di un piccolo gruppo e non sempre erano espressione di giudizi obiettivi sugli eventi narrati. In queste fonti venivano spesso riportate voci e pettegolezzi la cui autenticità e origine, però, non erano accertate.
La terribile reputazione di Alessandro VI, e della famiglia Borgia in generale, fu rafforzata dai libri di autori come Machiavelli, Guicciardini, Ariosto e altri le cui opere, per la loro importanza e notorietà, ebbero grande diffusione. Machiavelli commemorò Alessandro VI con i versi contenuti nel suo Decennale Primo, apparso nel 1506. Questo è il punto di partenza dove iniziò la “fortuna” postuma dei Borgia:
malò Valenza e, per aver riposo, portato fu fra l’anime beate lo spirto di Alessandro glorioso; de qual seguirno le sante pedate tre sue familiari e care ancelle Lussuria, Simonia e Crudeltate (De Nichilo, 2002).
Questo brano, apparso solo tre anni dopo la morte di Alessandro VI, riassume tre delle critiche più ricorrenti sui Borgia all’interno delle pasquinate. La prima ad essere nominata tra queste ancelle è la lussuria, seguita dalla simonia e dalla crudeltà. L’ordine in cui queste accuse sono elencate indica che stava avvenendo un cambiamento riguardo alla percezione di papa Borgia e della sua politica.
Le accuse di simonia e crudeltà erano insulti quasi costanti lanciati ad Alessandro VI durante il suo pontificato. Quella di lussuria, sebbene presente, era invece sporadica e aveva acquisito un peso significativo solo dopo la morte di Borgia. Questo dimostra che la percezione comune stava cambiando, così come l’ordine di gravità dei peccati commessi da Alessandro VI; mettendo la lussuria al primo posto e in secondo piano le colpe legate alla sfera politica. L’accusa morale comincia così a prevalere su quella puramente politica. La memoria storica che si è tramandata riguardo a questo pontefice è stata fortemente influenzata dall’opera del Guicciardini, che fu il più implacabile critico della politica dei Borgia. Guicciardini mise anche un’enfasi significativa sulla sua condotta lussuriosa, così che le deviazioni di Alessandro VI cominciarono a influenzare il modo in cui sarebbe stato ricordato:
Furono in lui e abundantemente tutti e’ vizi del corpo e dello animo, né si potette circa alla amministrazione della Chiesa pensare uno ordine sì cattivo che per lui non si mettessi a effetto; fu lussuriosissimo nell’uno e nell’altro sesso, tenendo publicamente femine e garzoni, ma più ancora nelle femine; e tanto passò el modo che fu publica opinione che egli usassi con madonna Lucrezia sua figliuola, alla quale portava uno tenerissimo e smisurato amore (Guicciardini, 1998).
Questa citazione ha immortalato e tramandato una presunta veridicità storica, un presunto amore incestuoso con la figlia – mai realmente provato – per sostenere la natura perversa di Borgia. Questa rappresentazione dell’immoralità fu così profonda che rimane fino ad oggi. Come spiega G. Pepe «accanto alla storiografia più o meno critica fiorì presto una storiografia che si potrebbe dire romanzata» e nella seconda metà del XVI secolo fu pubblicata la Vita di Cesare Borgia scritta da Tomaso Tomasi, una vita che è tutta un’accusa romanzata contro i Borgia (Pepe, 1946).
Un altro elemento fondamentale da considerare quando si pensa alle leggende nere sul papato è l’importanza che ebbe la propaganda riformata. Infatti, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo la reputazione di Alessandro VI divenne uno dei bersagli preferiti dei propagandisti protestanti. Nel corso dei Seicento, ad esempio, vari autori fecero riferimento al presunto patto con il diavolo fatto da Alessandro VI per ottenere il papato e all’amore incestuoso tra padre e figlia, credendo a tutti quei topos creatisi in Italia durante il pontificato borgiano (Hillgarth, 1996).
Ciò che ha influenzato la percezione della famiglia Borgia e ha dato alla leggenda il sentimento che conosciamo oggi, può essere attribuito anche all’interpretazione del Rinascimento fatta da J. Burckhardt nel 1860. In La civiltà del Rinascimento in Italia il Rinascimento è descritto come un’epoca dominata dalla violenza e dalle passioni e i Borgia sono visti come i campioni del loro tempo. «In the nature of the father (Alexander VI), ambition, avarice, and sensuality were combined with strong and brilliant qualities. All the pleasures of power and luxury he granted himself from the first day of his pontificate in the fullest measure» (Burckhardt, 1990). Tali descrizioni divennero la chiave per interpretare gli eventi borghesi e rinascimentali in generale.
Andando verso i giorni nostri, dalla lettura di vari romanzi alle loro drammatizzazioni in serie televisive, emergono i temi che non hanno un ruolo primario nelle pasquinate: incesto, crimini e intrighi politici sono infatti i protagonisti. L’inganno, il veleno e la violenza sono temi che tendono a comparire frequentemente nell’immaginario comune, nei romanzi e negli adattamenti cinematografici.

Per quanto riguarda la percezione negativa dei Borgia, bisogna considerare che con il passare del tempo, la memoria collettiva della famiglia è cambiata così drasticamente che i confini delle diverse personalità si sono offuscati. L’identificazione dei figli di Borgia, in particolare di Cesare, come causa dei mali della Chiesa e dei possedimenti papali era già stata ribadita nelle pasquinate, anche se questa convinzione si rafforzò e consolidò nei secoli successivi. La spietatezza e la malvagità di Alessandro VI, frequentemente menzionate nelle pasquinate, sono caratteristiche che nel tempo furono sempre più attribuite a Cesare. Si creò così una sorta di sovrapposizione storica tra padre e figlio. In alcuni romanzi o adattamenti televisivi, Alessandro VI è completamente o quasi dominato da suo figlio, la vera mente diabolica della famiglia: «Allora Cesare diventò, proprio come aveva desiderato, l’uomo più potente dopo il papa e i romani si accorsero in breve tempo che questa vice reggenza trascinava Roma verso la dissolutezza» (Dumas, 2019).
Questo a tal punto che in alcuni testi successivi sui Borgia la figura di Cesare è quasi più importante di quella di Alessandro VI (Hillgarth, 1996). In altri romanzi la crudeltà e l’immoralità sono viste come prerogative di tutta la famiglia, da Rodrigo fino a Cesare e Lucrezia. In particolare, il papa, Cesare e Lucrezia, tendono ad essere percepiti come un trio malvagio che regna sul trono papale, come il contrario della Santa Trinità (Dumas, 2019).
Nei romanzi postumi un ruolo primario era dato anche a Lucrezia, una figura che era stata quasi assente nelle pasquinate, se non in relazione ai suoi presunti rapporti deplorevoli con il padre. Lucrezia, che probabilmente aveva ben poca voce in capitolo nella politica del padre e del fratello, è talvolta rappresentata come una spietata avvelenatrice con mille amanti. A volte è anche considerata più come una vittima dei desideri della sua famiglia.
La diceria sul presunto incesto tra padre e figlia, accennata da alcune pasquinate e ribadita da Guicciardini, è rimasta nella conoscenza comune. Questa voce è sopravvissuta nei secoli ed è ancora riportata in alcuni romanzi contemporanei. Talvolta Cesare e Juan sono anche accusati di contendersi l’amore della sorella. Dumas, critico implacabile dei Borgia, colpevole di aver esasperato le voci sulla famiglia, descrive, in modo piuttosto fantasioso, la situazione amorosa all’interno della famiglia prima dell’elezione di Alessandro VI: «A quel tempo anche se non esistevano prove si discutevano fatti deplorevoli: le questioni riguardavano l’incesto tra padre e figlia così come tra fratelli e sorella. Ad un certo punto, per mettere fine a queste brutte voci, Rodrigo mandò Cesare a Pisa e trovò un giovane marito spagnolo per Lucrezia» (Dumas, 2019).
Tuttavia, l’amore incestuoso che acquisì più fama è quello tra Lucrezia e suo fratello Cesare. Questo può essere visto in quasi tutti i romanzi o serie televisive dedicate alla famiglia Borgia. Nel romanzo di Dumas, che raccoglie tutti i tratti negativi dei Borgia, la rivalità tra Juan e Cesare per l’amore della sorella può essere identificata nella causa dell’omicidio di Juan: «aveva avuto l’impressione che il suo amante incestuoso fosse diventato freddo nei suoi confronti. L’odio per il suo rivale era diventato così violento che decise di ucciderlo a tutti i costi» (Dumas, 2019).
Perché il tema dell’amore incestuoso tra i due fratelli e quello tra il papa e sua figlia è riportato poco nelle pasquinate? Mentre nel mondo contemporaneo sembra avere un interesse molto maggiore?
La risposta è che questi testi satirici erano principalmente politici. Le pasquinate esprimevano il malcontento creato dalle scelte politiche dei Borgia e venivano usate come mezzo di vendetta personale. Le motivazioni politiche alla base delle pubblicazioni delle pasquinate trasformavano i comportamenti in crimini molto gravi agli occhi dei contemporanei, tra cui la simonia, il nepotismo e la subordinazione della politica papale agli interessi della famiglia del pontefice. D’altra parte, l’incesto e altri scandali di natura privata non avevano particolare rilevanza politica e quindi non erano abbastanza interessanti o rilevanti per essere menzionati nelle pasquinate, se non solo superficialmente.
L’interpretazione moralistica di questi epigrammi e di altre testimonianze contemporanee da parte della storiografia del XVI secolo, che influenzò quella dei secoli successivi, diede più importanza alle colpe sulle quali le pasquinate non si soffermavano molto. Le storie sui Borgia si sono poi arricchite nel corso dei secoli di indiscrezioni e di dettagli spesso fantasiosi per rendere la storia ancora più allettante.
Gli autori di romanzi e di fiction che focalizzano la loro attenzione sui Borgia hanno tipicamente scelto temi che hanno un forte impatto sul loro pubblico: mentre la simonia e l’avidità di denaro non susciterebbero tanta meraviglia, le turpitudini commesse da Alessandro VI e le leggende sulla famiglia Borgia, rendono le narrazioni molto più avvincenti.

Sofia Degli Esposti
Sofia Degli Esposti è una studentessa di Scienze Storiche, indirizzo storia moderna, presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa principalmente della storia sociale, religiosa e culturale della prima Età Moderna. Appassionata di storia del papato, storia degli antichi stati italiani e storia religiosa, è interessata anche alla comunicazione storica.
Bibliografia
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