di Giulia La Cognata
Siamo abituati a pensare alla Storia come a un coacervo di battaglie e condottieri, un lungo elenco di date e una sterile analisi di istituzioni e magistrature: lo studio, quindi, di una realtà diversa e lontana, difficilmente assimilabile al nostro presente e, per questo, poco attraente o attraente giusto perché ci permette sforzi di astrazione, di evasione, di investigazione da moderni Sherlock Holmes del 7 di via Festa del Perdono. Dimentichiamo a volte che, sotto le tonnellate di carte e le miriadi di fonti, il nostro compito è «fiutare carne umana» (Bloch, 2009), ricercare l’uomo, le sue passioni, la sua quotidianità, i suoi colori al di sotto del bianco e nero delle parole. Sembra, quindi, interessante chiedersi: come viveva una donna spartana? Come cresceva un piccolo ateniese? Cosa doveva aspettarsi una giovane romana dalle nozze? Come si veniva al mondo e come lo si abbandonava in epoche e culture così differenti? La storia evenemenziale e la storia sociale si compenetrano e dialogano da sempre, ma per troppo tempo la prima è stata acclamata nelle accademie e nelle aule universitarie e la seconda relegata ad un ruolo marginale o ceduta senza troppi biasimi ad una diversa disciplina, la sociologia. La famiglia, nella sua semplicità, nella sua piccolezza di fronte alle grandi trattative fra Stati, ai gloriosi dibattiti politici, alle complesse dinamiche di guerra, offre una pluralità di interrogativi e di riflessioni, opportunità di ragionamento che ci permettono di delineare non solo una piccola realtà, ma un’intera società, un modo di pensare, un modo di vivere. L’adozione, con le sue infinite problematicità, ne è l’esempio principe: è scelta del presente, garanzia di un futuro e memoria del passato.

Da Achille e Fenicio ad Edipo e Polibo, da Mosè e la figlia del Faraone a Minosse ed Asterio: il mito e la letteratura offrono una pluralità di esempi di adozione. Eppure, si tratta di un istituto problematico, discusso, ambiguo, all’origine di molteplici teorie, dall’opera di Lévi-Bruhl al lavoro di Kaser, fino al più recente studio di Cobetto Ghiggia. Pionieristico è l’articolo di Goody del 1969, Adoption in Cross-Cultural Perspective, che evidenzia come «Nell’Europa occidentale, l’adozione ha 3 funzioni fondamentali: 1) offrire una casa ad orfani, figli illegittimi, trovatelli e bambini in situazioni di disagio; 2) fornire a coppie senza figli una progenie sociale; 3) concedere a individui e coppie un erede» (Goody, 1969). Società differenti prevedono, ovviamente, richieste e soluzioni diverse, ma possiamo comunque individuare alla base della pratica una «mancanza che occorre colmare» (Remotti, 2016): l’adozione sarebbe, dunque, «l’espediente che nella nostra società, come beninteso anche in altre, viene messo a disposizione per porre rimedio alle “falle”» (Remotti, 2016). Si tratta, pertanto, di una soluzione ricorrente, «connaturata con la storia dell’umanità» (Rossi, 2016) e, al tempo stesso, eccezionale, presente nelle più diverse culture, ma lasciata ai margini dagli storici e dagli antropologi fino ai tempi più recenti. Per dirla con le parole di Bowie, «L’adozione è uno dei segreti meglio tenuti della società occidentale» (Bowie, 2004), sempre in bilico fra la volontà di nascondere le origini del bambino e l’idea – circolante fra gli studiosi fino agli anni Settanta del Novecento – per cui parentela e famiglia non possano fare a meno dei “fatti fisiologici”, delle relazioni biologiche. Negli ultimi anni si è passati dal concetto di parentela “naturale” alla nozione di kinning, «un processo mediante il quale un feto o un neonato (oppure una persona non preventivamente collegata) è introdotto in una relazione importante e permanente con un gruppo di persone, e questa relazione viene espressa per mezzo di un idioma di parentela» (Remotti, 2016). Si tratterebbe di un “imparentamento”, ovvero di un’introduzione, un ingresso (in-) in una nuova parentela; un fenomeno, dunque, non soltanto legato all’adozione, ma anche alla nascita di un figlio biologico: «I figli vanno “fatti” sia come “esseri umani”, sia come “figli”», attraverso un’operazione di antropo-poiesi, «un processo dunque molto impegnativo, creativo e drammatico, come propriamente è ogni processo antropo-poietico» (Remotti, 2016).
1. L’adozione nell’antica Grecia
Tutti gli uomini, in punto di morte,
prendono misure precauzionali nel proprio interesse,
affinché la loro casa non rimanga abbandonata,
ma che rimanga dopo di loro qualcuno
che compia i sacrifici funebri.
Iseo, VII, Sulla successione di Apollodoro, 30
L’analisi della pratica dell’adozione nella Grecia antica è complessa per una pluralità di ragioni: la documentazione è in generale esigua, soprattutto per l’area dorica; ad eccezione di Gortina, città cretese che ci ha donato un ricchissimo corpus epigrafico, non abbiamo a disposizione informazioni dirette e provenienti da codici di leggi, ma solo opere di storici ed oratori; non si tratta di uno Stato omogeneo, ma di diverse entità politiche, le poleis, che si definivano “greche” solo di fronte ad un nemico comune. Un elemento presente nelle diverse realtà è, però, il carattere pubblico della cerimonia: a Sparta, come scrive Erodoto (Storie, VI, 57), l’adozione avveniva di fronte al re; a Gortina, il luogo prescelto era l’assemblea dei cittadini nell’agorà, con cui sia il popolo sia l’eteria dell’adottante ratificavano l’adozione; ad Atene, dopo la stipula di un contratto, si presentava l’adottato alla fratria – un raggruppamento di tipo familiare – e al demo – l’unità amministrativa e territoriale di base dell’Attica – per la ratifica. La presentazione, vista la similitudine con la procedura adottata coi figli naturali, avveniva probabilmente il terzo giorno delle Apaturie, festività religiose in cui si formalizzavano le nascite, i matrimoni e il passaggio all’efebia – la nostra maggiore età – dei cittadini ateniesi. Le fratrie assumevano in questa cerimonia un’importanza fondamentale come tramite fra la famiglia e lo Stato, divenendo con le riforme di Clistene «la condicio sine qua non per vedere riconosciuti i diritti alla cittadinanza e qualsiasi atto inerente al mutamento della compagine familiare, come un’adozione, [aveva] valore ufficiale solo se approvato in seno alla fratria stessa e, in seguito, registrato a livello di demo» (Cobetto Ghiggia, 1999). L’introduzione nella fratria serviva, infatti, a presentare il figlio, naturale o meno, come continuatore dell’oikos – l’unità parentale, residenziale ed economica del mondo greco – paterno, come legittimo successore per diritto familiare e sacrale, mentre l’iscrizione al demo offriva il riconoscimento nei confronti della polis. Più che focalizzarsi sulle analogie, è sempre interessante analizzare le differenze nel cerimoniale: ci concentreremo, quindi, sulle poleis di cui abbiamo maggiori informazioni. Come sottolineato da Cobetto Ghiggia, a Gortina, l’adozione si svolgeva di fronte a tutto il popolo riunito in assemblea e si concludeva con la celebrazione di un rito da parte dell’adottante in seno all’eteria. Ad Atene, la procedura si svolgeva, invece, a livello di fratria, senza il coinvolgimento di tutto il popolo, e comportava come prima cosa da parte dell’adottante il giuramento formale sulla cittadinanza dell’adottato. «Mentre a Gortina sia il popolo sia l’eteria sembravano limitarsi a prendere semplicemente atto e a ratificare la dichiarazione di volontà dell’adottante, ad Atene, invece, il ruolo giocato dalla fratria nell’ambito della procedura era attivo» (Cobetto Ghiggia, 1999). Non si tratta di puri formalismi, ma di divergenze significative: a Sparta e, parzialmente, a Gortina sembra essersi preservata una forma arcaica di adozione coram populo, mentre ad Atene, dal V secolo, è privilegiato l’aspetto privato. Potremmo, quindi, individuare tre fasi di sviluppo dell’istituto dell’adozione: un periodo arcaico, in cui non doveva esservi alcun tipo di formalità e requisito per l’adottato; l’età soloniana, in cui furono introdotte norme specifiche per adottante e adottato; la riforma clistenica, che sottrasse la procedura all’accordo privato per sottoporla al controllo dell’autorità pubblica, ovvero della fratria e del demo. È interessante notare che un figlio poteva essere adottato, ma anche disconosciuto. Gortina resta una fonte preziosissima di informazioni: l’adottante, dopo una dichiarazione pubblica, doveva depositare dieci stateri al tribunale, così che il μνάμων τῶν ξενιῶν (mnamon ton xenion) potesse consegnarli all’adottato. Questo ha portato alcuni studiosi a ritenere che gli adottati fossero, in realtà, figli illegittimi che, tramite l’adozione, potevano passare dalla classe di ἀπέταιροι (apetairoi), propria di artigiani e mercanti, non appartenenti all’eteria, al rango di cittadini di pieno diritto. Ad Atene, questo non è possibile: l’adottato doveva, infatti, possedere la cittadinanza pari iure a quella dell’adottante.

Il fine appare principalmente uno: «assicurare una discendenza legittima in grado di proseguire la famiglia sotto l’aspetto economico e legale, nei suoi rapporti con la polis, e soprattutto religioso», garantire la sopravvivenza dell’oikos, non solo per i suoi membri, ma per tutta la città. Alla luce di tutto ciò, Cobetto Ghiggia osserva: «Se il fine è quello di ricreare una discendenza quanto più possibile diretta, l’adozione deve sottostare ad una sorta di principio di imitatio naturae», così da creare un «legame diretto, sia pure artificiale, fra padre e figlio, senza il quale quest’ultimo non potrebbe svolgere il suo ruolo di nuovo capo dell’oikos» (Cobetto Ghiggia, 1999). Di conseguenza, numerosi sono i casi di adozione fra persone già legate da parentela, attraverso rami familiari collaterali, nella ricerca nella discendenza di uno stesso sangue, una stessa storia, precise qualità. Nella diversità individuabile fra le varie città e regioni greche e fra i modelli familiari da queste proposte, si può così evidenziare l’essenza fondamentale dell’oikos greco: una «comunità indivisibile di presenti, passati, futuri» (Bertelli, 1991), l’unione di individui e beni che si viene a sostanziare in un nome e nel patrimonio, i principali doni fatti da un padre al figlio. Viene così a crearsi un’ossessione per la paternità, quella ricerca spasmodica di prole che porterà Laio, nell’Edipo Re di Sofocle, a consultare l’oracolo di Delfi per ricevere la grazia – ottenendo, in cambio, proprio Edipo, noto per il tormentato rapporto con i genitori. La città ed il suo costante bisogno di nuovi soldati per ingrossare le fila dell’esercito e la propria stirpe, passata e futura, rendono necessario ad un greco essere padre, naturale o meno. Si delinea così come la paternità non sia solo un fattore biologico: come qualsiasi legame parentale, può, infatti, basarsi su criteri differenti, dal diritto, la legittimazione data dall’uomo all’uomo, alla nascita e la continuità dei corpi che questa viene a creare ed, infine, la religione con i suoi rituali di aggregazione (Wilgaux, 2017). La parentela è sempre un meccanismo poietico, creativo: nella concretezza della carne o nella astrattezza della legge, un figlio è sempre “fatto” attraverso un processo di poiêsis, di fabbricazione del legame.
2. Adrogatio e datio in adoptionem. L’adozione a Roma
L’italiano famiglia, l’inglese family, il francese famille, lo spagnolo familia: le lingue contemporanee rimandano tutte ad una stessa origine, la familia latina. Al pari dell’οἶκος greco, però, il termine va ben oltre l’immagine a noi nota dell’unione fra genitori e figli, designando, in realtà, non solo un gruppo di persone riunite sotto una medesima autorità, ma anche i beni materiali di queste. Individui e cose, dunque, posti sotto l’egida di una stessa figura: il paterfamilias, l’unico a disporre di piena autonomia giuridica – su sé stesso, il proprio patrimonio, i propri parenti e, in generale, tutti quelli che vivevano sotto il suo stesso tetto, liberi o meno. Diventare filii familias, ovvero soggetti – al pari delle donne e dei servi – privi di capacità giuridica, alieni iuris, era possibile attraverso vie differenti, rispondenti sempre ai criteri diversi della biologia e del diritto: la nascita da un matrimonio legittimo, l’adozione o, dall’età post-classica, la legittimazione. Nel primo caso, si cadeva così sotto la potestas del padre naturale o, nel caso questi fosse stato un filius familias, dell’avo che esercitava la patria potestà. Nel secondo, si deve per prima cosa distinguere fra adrogatio, ovvero l’adozione di un soggetto sui iuris, e adoptio, pratica che riguardava gli alieni iuris.
Focalizziamoci sull‘adrogatio: con questo istituto, un soggetto sui iuris perdeva la potestà su sé stesso e cadeva sotto la patria potestà dell’adrogante, entrando nella sua familia in qualità, appunto, di filius familia. La cerimonia era solenne: di fronte alle trenta curie dei comitia curiata, presiedute da un pontifex, venivano prima interrogati adottante e adottato circa la loro volontà in merito all’adrogatio e poi il popolo, che dava il proprio consenso. Il termine “adrogatio” – dall’unione fra “ad” e “rogatio” – fa riferimento proprio a queste richieste parlate, una costante per una cultura in cui costumi, rituali, leggi, ricordi erano espressi e ricordati a voce, «per via aurale» (Bettini, 2022). L’adrogato, oltre ad acquisire il nomen e il cognomen della nuova famiglia, diveniva partecipe dei suoi sacra, i rituali domestici, e titolare dello ius sepulchri, il diritto ad essere tumulato in una determinata sepoltura. Fondamentale era proprio la trasmissione dei sacra di padre in figlio, con una rigida osservanza delle norme di culto – ortoprassia –, tipica delle religioni classiche. La famiglia romana, infatti, rappresentava una piccola comunità religiosa fondata sulla devozione agli antenati della linea paterna, i di parentes (Franciosi, 1995). Nella preoccupazione costante del paterfamilias di assicurare la perpetuazione dei sacra, l’adrogatio assicurava, in mancanza di eredi naturali, la sopravvivenza del culto e della memoria del passato. Le fonti – e, in particolare, le commedie, interessantissime per gli scorci di vita quotidiana – ribadiscono l’importanza primaria del paterfamilias nei rituali domestici, soprattutto per quanto riguarda la pratica fondamentale della religione romana: il sacrificio. Donne e figli non erano che attori secondari e marginali dell’atto sacrificale, che, per portare vantaggio all’intera famiglia, non poteva che essere fatto dall’unico detentore della patria potestas. Emblema di questo atteggiamento è un passo del Rudens di Plauto (versi 1206-1207):
Prepara ciò di cui c’è bisogno perché io offra
rientrando un sacrificio ai Lari della nostra famiglia,
dato che l’hanno appena accresciuta.
“Perché io offra”: è chiaramente il paterfamilias a presiedere, organizzare ed operare nella pratica il culto domestico, e una simile responsabilità non può che trasmettersi di padre in figlio.

L’adoptio, diversamente, non consisteva in un passaggio da uno status di sui iuris ad uno di alieni iuris, ma da una famiglia all’altra, sempre in qualità di filius familias. In questo caso, l’adottato acquisiva il nomen e il cognomen della nuova famiglia, ma conservava il proprio gentilizio, a cui veniva unita la desinenza “-anus” – e immediato è l’esempio di Octavianus Augusto. Il pater familias che voleva dare il proprio figlio in adozione doveva manciparlo per tre volte, come stabilito dalla Legge delle XII Tavole, la quale prescriveva, per il padre che avesse venduto per tre volte il figlio attraverso la mancipatio, la perdita su questi della patria potestà. Ovviamente, oltre a garantire una trasmissione di beni simbolici – un nome, un culto -, l’adozione aveva anche importanti risolvi politici, come la possibilità di passaggio fra la plebe e il patriziato, e viceversa. Ne è esempio per antonomasia Clodio, membro della gens dei Claudii, divenuto tribuno della plebe nel 58 a.C. grazie all’adrogatio compiuta dal giovane plebeo Fonteio – poi contestata da Cicerone per la disparità di età fra il politico e il plebeo, che non rispettava la massima Adoptio naturae imitatur (“L’adozione imita la natura”). L’istituto dell’adozione rimase un fenomeno di primaria importanza per tutta la storia romana, dall’età repubblicana fino all’impero bizantino, tanto da prestare il nome ad un periodo di splendore e grandezza quale il II secolo d.C.: l’età degli imperatori adottivi.
3. Un desiderio di immortalità?
Appare ora importante chiedersi: perché l’essere umano desidera da sempre una prole? Perché arriva ad adottare, a sopperire col diritto, quando non può avere figli naturali? Sicuramente vi è la necessità comune di un supporto nella vecchiaia, ma è suggestivo ricordare anche un aspetto fondante e fondamentale per le società umane: il bisogno atavico di immortalità, di lasciare qualcosa di sé dopo la morte. Per dirla con le parole di Dixon, «Soprattutto, i figli conferiscono una sorta di posterità ai loro genitori e a tutte le generazioni precedenti […]. Essi ereditano non solo beni concreti come case, terre, affari, schiavi e gioielli, ma anche beni intangibili come il nome e l’onore della famiglia e gli obblighi che li accompagnano – la continuazione del culto familiare e la commemorazione specifica e rituale di individui come genitori, zii e zie che essi ricordano, così come la conservazione delle tradizioni familiari, sia che si tratti di storie orali che di immagini (ritratti ancestrali) che di documenti provenienti da uffici pubblici. La sola idea che i figli sopravvivano a una persona può essere una fonte di conforto e di una qualche pretesa di immortalità» (Dixon, 1992). L’adozione rappresentava la soluzione perfetta, lo strumento più ovvio per assicurare i benefici dati dalla prole a chi non ne aveva: una promessa di orgoglio, prosperità e supporto materiale ed emotivo per i propri genitori, l’impegno a generare figli a propria volta e, non da ultimo, l’idea di conferire una sorta di immortalità.
Questo ragionamento non deve sorprendere, non solo perché le certezze fondamentali dell’uomo sono sempre due, nascere e morire, ma soprattutto perché le società passate hanno saputo sviluppare un rapporto e un dialogo con la morte più pacifico, quotidiano e naturale rispetto alla realtà contemporanea. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si è venuto a definire uno scenario connotato dalla censura della finitudine, una rimozione collettiva della nostra limitatezza, una proiezione della nostra mortalità in un universo altro. Eppure, fino all’Ottocento la morte rappresentava un momento di aggregazione: pubbliche erano le processioni funebri, pubbliche le esecuzioni capitali. Nella costante visione della morte, l’uomo non poteva che desiderare di sopravvivere, se non nel corpo, nella storia. Lasciare nel mondo un segno tangibile resta la nostra volontà finale: che sia un figlio o una pietra col nostro nome, un’opera d’arte o una grande idea, desideriamo da ultimo non essere passati in silenzio, non essere condannati all’oblio.

Giulia La Cognata – Scacchiere Storico
Giulia La Cognata è una studentessa del corso di laurea in Scienze Storiche dell’Università degli Studi di Milano. Appassionata di storia antica e antropologia del mondo classico, i suoi interessi includono la storia sociale e della famiglia, la storia della medicina e la memoria collettiva.
Bibliografia
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