di Michele Gatto & William Puppinato
1. Il contesto storico
Nel corso del VII e dei primi anni dell’VIII secolo, il baricentro dell’Impero bizantino si era spostato nella penisola anatolica. Non si trattò di una scelta strategica volontaria, ma fu determinata dallo sfondamento nemico delle frontiere: tanto a nord quanto a est e a sud, infatti, Bisanzio subì disastrose sconfitte, che la costrinsero ad abbandonare ampie regioni periferiche. I maggiori responsabili di questo arretramento furono i popoli slavi e gli eserciti mussulmani.
Le frontiere settentrionali erano sottoposte da tempo alla penetrazione delle popolazioni slave. Il Danubio, antico confine dell’Impero romano d’Oriente, era stato attraversato sin dal VI secolo da gruppi che si spostavano verso sud (Ostrogorsky, 1963). Bisanzio, che aveva spostato le proprie truppe a est per fronteggiare prima i Sasanidi e poi i mussulmani, non era stato in grado di arrestarli, ed essi ebbero campo libero. Alcuni di loro giunsero fino in Macedonia ed in Grecia, dove rimasero per oltre due secoli (Ševčenko, 1984), ma la vera spina nel fianco dell’Impero era costituita dal Regno bulgaro. Stanziati nelle terre dell’antica Tracia verso la fine del VII secolo (Ostrogorsky, 1963), i Bulgari si dimostrarono avversari capaci e tenaci, e ben presto divennero attori politici di primo piano. Ne è un esempio la vicenda di Giustiniano II, l’ultimo rappresentante della dinastia degli Eraclidi: dopo essere stato detronizzato, egli si risolse nel 705 a chiedere proprio il loro aiuto per recuperare il trono, arrivando ad offrire il titolo di Cesare (una carica seconda solo all’imperatore) al khan Tervel per poter ottenere il loro sostegno. Era la prima volta che il titolo di Cesare veniva assegnato ad un barbaro, per di più pagano (Gallina, 2008).

Guidate da uomini capaci e animate da un fortissimo zelo religioso, le truppe del Califfato si erano dimostrate avversari potentissimi. Con gli attacchi all’Egitto e alla Siria, nonché quelli alla Persia, Bizantini e Sasanidi erano stati surclassati, e già a metà del VII secolo gli Arabi poterono affacciarsi sul Mar Mediterraneo (Gallina, 2008). Da quel momento, le forze mussulmane presero il posto dei Persiani come avversari dell’Impero bizantino ad Oriente, e tra le due potenze iniziò una vera e propria lotta per l’egemonia. Ma, nonostante alcuni risultati favorevoli ai Bizantini (come l’impresa dell’imperatore Costante II), la bilancia degli scontri fu sempre favorevole agli eserciti del Califfato. Senza contare il dilagare, tanto nel Mediterraneo orientale quanto in quello occidentale, delle flotte arabe, dedite in massima parte alla pirateria e alla razzia dei centri costieri. La loro forza fu tale che poterono assaltare direttamente Costantinopoli tra il 674 e il 678. L’espansione araba proseguì anche lungo le coste del Nordafrica, dove i possedimenti bizantini vennero aggrediti e conquistati senza che potessero essere inviati rinforzi. L’ultima roccaforte, la città di Cartagine, venne conquistata nel 698. I Bizantini erano stati cacciati definitivamente dalle coste dell’Africa (Gallina, 2008).
Alle sconfitte militari subite e all’arretramento delle frontiere, si aggiungeva una forte instabilità interna, dovuta tanto a questioni religiose (le diatribe teologiche tra le diverse correnti del cristianesimo, come il monofisismo, furono costanti per tutto il VII secolo e oltre) quanto a problemi di natura politica. Particolarmente deleterie furono le lotte che scoppiarono alla caduta della dinastia eraclide. Tra il 711, anno della morte di Giustiniano II, e il 718, l’Impero bizantino fu scosso da un periodo di sostanziale anarchia, durante il quale non meno di sei candidati tentarono, senza successo, di imporsi sul trono. Gli scontri per il titolo imperiale non fecero altro che favorire le ambizioni degli Arabi, che nel 716 furono liberi di lanciare una nuova grande offensiva. Mentre gli eserciti bizantini erano impegnati a combattere tra di loro, infatti, le truppe mussulmane poterono dilagare in Asia Minore, per poi arrivare fin sotto le mura di Costantinopoli. La città venne posta sotto assedio a partire dal 717 (Ostrogorsky, 1963).

In quel momento di grave difficoltà, divenne imperatore un generale, lo stratega del thema anatolico, con il nome di Leone III. Uomo duro ma dotato di buone capacità diplomatiche e soprattutto di ottime capacità militari, Leone riuscì a ribaltare le sorti dell’Impero: non solo pose fine alla fase di anarchia, ripristinando l’autorità del potere centrale, ma riuscì anche a respingere le forze mussulmane nel 718, allontanandole da Costantinopoli e liberando la città dall’assedio. Dopo anni di sconfitte, era arrivato finalmente il momento della riscossa. Naturalmente fu necessario del tempo, ma grazie al consolidamento del sistema tematico, alla maggiore stabilità interna raggiunta e all’alleanza con i Cazari, popolo delle steppe a nord del Mar Nero, lo stesso Leone III fu in grado di cogliere una vittoria contro i mussulmani ad Akroinos, nel 740 (Ostrogorsky, 1963). Questa battaglia, come già il precedente successo del 718, fu decisiva non solo per le sorti dell’Impero, che poté arrestare l’avanzata del Califfato verso ovest, ma anche per l’intera Europa: di fatto, Bisanzio divenne l’argine orientale della cristianità, e la vittoria ad Akroinos, più della battaglia di Poitiers di pochi anni prima, fu fondamentale per impedire un’invasione mussulmana dell’Europa (Gallina, 2008). Naturalmente, la sconfitta degli Arabi non fermò le loro incursioni marittime e la loro espansione territoriale, ma su quel fronte i conflitti tra il Califfato (nel frattempo passato alla dinastia Abbaside) e l’Impero bizantino si trasformarono in guerre di confine, e la sopravvivenza di quest’ultimo non fu più messa in discussione. La controffensiva contro i nemici dell’Impero proseguì poi con il successore di Leone, suo figlio Costantino V: seguendo le orme del padre, egli affrontò e sconfisse gli Arabi, respingendoli definitivamente dall’Asia minore, per poi dedicarsi, a partire dal 756, allo scontro con i Bulgari, che si erano fatti sempre più minacciosi. Contro di loro lottò fino alla morte, avvenuta nel 775 (Ostrogorsky, 2014). Nonostante le loro imprese, tuttavia, entrambi subirono una dura condanna da parte delle fonti successive a causa del loro sostegno all’iconoclastia: sottoposti alla damnatio memoriae, essi passarono alla storia come “empi” e “precursori dell’anticristo” (Bergamo, 2011). Cercheremo ora di spiegare brevemente gli aspetti principali della controversia.
2. Le teorie iconoclaste ed i loro effetti iconografici
La controversia iconoclasta ebbe aspetti teorico-pratici che influenzarono in modo decisivo il culto e la realizzazione delle immagini sacre anche dopo la sua fine, avvenuta nell’843.
Innanzitutto, bisogna sottolineare come il fenomeno dell’iconoclastia fu particolarmente complesso e coinvolse tutta la società bizantina, non riguardando perciò solo la sfera religiosa: vennero infatti messi in moto dei processi relativi alla figura imperiale e ai rapporti tra lo Stato, la Chiesa, ed alcune sue componenti, in particolare i monaci. Indubbiamente, Leone III aveva subito l’influenza di persone ed ambienti legati al monofisismo e avversi al culto delle icone (Passarelli, 2002), oltreché forse della cultura araba ed ebraica (Ostrogorsky, 2014), così in seguito al terremoto e all’eruzione di Thera (l’odierna Santorini) del 726, che interpretò come segni della collera divina, diede inizio alla sua politica iconoclasta facendo rimuovere l’immagine di Cristo dalla Chalkè, la porta bronzea del palazzo di Costantinopoli (un gesto scatenante la reazione violenta della folla che uccise sul posto l’ufficiale imperiale incaricato), fino ad arrivare all’editto contro le immagini del 17 gennaio 730 (Passarelli, 2002; Gallina, 2008; Ostrogorsky, 2014).

In effetti, questa decisione mise in pratica teorie enunciate già da tempo dai sostenitori dell’iconoclastia, ovviamente contrastate dagli iconoduli (favorevoli alle icone), germogliate sul terreno fertile di diatribe cristologiche come l’irrisolto problema, specialmente in Asia Minore, del monofisismo. Un esempio di questo dibattito è lo scambio epistolare tra il patriarca Germano e il vescovo di Nakoleia, Costantino, avvenuto nel 726: il primo, giustificava il culto delle immagini di Cristo, perché ne ricordavano solo la venuta nel mondo, e quelle della Vergine e dei santi, semplici esempi storici da imitare; il secondo, paragonava il culto delle icone all’idolatria e al politeismo. Gli iconoclasti, in sostanza, ritenevano legittime le sole immagini della croce e dell’eucarestia, sebbene una loro vera e propria teologia scritta si ebbe solamente con Costantino V, il quale oltre a trascinare la questione dal piano disciplinare a quello teologico-dogmatico, affermò che raffigurare Cristo significava separarne l’umanità dalla divinità oppure sottoporre la seconda alla prima; seguendo la tradizione neoplatonica, Giovanni Damasceno replicò invece la simbolicità delle icone, intermediarie presso la divinità incarnata. Il Concilio del 754, cominciato nel palazzo di Hieria e conclusosi presso il santuario costantinopolitano delle Blacherne, vide l’imperatore (insieme ai soli vescovi iconoclasti) condannare il culto delle icone: in particolare, oltre alle tesi già accennate, venne sottolineato come l’icona fosse fatta di colore, quindi di materia inerte, conducendo i fedeli all’adorazione di un idolo e all’eresia nestoriana o ariana; di conseguenza, si condannò la stessa pittura e l’apposizione su di essa del nome di Cristo (Passarelli, 2002; Gallina, 2008; Ostrogorsky, 2014). In tutto l’Impero le immagini sacre furono distrutte e sostituite dall’arte profana, come già con Leone III l’iconografia imperiale aveva sostituito quella sacra nelle chiese e negli edifici pubblici (Gallina, 2008; Ostrogorsky, 2014); ma appena la situazione politica lo permise, la reazione degli iconoduli (in particolar modo dei monaci, i più colpiti dai provvedimenti) non si fece attendere, culminando nel secondo Concilio di Nicea del 787, svoltosi alla presenza del giovanissimo Costantino VI e della reggente Irene. Fu infatti riaffermata la possibilità di dipingere Cristo, la cui incarnazione e resurrezione avevano conferito nuova dignità alla materia: le sue immagini rimanevano un semplice prototipo evocativo degno di venerazione e non di adorazione, ma la presenza del nome ne conteneva ed esprimeva la divinità ed umanità; anche per questo, l’eucarestia, nella quale Cristo era realmente presente, non poteva essere assimilata alle immagini. Inoltre, il colore non andava disprezzato perché diventava tutt’uno con la figura, nonostante l’artista dovesse sempre dipingere seguendo i canoni stabiliti dai teologi. All’immagine veniva quindi conferita pari importanza della parola, ed entrambe avrebbero condotto alla vera conoscenza, mentre per gli iconoclasti solo la seconda era importante. Queste opposte visioni, a causa delle loro implicazioni politiche, provocarono instabilità nell’Impero, nonostante contemporaneamente abbiano favorito un perfezionamento delle teorie iconofile, soprattutto grazie a Teodoro Studita e Niceforo, giunte ad una vittoria definitiva con il sinodo dell’843 (Passarelli, 2002).
Il culto delle icone andò rafforzandosi in seguito alla controversia iconoclasta. In precedenza, la devozione dei fedeli costantinopolitani si rivolse soprattutto su oggetti come le reliquie o gli acheiropoietoi (immagini sacre non realizzate dall’uomo ma lasciate come un’impronta da Cristo o dalla Vergine), portati in processione: prima dell’iconoclastia, a Costantinopoli non abbiamo che poche tracce (dubbie) di rituali pubblici nei quali vennero esposte icone; in diversi casi infatti possono considerarsi tradizioni risalenti a periodi post-iconoclasti proiettate indietro nel tempo. Solamente a partire dalla seconda metà del X secolo le icone sostituirono le reliquie, venendo mostrate in pubblico o al seguito degli imperatori durante le campagne militari (Pentcheva, 2010). È interessante considerare inoltre come a Costantinopoli le icone principali fossero quelle mariane: in particolare, tra le tante (Sibilio, 2005), l’icona Hodegetria raffigurante il Bambino sorretto dalla Vergine col braccio sinistro mentre fa un cenno in sua direzione con la mano destra, e l’icona Blachernitissa, nella quale di fronte alla Vergine orante era presente un medaglione di Cristo; la prima veniva considerata l’icona protettrice di Costantinopoli, la seconda invece proteggeva gli imperatori in battaglia (Pentcheva, 2010).

Dal punto di vista stilistico, se le icone erano caratterizzate da una rigida simmetria ed immobilità, oltreché da uno sfondo dorato riferito alla luce divina, fu però proprio la controversia iconoclasta a provocarne un’evoluzione artistica partendo dai precetti teologici iconoduli, in particolare quello dell’incarnazione. Si svilupparono così due tendenze: una preponderante indirizzata alla sacralizzazione dell’icona, dove le figure risultavano ulteriormente stilizzate; un’altra risultata dalla cosiddetta Rinascenza Macedone (IX-XI secolo), nella quale Cristo veniva umanizzato per favorirne l’avvicinamento ai fedeli. Durante l’XI secolo queste due tendenze si fusero portando alla nascita del classicismo bizantino (Velmans, 2002).
In un certo senso, qualcosa di simile ha riguardato anche l’iconografia monetale: prima dell’iconoclasmo, temendo potessero essere profanate dalla natura commerciale del supporto, le immagini sacre in pratica si limitarono alla croce e solo in rarissimi casi, con Anastasio e Giustiniano II, venne apposta sulle monete la figura di Cristo (Panvini Rosati, 1992). Ovviamente Leone III (e di conseguenza gli altri imperatori iconoclasti) adottò unicamente il tipo della croce, eliminato dal solidus in oro ma apposto sul miliaresion, una nuova moneta argentea, con la legenda IhSVS XRISTVS nICA, ripresa in parte da Costantino V sui suoi follis di bronzo (Moorhead, 1985). L’immagine di Cristo ricomparve dopo l’iconoclastia sulle monete auree di Michele III, diventando sempre più frequente tra il IX e il X secolo: in genere ne veniva rappresentato il busto, oppure la figura seduta sul trono, benedicente e con i vangeli; sempre in questo periodo fu introdotta l’immagine della Vergine, che assunse il ruolo svolto in passato dalla Vittoria, raffigurata mentre regge lo scettro a forma di croce insieme all’imperatore (come nelle monete di Niceforo Foca) o mentre lo incorona (ad esempio con Giovanni Zimisce) (Pentcheva, 2010). Successivamente, furono introdotti nuovi tipi, anche più elaborati, nei quali la Vergine regge il Bambino oppure è orante col medaglione di Cristo sul petto (Panvini Rosati, 1992).
3. L’Italia e le conseguenze dell’iconoclastia
Le decisioni di Leone III vennero applicate in tutto l’Impero bizantino. In Italia, tuttavia, gli editti iconoclasti ebbero delle conseguenze particolari. La situazione qui, d’altronde, era più complessa rispetto ad altre regioni dell’Impero. Il dominio bizantino era infatti conteso dal regno dei Longobardi, che controllavano il grosso della penisola. Complice il disinteresse di Costantinopoli per i territori italiani, i re longobardi avevano potuto allargare i confini del proprio regno dell’esarcato di Ravenna e degli altri territori bizantini nell’Italia settentrionale e centrale. Considerato, poi, lo stato di isolamento in cui si trovavano, gli stessi esarchi erano sempre più propensi a cercare di rendersi indipendenti dal potere centrale. In questo contesto, i rapporti tra Costantinopoli e Roma avevano raggiunto i minimi storici. Per comprendere quale fosse il clima in quegli anni, si pensi al rifiuto che Gregorio II oppose all’applicazione dell’editto iconoclasta di Leone III del 730. Tra i due vi fu uno scambio epistolare, in cui l’imperatore aveva minacciato di punire personalmente il pontefice. Per tutta risposta, quest’ultimo gli augurò che un demone potesse torturare il corpo mortale dell’imperatore stesso, per poter liberare almeno la sua anima nel giorno del giudizio (McGuckin, 1993). Ma la questione iconoclasta non fece altro che acuire i già forti contrasti tra i pontefici e gli imperatori, che aveva spinto i primi ad attuare una politica sempre più spiccatamente antibizantina (Ostrogorsky, 2014). Così, quando nel 751 Ravenna cadde in mano longobarda (Sibilio, 2011), il papato poté cogliere l’occasione di emanciparsi dal controllo di Costantinopoli. Tuttavia, per non cadere assoggettato ai Longobardi, fu costretto a trovare nuovi protettori, più concilianti nei loro confronti. La scelta, quantomai felice, ricadde su Pipino, maestro di palazzo del regno dei Franchi. Con l’incoronazione di quest’ultimo, appoggiata da papa Zaccaria, Roma guadagnò un alleato che la protesse dalle ambizioni longobarde. Costantinopoli, ormai, era stata esclusa dall’Italia centrale (Sibilio, 2011).

Michele Gatto – Scacchiere Storico
Michele Gatto è uno studioso dell’antichità greca e romana, in particolare della Grecia in età classica e di Roma in età imperiale. È specializzato in numismatica antica. I suoi interessi arrivano a comprendere inoltre la storia bizantina.

William Puppinato
William Puppinato è uno studioso di storia antica. I suoi interessi si concentrano principalmente sul tardo antico romano, periodo in cui si sta specializzando, e sulla tarda repubblica romana, ma non mancano fugaci immersioni nella storia greca e preromana, oltre che nella storia medioevale.
Bibliografia
Bergamo N. 2011, La famiglia dannata: Leone III e Costantino V, vita di due empi tiranni, imperatori di Bisanzio in “ΠΟΡΦΥΡΑ. Bisanzio, narrazione di una civiltà colta: 330-1453” 15, pp. 31-44; Gallina M. 2008, Bisanzio. Storia di un impero (secoli IV-XIII), Roma; McGuckin J.A. 1993, The Theology of Images and the Legitimation of Power in Eighth Century Byzantium, Columbia University; Moorhead J. 1985, Iconoclasm, the cross and the imperial image, in “Byzantion” 55, pp. 165-179; Ostrogorsky G. 1963, Byzantium and the South Slavs, in “The Slavonic and East European Review”, vol. 42, no. 98, pp. 1-14; Ostrogorsky G. 2014 (rist.), Storia dell’impero bizantino, Torino; Panvini Rosati F. 1992, s.v. Bizantina, Arte,in Enciclopedia dell’Arte Medievale,Roma, pp. 517-536; Passarelli G. 2002, Iconoclasmo. Storia e teologia, in T. Velmans (a cura di), Il viaggio dell’icona. Dalle origini alla caduta di Bisanzio, Milano; Pentcheva B.V. 2010, Icone e potere. La Madre di Dio a Bisanzio, Milano; Ševčenko I. 1984, Byzantium and the Slavs, in “Harvard Ukrainian Studies” 8, pp. 289-303; Sibilio V. 2005, Il rapporto tra religione e civiltà a Bisanzio – Alcuni aspetti, in “ΠΟΡΦΥΡΑ. Bisanzio, narrazione di una civiltà colta 330-1453” 6, pp. 71-84; Sibilio V. 2011, Dall’airetikos basileus all’orthodoxus imperator: la prima iconoclastia vista da Roma e la nascita dell’Occidente latino in “ΠΟΡΦΥΡΑ. Bisanzio, narrazione di una civiltà colta: 330-1453” 15, pp. 45-94; Velmans T. 2002, Lo stile dell’icona e la regola costantinopolitana. I Balcani e la Russia (VI-XV secolo), in T. Velmans (a cura di), Il viaggio dell’icona. Dalle origini alla caduta di Bisanzio, Milano.
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